venerdì 30 agosto 2024

Sera speciale - dal cap. V di "Ciò che resta per i ritorni" romanzo di B. Mannu

 

***

Invece quella sera speciale, di cui ho iniziato a parlare, la macchina organizzativa familiare andava a meraviglia. Perciò io quietamente occupavo la mia posta ludica e di osservazione nella “lolla”. E anche quella sera, come forse altre precedenti e certamente posteriori, Marta si dava da fare per apparecchiare con tutti i crismi delle grandi occasioni, così come nonna esigeva. E perciò aveva portato sul tavolo il cestino delle posate cesellate che qualche ora prima aveva trattato con la cenere e l’aceto. E ora le osservava alla luce della lampada facendole balenare per cogliervi qualche eventuale opacità, che peraltro si affrettava a eliminare alitandoci sopra e strofinando con un tovagliolo immacolato.

Aveva sistemato anche la sedia per nonno Augusto. Pur essendo simile ad altre, giudicate più comode fra tutte, quella di nonno si distingueva per certi segni tattili che sapeva solo lui; perché ci teneva appeso il bastone quando si muoveva liberamente nella lolla; perché sul suo fondo ci stava legato un cuscino. Però questa volta il cuscino non era il solito cuscino liso e anche macchiato, ma era rivestito d’una fodera nuova che mi pareva ricamata e molto bella.

Intanto che percepivo con i sensi e l’aiuto della memoria quanto entrava nel mio raggio, mi dedicavo al mio gioco preferito: quello di accostare le sedie a formare una specie di lettuccio. Mi ci arrampicavo e acciambellavo avvolgendomi nel drappo di ciniglia. Le sedie, ai miei movimenti, si scostavano. E io ricominciavo da capo, finché mi stancavo e mi lasciavo cogliere dal sonno. Ma quella sera, essendo presente anche mio babbo, non volevo addormentarmi. Così, quando Marta pietosamente cercò di portarmi a letto, io mi ribellai gridando: «“Voglio esserci anch’io!». Lei mi mollò e sparì. Forse mi appisolai ancora sulle sedie e dentro il drappo. Ma poi, come risvegliata dalla densità del silenzio che si era prodotto nella mescita e che tracimava nella lolla, senza essere seguito dall’atteso brusio indicante l’irruzione della famiglia, la chiamai a gran voce. Uscì a razzo dal dormitorio delle zie recando non so che panno o asciugamani.

«Dove sono tutti?» le chiesi.

«Ah, dunque sei proprio sveglia! Sono tutti di là, nel salotto buono».

«Tutti là? Anche babbo e mamma?»

«Certo».

«Ci sono i Finanzieri?»

«Ma no, che dici! C’è il fidanzato di tua zia Irene … Anche i parenti e la pronuba. Vieni, dai!»

Tutta la famiglia s’era raccolta lì con gli ospiti. Evidentemente erano entrati dal retro del Tabacchi e nella confusione dei convenevoli s’erano un po’ dimenticati di me.

C’era una foresta di piedi che si spostavano con riluttanza verso le sedie e un confuso stormire di voci che andavano affievolendosi per fare posto a voci soliste che scandivano le loro battute,  cui faceva seguito il coro delle risate e dei commenti. Quando si fece un po’ d’ordine, presi posto sulle ginocchia di babbo e mi guardai intorno. Mancavano zia Daria e suo marito, Amelio. A mio modo sapevo fare i giusti conti. Però non avevo ancora realizzato ciò che col tempo mi divenne, inequivocabilmente, chiaro: che i due erano “la bestia nera” di mia madre. E, perciò, dove era presente l’una gli altri non si mostravano, e viceversa.

Dal chiodo di quell’assenza vedevo anche pendere - momentaneamente innocuo - l’ambiguo senso di certe ruvide espressioni materne al mio indirizzo, quando, in casa, a Vineanova, ne avevo combinata qualcuna.

Al momento, stando alle apparenze, nessuno sembrava notare o risentire della loro mancanza. E io facevo solo il notaio per mio conto.

C’erano - quella sera - parecchie persone a me ignote, da cui ebbi distratte carezze sui capelli, e c’era, ovviamente, il famoso fidanzato di zia Irene, Rinuccio. Il quale, senza colpa alcuna, destò in me un’istintiva, immediata, inspiegabile avversione. Ricordo nitidamente questo mio sentimento, perché un evento successivo e imprevedibile mi costrinse a far pace con la sua immagine.

martedì 27 agosto 2024

Verbi e di-verbi: COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per...

