Cosmo
La sorte ha
fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni
affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi genitori materni. Perciò il mio
ombelico mentale e affettivo è, fin dai miei primi anni, la casa di nonna
Annetta con quanto ci stava dentro e attorno.
Proprio quella
casa, con tutte le sue pietre, usci, angoli e meandri, con tutte le voci umane
e animali, con tutti i rumori, con tutti i suoni, gli echi e i tramestii, con
tutti gli odori e i sapori; con le ore del giorno alle sue porte, con le notti
da presepio senza vento sul tetto, col cielo appoggiato sui pianori dei colli
circostanti come il prezioso coperchio d’una scatola di fango dissimulato nel
lucore rossastro dei lumi, con le minuscole inferriate a croce per il cui mezzo
la casa si affacciava sul retro, offrendosi avaramente all’incanto dei
pleniluni spalmati sull’oliveto d’argento, immobile come un reperto nella sua
teca. Quella casa, dalla geometria primordiale, aperta ai quattro punti
cardinali, eppure difesa dalle sue “amazzoni” (nonna Annetta e le ziette), ora
esiste tale solo nella mia mente, perché l’ho amata e coltivata nella memoria,
quasi come “su log’e s’anima”.
E ho amato il
fangoso paese che la conteneva – Gesòli - di cui la casa dei nonni era una
specie di centro sociale e commerciale e, direi, anche un portale d’ingresso e
di vigilanza verso stranieri e forestieri, aggressivi o mansueti che fossero.
Ho amato la sua
gente, non come folla, ma come persone individuate e individuabili; anche
quelle che m’incutevano qualche timore. Forse perché erano osservabili da
vicino? Non so.
Faccio un
esempio: tziu Cosiminu. Tziu Cosiminu Prata. Lo designavano così, col nome e
col cognome.
Sentito
pronunciare più volte, senza aver individuato la persona, un nome così mi
parlava di bonomia, mi evocava un’immagine ilare, amichevole.
Ed ecco che una
sera, ospite dei nonni, avevo percorso in discesa la piccola rampa di scale che
dalla lolla menava alla pedana di
legno posta dietro il bancone della mescita. Credo che mi fossi soffermata sul
penultimo gradino per vedere meglio e anche per essere meglio notata. Perché le
mie apparizioni erano oggetto di notifica e di convenevoli da parte di diversi
astanti.
“Ah, ahn! Teneis
istrangius! Sa pipìa de Domtiilla, beru?” rivolti alla zia Dora. E a me: «Come ti chiami? Ti piace stare dai nonni,
eh? E Gesòli? Ti piace Gesòli? Gesòli è una città … eh eh? Che … se ne trovano poche. Vero?».
Ecco, io
esistevo! Non ero un ente senza consistenza e senza ombra, come in genere
succede ai bambini, specialmente a quelli poco fastidiosi. Mi si chiedeva
inoltre del babbo, della mamma, mi si raccomandavano i saluti per loro. Ne
ricavavo una sensazione così netta e bellissima, come in nessun altro luogo e
in nessun altro tempo mi è accaduto.
Però quella
particolare sera c’era molta animazione - ignoro il perché - tra gli avventori
della mescita, disposti in gruppetti circolari, bicchieri in mano. Fra costoro
notai una persona che mi pareva discordante rispetto al contesto. Infatti il
suo cranio calvo e la sua faccia erano bianchi e lucidi a paragone delle altre
facce e degli altri crani, cotti dal sole e segnati dalla fatica.
Aveva un grosso
ventre sulle gambe corte, indossava calzoni, panciotto e giacca di panno,
invece che brache di fustagno coperte di toppe. Ma ciò che m’incuriosì erano
una specie di barbetta a collana che gli cerchiava il grasso collo da un
orecchio all’altro e due occhialini pinza-naso assolutamente alieni rispetto
alla mia esperienza in fatto di occhiali. Da lì scoccava l’occhiata arcigna dei
suoi piccoli occhi puntati su di me in modo malevolo, mi pareva.
Mi sarei
aspettata di sentirgli usare un idioma forestiero e insieme autoritario come la
sua espressione; oppure sonoro e un po’ arrogante come quello dei castagnai e dei “gabilli”.
Sì, perché anche
costoro affollavano al momento la mescita. Arrivavano dal “Cabesusu”,
conducevano le greggi a svernare attraverso la Trexenta nel Campidano, al
pascolo brado. Tornavano d’estate, dopo il raccolto, per il pascolo delle
stoppie.
Invece l’uomo
parlava con lo stesso accento dei locali, senza un briciolo di prestigio in più
nel tono; piuttosto con maggiore rozzezza, mi parve. Conclusi che era un
cittadino di Gesòli. Perciò mi avvicinai a zia Dora e all’orecchio le chiesi
chi fosse “quell’uomo cattivo”.
«Cattivo?» E zia Dora passò in rassegna i clienti con
un’occhiata. «Indicamelo. Ma non fare
gesti, eh!»
«Quello con gli occhialini», le soffiai tra i capelli.
«Ma, no. Quello è tziu Cosiminu Prata. Sembra
a te così, ma è bravo». E mi sbolognò dal bar.
Qualche anno più
tardi realizzai di aver trovato il sosia vivente del ritratto di Camillo Benso,
Conte di Cavour, stampato in un mio libro scolastico.
Capitò anche che
fossi mandata a casa sua, una volta: la zia Dora gli inviava per mio tramite il
suo orologio per una riparazione.