Verbi e di-verbi: COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per...:   Cosmo La sorte ha fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi ...

COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per i ritorni" - Romanzo di Bianca Mannu

 

Cosmo

La sorte ha fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi genitori materni. Perciò il mio ombelico mentale e affettivo è, fin dai miei primi anni, la casa di nonna Annetta con quanto ci stava dentro e attorno.

Proprio quella casa, con tutte le sue pietre, usci, angoli e meandri, con tutte le voci umane e animali, con tutti i rumori, con tutti i suoni, gli echi e i tramestii, con tutti gli odori e i sapori; con le ore del giorno alle sue porte, con le notti da presepio senza vento sul tetto, col cielo appoggiato sui pianori dei colli circostanti come il prezioso coperchio d’una scatola di fango dissimulato nel lucore rossastro dei lumi, con le minuscole inferriate a croce per il cui mezzo la casa si affacciava sul retro, offrendosi avaramente all’incanto dei pleniluni spalmati sull’oliveto d’argento, immobile come un reperto nella sua teca. Quella casa, dalla geometria primordiale, aperta ai quattro punti cardinali, eppure difesa dalle sue “amazzoni” (nonna Annetta e le ziette), ora esiste tale solo nella mia mente, perché l’ho amata e coltivata nella memoria, quasi come “su log’e s’anima”.

E ho amato il fangoso paese che la conteneva – Gesòli - di cui la casa dei nonni era una specie di centro sociale e commerciale e, direi, anche un portale d’ingresso e di vigilanza verso stranieri e forestieri, aggressivi o mansueti che fossero.

Ho amato la sua gente, non come folla, ma come persone individuate e individuabili; anche quelle che m’incutevano qualche timore. Forse perché erano osservabili da vicino? Non so.

Faccio un esempio: tziu Cosiminu. Tziu Cosiminu Prata. Lo designavano così, col nome e col cognome.

Sentito pronunciare più volte, senza aver individuato la persona, un nome così mi parlava di bonomia, mi evocava un’immagine ilare, amichevole.

Ed ecco che una sera, ospite dei nonni, avevo percorso in discesa la piccola rampa di scale che dalla lolla menava alla pedana di legno posta dietro il bancone della mescita. Credo che mi fossi soffermata sul penultimo gradino per vedere meglio e anche per essere meglio notata. Perché le mie apparizioni erano oggetto di notifica e di convenevoli da parte di diversi astanti.

“Ah, ahn! Teneis istrangius! Sa pipìa de Domtiilla, beru?” rivolti alla zia Dora. E a me: «Come ti chiami? Ti piace stare dai nonni, eh? E Gesòli? Ti piace Gesòli? Gesòli è una città … eh eh?  Che … se ne trovano poche. Vero?».

Ecco, io esistevo! Non ero un ente senza consistenza e senza ombra, come in genere succede ai bambini, specialmente a quelli poco fastidiosi. Mi si chiedeva inoltre del babbo, della mamma, mi si raccomandavano i saluti per loro. Ne ricavavo una sensazione così netta e bellissima, come in nessun altro luogo e in nessun altro tempo mi è accaduto.

Però quella particolare sera c’era molta animazione - ignoro il perché - tra gli avventori della mescita, disposti in gruppetti circolari, bicchieri in mano. Fra costoro notai una persona che mi pareva discordante rispetto al contesto. Infatti il suo cranio calvo e la sua faccia erano bianchi e lucidi a paragone delle altre facce e degli altri crani, cotti dal sole e segnati dalla fatica.

Aveva un grosso ventre sulle gambe corte, indossava calzoni, panciotto e giacca di panno, invece che brache di fustagno coperte di toppe. Ma ciò che m’incuriosì erano una specie di barbetta a collana che gli cerchiava il grasso collo da un orecchio all’altro e due occhialini pinza-naso assolutamente alieni rispetto alla mia esperienza in fatto di occhiali. Da lì scoccava l’occhiata arcigna dei suoi piccoli occhi puntati su di me in modo malevolo, mi pareva.

Mi sarei aspettata di sentirgli usare un idioma forestiero e insieme autoritario come la sua espressione; oppure sonoro e un po’ arrogante come quello dei castagnai e dei “gabilli”.

Sì, perché anche costoro affollavano al momento la mescita. Arrivavano dal “Cabesusu”, conducevano le greggi a svernare attraverso la Trexenta nel Campidano, al pascolo brado. Tornavano d’estate, dopo il raccolto, per il pascolo delle stoppie.

Invece l’uomo parlava con lo stesso accento dei locali, senza un briciolo di prestigio in più nel tono; piuttosto con maggiore rozzezza, mi parve. Conclusi che era un cittadino di Gesòli. Perciò mi avvicinai a zia Dora e all’orecchio le chiesi chi fosse “quell’uomo cattivo”.

«Cattivo?» E zia Dora passò in rassegna i clienti con un’occhiata. «Indicamelo. Ma non fare gesti, eh!»

«Quello con gli occhialini», le soffiai tra i capelli.

«Ma, no. Quello è tziu Cosiminu Prata. Sembra a te così, ma è bravo». E mi sbolognò dal bar.

Qualche anno più tardi realizzai di aver trovato il sosia vivente del ritratto di Camillo Benso, Conte di Cavour, stampato in un mio libro scolastico.

Capitò anche che fossi mandata a casa sua, una volta: la zia Dora gli inviava per mio tramite il suo orologio per una riparazione.

Non mi rendevo ragione del perché lei prediligesse gli orologi maschili, pur essendo la gemella di zia Ottilia e si abbigliasse come lei, molto femminilmente, per la messa della domenica. Vero è che, a una mia più matura osservazione, zia Dora appariva alquanto impacciata e quasi fuori posto dentro le sagome di certi vestiti destinati a sottolineare il portamento femminile e a esprimere un buon pizzico di elegante civetteria. Proprio questa mi affascinava invece in zia Ottilia, combinata con quella sua voce sommessa, ma limpida, e quel suo fraseggio signorile, quasi mai brusco. Zia Dora aveva invece un parlare sbrigativo, secco, che non ammetteva repliche; e per quanto fosse piccola e esile, manifestava un contegno spigoloso e poco aggraziato. Dunque, malgrado la gemellanza, le due ziette si somigliavano poco ai miei occhi. E ancora meno quando, in virtù della tradizione e della moda paesana, uscivano insieme abbigliate, calzate e incappellate in un’identica foggia.

Quanto al signor Cosimino (mai avrei dato dello “zio” a quell’uomo!), in quella circostanza fece mille convenevoli e cerimonie, idealmente destinati alla committenza, a cui opposi un assoluto mutismo costringendolo a un rapido commiato. Capii che non era orologiaio di professione, ma “per passione e per compiacere le amicizie di riguardo”. Così aveva detto stringendo le labbra con sussiego e come rivolto a un pubblico che non vedevo, ma parlando italiano, questa volta. Però, tanto allora che dopo, conservai nei suoi riguardi la prima negativa impressione, non del tutto esente, nel seguito, dagli effetti di certi liberi discorsi che mia madre intrecciava con sua madre o con mio padre.

In effetti il vecchio orologiaio, tziu Titinu Porru, era morto e non ve n’era un altro in paese. In tal modo Cosimino Prata arrotondava il suo non troppo lauto stipendio, senza dare a intendere di averne bisogno e poter ben figurare nel gruppo dei notabili.

Era, niente meno, un impiegato del Comune. Sedeva alla scrivania di un ufficio pieno di carte legate con dei nastri anneriti. Intingeva la penna dentro grossi calamai di vetro e ogni po’ dava dei colpi secchi di timbro sui fogli. E quella volta zia Dora ne ebbe uno che arrotolò con cura dentro un altro foglio, per il quale ringraziò con deferenza prima di congedarsi.

Era questa la ragione della pallida e pingue burbanza dell’uomo e del suo distinto, ma frusto, abbigliamento.

In coincidenza mi torna distintamente alla memoria anche tziu Titinu, perché, sordo com’era, si faceva gridare le parole dentro una specie di trombetta che teneva appoggiata all’orecchio. Ciò mi meravigliava non poco. E così una volta mi ero accostata a lui per veder da vicino quel curioso strumento. Egli mi fece della domande e io, per rispondergli, mi vidi costretta a guardare il lungo e folto pelame delle sue orecchie. Non fu un bel vedere. Ma in compenso tziu Titinu aveva un sorriso angelico e di lui altro non vidi né seppi.