Non mi rendevo
ragione del perché lei prediligesse gli orologi maschili, pur essendo la
gemella di zia Ottilia e si abbigliasse come lei, molto femminilmente, per la
messa della domenica. Vero è che, a una mia più matura osservazione, zia Dora
appariva alquanto impacciata e quasi fuori posto dentro le sagome di certi
vestiti destinati a sottolineare il portamento femminile e a esprimere un buon
pizzico di elegante civetteria. Proprio questa mi affascinava invece in zia
Ottilia, combinata con quella sua voce sommessa, ma limpida, e quel suo
fraseggio signorile, quasi mai brusco. Zia Dora aveva invece un parlare
sbrigativo, secco, che non ammetteva repliche; e per quanto fosse piccola e
esile, manifestava un contegno spigoloso e poco aggraziato. Dunque, malgrado la
gemellanza, le due ziette si somigliavano poco ai miei occhi. E ancora meno
quando, in virtù della tradizione e della moda paesana, uscivano insieme
abbigliate, calzate e incappellate in un’identica foggia.
Quanto al signor
Cosimino (mai avrei dato dello “zio”
a quell’uomo!), in quella circostanza fece mille convenevoli
e cerimonie, idealmente destinati alla committenza, a cui opposi un assoluto
mutismo costringendolo a un rapido commiato. Capii che non era orologiaio di
professione, ma “per passione e per
compiacere le amicizie di
riguardo”. Così aveva
detto stringendo le labbra con sussiego e come rivolto a un pubblico che non
vedevo, ma parlando italiano, questa volta. Però, tanto allora che dopo,
conservai nei suoi riguardi la prima negativa impressione, non del tutto
esente, nel seguito, dagli effetti di certi liberi discorsi che mia madre intrecciava
con sua madre o con mio padre.
In effetti il
vecchio orologiaio, tziu Titinu Porru, era morto e non ve n’era un altro in
paese. In tal modo Cosimino Prata arrotondava il suo non troppo lauto
stipendio, senza dare a intendere di averne bisogno e poter ben figurare nel
gruppo dei notabili.
Era, niente
meno, un impiegato del Comune. Sedeva alla scrivania di un ufficio pieno di
carte legate con dei nastri anneriti. Intingeva la penna dentro grossi calamai
di vetro e ogni po’ dava dei colpi secchi di timbro sui fogli. E quella volta
zia Dora ne ebbe uno che arrotolò con cura dentro un altro foglio, per il quale
ringraziò con deferenza prima di congedarsi.
Era questa la
ragione della pallida e pingue burbanza dell’uomo e del suo distinto, ma
frusto, abbigliamento.
In coincidenza
mi torna distintamente alla memoria anche tziu Titinu, perché, sordo com’era,
si faceva gridare le parole dentro una specie di trombetta che teneva
appoggiata all’orecchio. Ciò mi meravigliava non poco. E così una volta mi ero
accostata a lui per veder da vicino quel curioso strumento. Egli mi fece della
domande e io, per rispondergli, mi vidi costretta a guardare il lungo e folto
pelame delle sue orecchie. Non fu un bel vedere. Ma in compenso tziu Titinu
aveva un sorriso angelico e di lui altro non vidi né seppi.
Invece, anni
dopo – non ricordo più circostanze e ragioni - capitai più volte nella casa del
signor Cosimino, in sua assenza e in sua presenza. Forse avrò frequentato
qualcuno dei suoi figli minori di cui non conservo alcun ricordo. Ma rammento
bene che in quelle occasioni potei avvertire, in modo quasi palpabile, la
tensione di ansia che la sua sola ombra proiettava sui suoi familiari. Al suo
sopraggiungere tutte le voci si affievolivano e subito iniziava nei suoi
confronti una specie di pantomima di atti servizievoli e di untuosa
affettività.
Mi capitò di
osservarlo mentre serviva messa o partecipava ai rosari e alle giaculatorie
(poiché nonna Annetta esigeva che io frequentassi i riti parrocchiali durante
la mia permanenza a Gesòli). Ebbene, facevo confronti. Gli uomini – anche
quelli molto devoti – erano composti e un po’ rigidi. Lui, no. Si prostrava,
atteggiava il volto alla beatitudine delle statue dei santi. Insomma, i suoi
atti di devozione mi parevano carichi di svolazzi che neppure il prete.
Tutta la sua
famiglia, del resto, era mobilitata nei servizi ecclesiastici. Lui dava ordini
al campanaro e controllava il funzionamento dell’orologio del campanile. I
figli maggiori - un giovane e due ragazze, molto somiglianti fra loro, ma
fisicamente allampanati e unti come la loro madre - cantavano nel coro e
ripetevano il catechismo ai più piccoli. Ma il giovane suonava anche l’organo a
canne durante i riti cantati. La moglie non faceva niente. Con i piedi pesanti
e il capo piegato a nord-est, era come un’ombra di martire ai piedi del
pulpito.
Nessuno di loro
aveva negli occhi una luce di gioia.
Una volta, mia
cugina Marianna (nella circostanza lei poteva contare allora circa dieci anni
d’età e io qualcuno di meno) mi spifferò maliziosamente all’orecchio che la zia
Dora amoreggiava con l’organista. Non le credetti. Zia Dora, la carabiniera, capace di ridurre alla
timidezza gli ubriachi?! Lei era ai miei occhi refrattaria a ogni smanceria
affettiva. Io, che andavo al cinema di Vineanova con i miei genitori, sapevo
bene con quale languore le donne dei film abbracciavano i loro innamorati!
Nessun riscontro
decisivo si palesò a favore o contro le nostre infantili illazioni e,
naturalmente, l’argomento fu presto dimenticato.