Invece, anni dopo – non ricordo più circostanze e ragioni - capitai più volte nella casa del signor Cosimino, in sua assenza e in sua presenza. Forse avrò frequentato qualcuno dei suoi figli minori di cui non conservo alcun ricordo. Ma rammento bene che in quelle occasioni potei avvertire, in modo quasi palpabile, la tensione di ansia che la sua sola ombra proiettava sui suoi familiari. Al suo sopraggiungere tutte le voci si affievolivano e subito iniziava nei suoi confronti una specie di pantomima di atti servizievoli e di untuosa affettività.

Mi capitò di osservarlo mentre serviva messa o partecipava ai rosari e alle giaculatorie (poiché nonna Annetta esigeva che io frequentassi i riti parrocchiali durante la mia permanenza a Gesòli). Ebbene, facevo confronti. Gli uomini – anche quelli molto devoti – erano composti e un po’ rigidi. Lui, no. Si prostrava, atteggiava il volto alla beatitudine delle statue dei santi. Insomma, i suoi atti di devozione mi parevano carichi di svolazzi che neppure il prete.

Tutta la sua famiglia, del resto, era mobilitata nei servizi ecclesiastici. Lui dava ordini al campanaro e controllava il funzionamento dell’orologio del campanile. I figli maggiori - un giovane e due ragazze, molto somiglianti fra loro, ma fisicamente allampanati e unti come la loro madre - cantavano nel coro e ripetevano il catechismo ai più piccoli. Ma il giovane suonava anche l’organo a canne durante i riti cantati. La moglie non faceva niente. Con i piedi pesanti e il capo piegato a nord-est, era come un’ombra di martire ai piedi del pulpito.

Nessuno di loro aveva negli occhi una luce di gioia.

Una volta, mia cugina Marianna (nella circostanza lei poteva contare allora circa dieci anni d’età e io qualcuno di meno) mi spifferò maliziosamente all’orecchio che la zia Dora amoreggiava con l’organista. Non le credetti. Zia Dora, la carabiniera, capace di ridurre alla timidezza gli ubriachi?! Lei era ai miei occhi refrattaria a ogni smanceria affettiva. Io, che andavo al cinema di Vineanova con i miei genitori, sapevo bene con quale languore le donne dei film abbracciavano i loro innamorati!

Nessun riscontro decisivo si palesò a favore o contro le nostre infantili illazioni e, naturalmente, l’argomento fu presto dimenticato.

mercoledì 26 giugno 2024

Recensione di G. Sicura alla poesia "Ritmi e cadenze" di Bianca Mannu

 

Ritmi e cadenze: concerto poetico/filosofico di Bianca Mannu

 

È una mia antica conoscenza questo testo, pubblicato nel 2013 da Bianca Mannu nella silloge “Tra fori di senso”, una delle sue raccolte più interessanti. Ho ritrovato tracce del mio passaggio tra questi versi in un segno a matita sull’angolo destro della pagina: due linee oblique ( il massimo). Lo stesso anno questa poesia partecipò ad un concorso e non si classificò tra le sei finaliste. La cosa mi sorprese molto e (avendo letto tutte le poesie partecipanti) confermò il mio giudizio negativo nei confronti dei concorsi letterari. Qualche giorno fa ho avuto modo di riprendere in mano la silloge e non ho resistito alla tentazione di spendere qualche pensiero per questa poesia che, a mio parere, merita molta considerazione. 

 

Bianca Mannu è una poetessa dal linguaggio raffinato e colto e non sempre le sue poesie sono comprensibili a prima lettura, ma questa ( e anche altre della silloge) ha un andamento fluido e leggero dall’inizio alla fine. Con eleganza e profondità di pensiero le parole e i versi procedono sempre connessi tra di loro ed inscindibili, in modo semplice e naturale, come le acque di un fiume verso il mare.  E sì… è davvero un mare di sensazioni e pensieri quello che ci lasciano! Sono versi che palesano, già a prima lettura, una musicalità intrinseca, favorita dalle frequenti assonanze; versi che fanno a meno delle rime ma che si nutrono di poesia, quella che vive e palpita dentro metafore suggestive ed inusuali. Come in un concerto, nella seconda parte e fino all’ultima strofa, entra in azione uno strumento “retorico”: l’anàfora… e la musicalità s’intensifica, ogni verso si carica di pathos e teatralità, alla palese ricerca di coinvolgimento del lettore. L’aggettivo mia/mio, riecheggerà a lungo dentro di noi, come un’orecchiabile ed imponente nenia.

 

Esplicito anche il pensiero della poetessa fin dalla prima strofa, dove si annuncia il tema: l’indubbio sentore di una signoria inoppugnabile. Nell’incedere dei versi quel sentore si consolida in una personale filosofia: un pensiero che si delinea come antropocentrico e che, in qualche modo, ci riporta all’io empirico fichtiano che, nell’esercizio dell’autocoscienza, riesce ad innalzarsi fino all’io puro, infinito. Una filosofia frutto di una continua ricerca interiore che porta la poetessa ad osservare ed analizzare la realtà, fino a sentirla come parte di sé. Bianca sa d’essere parte di un tutto che le appartiene, è la padrona del suo tempo e di tutto ciò che ruota o comunque possa muoversi dentro quel tempo, attorno a lei e dentro di lei, che non se ne cura affatto (come il sole non si cura dei pianeti).Un possesso-negazione che le permetterà di acquisire il potere del distacco e la conquista dell’assoluta libertà: uno scacco matto al potere del Tempo! Uno scacco reiterato dall’Ego poetico ad ogni strofa! 

Non solo la poetessa è incurante del passaggio delle ore, ma anche del giorno e della notte nel loro manifestarsi; persino il sole che irrompe “sui balconi” e la notte che rimpicciolisce “l’orgoglio/ dei fari e dei lampioni” diventano nullità ai suoi occhi, ma nello stesso tempo li vediamo già dentro di lei, umanizzati, personificati dalle parole, come ad ulteriore conferma di un ego-centrismo  in cui il tutto si fa umano e l’io poetico si concentra, prendendo la forma di un “tutt’uno” con le cose, col pensiero e col tempo. Tutto è l’io e tutto appartiene all’io, anche ciò che si trova dentro le parole dette o non dette, dentro il palpito stesso delle parole e quello dei sensi, che vibrano “percossi dal divino ritmo del cuore”. Appartiene all’io anche, indubbiamente, ogni travaglio insito nella ricerca della parola poetica (rincorsa, presa o perdita) e persino gli stessi ritmi del cuore, che gioisce solitario nel sentirsi signore di così tanta “precaria potestà/ fatta di niente”. E se da un lato alcuni avverbi e locuzioni temporali sparsi qua e là tra i versi (al momento - allora) vorrebbero indicare la momentaneità di quella signoria, dall’altro l’aggettivo divino ci conferma la raggiunta assolutezza dell’io (pur nella sua materialità) e pare indicarci uno stato definitivo. Ad eludere ogni dubbio l’ultimo verso, tanto inatteso quanto inevitabile, nella sua cruda evidenza attesta una presa di coscienza finale molto amara: un contraccolpo allo scacco! Un tutto l’io, ma un tutto che si palesa realisticamente in un ammasso di nullità ed anche quell’interiore ed illimitata libertà, che potrebbe fare da contrappeso, non può che essere destinata all’auto-deflagrazione.

 

Un amalgama di filosofia e poesia, che si tengono a braccetto con ricercatezza e disinvoltura; una mistura ben dosata, dove il profondo pensiero della poetessa viene alla luce senza forzature, suggellato e arricchito da preziosi picchi di poesia… e penso ai balconi violati dai raggi del sole e penso ai fari e ai lampioni defraudati del loro orgoglio e quasi derisi dall’immenso buio della notte, che della loro misera luce non potrà che adornarsi a malapena “il manto”. E che dire “di tutte le cose spettinate che sono dentro le parole” o delle parole che si aprono “come fiori di luce agli apici dei sensi”? Sono grumi d’intensa poesia che testimoniano quel groviglio di sensazioni e palpiti che accompagna ogni processo creativo che fa uso delle parole, sono quel flusso luminoso che invade tutti i sensi quando le parole giuste finalmente si palesano.

                                                                                            Giuseppa Sicura

 

 

Bianca Mannu – Nata a Dolianova (CA) nel 1942. Abilitazione Magistrale, poi laurea alla Facoltà di Magistero di Cagliari, indirizzo epistemologico. Insegna e scrive. Partecipa ad attività culturali. Dopo un trentennio, con­cluso l’insegnamento, stampa una silloge di oltre 70 composizioni col titolo di “Misteriosi ritorni”. Nel 2004 entra con poesie e brevi racconti in alcune antologie. Nel 2006 esce una nuova raccolta di  versi, “Fabellae”, per Aipsa edizioniNel dicembre 2010 vede la luce “Da nonna Annetta” (romanzo) - Ed. La Rifles­sione. Nel 2012 “Quot dies” (poesie), per Youcanprint Ed. e “Crepuscoli”(racconti), per Booksprint Ed. Nel 2013 esce “Camilla”(racconto  lungo); nello stesso anno “Tra fori di senso” e “Alluci scalzi” (sillogi di poesia) per Youcanprint Ed. Nel 2014 escono “Il silenzio scolora”, poesie di argomento amoroso inedite o sparse nelle altre sillogi per Mariapuntaoru Ed., e “I racconti di Bianca” per Thoth Ed. Nel 2016, stessa Ed., esce “Dove trasvola il falco” (poesie). Nel 2017 pubblica “Sulla gobba del tempo”(poesie) insieme ad altri tre poeti: M.B.Biggio – C.Onnis – G. Sicura. Diversi riconoscimenti ai pochi concorsi, gestisce un proprio blog su Blogger http://verbiedi-verbi.blospot.com, e proprie pagine su www.larecherche.it  e su www.facebook.it

 



venerdì 21 giugno 2024

Dillo a un Sikh - (urlo, canto, inno e lamento degli oppressi per la penna e l'animo di Bianca Mannu - inedito)

 





Dillo a un Sikh

quali sono i Nostri Valori -

dillo ai suoi conterranei

sparati come tralci avventizi

dal vento dell’urgenza

sui  campi dell’Agro

sulle piane di Partenope

sugli orti Cisalpini

 

Chiedigli se son leggere

le dieci ore più quattro -

quando la sorte vuole -

alla pioggia  al sole e a ogni tempo

dalle albe incolori

al sangue dei tramonti

con niente nella pancia

e la ganascia del doping

a stringere il cervello

 

Tu dici che canta

quando inginocchiato

strappa alla terra

tuberi e carote?

E quando conosce l’aspro

dell’uva e dell’oliva

chissà che musica coltiva?

Dico che il suo corpo canta

come una ferita tutto

e sogna sua interinale

assenza dalla vita

 

Assenza provvisoria - certo -

da una vita che - pur di sterco -

frequenta assidua la speranza

e questa conferisce all’esistenza

il tempo di  continuare in stand bay

e ammortizzare i guai da surmenage …

Quando la vita ha un solo lancio

anche il più sporco strame per giaciglio

se non è mano amica è almeno gancio

cui sospendere ciò che - o uomo d’opera –

solamente tuo rimane inesorabile:

il duro esito del giorno

 

Invece tu - uomo del capitale -

che prescindi dall’umano altrui

scomputi ciò che ti conviene:

la cosa-lavoro - quella che mercanteggi -

e che - a te poco o niente parendo -

per eccesso di mercantile offerta

la natura a dare frutti induce

E ti scotta il tempo mentre attendi:

incalzi al moto i suoi sfinteri

per  accrescere  il tuo utile in saccoccia

ma i rigori a saldo lasci altrui.

 

Del bracciante - il cui sudore

a tuo favore provocato ti ripugna -

quasi nulla sai che non sia sua fame

e su quella mandi a schiacciare il piede -

non il tuo - stiloso  e così ben calzato! –

ma quello chiodato d’un vile caporale.

 

Forse quel cristo  crocifisso

alla sua condizione di operaio 

 si sarà chiesto - per un meriggio intero

 e per successivi mille di sgobbo

 imbevuti all’osso di strappi e contumelie  -                       

di qual delitto mai e di qual vita obliata

voglia emendarlo il suo dio

 

Ma - come tutti gli dei -

neppure il suo risponde

Altrove guarda forse 

o altri suoi Valori raccomanda

oppure nel suo ombelico stesso

coglie la fuga d’ogni divino senso

Non c’è modo e non c’è verso

un Sikh da solo - come ogni uomo inerme -

si sente e campa da lombrico funzionale

tra sottosuolo e fango

dove muore privo dell’umano rango

 

Gridalo, Sikh, gridalo forte

insieme ai tuoi fratelli neri

incattiviti sui  campi del Salento -

ubriachi di fatica e d’indigenze

dannati a smaltire gli ergastula diurni

dentro tendopoli infernali …

 

Gridatelo anche voi

operai tarantini intossicati

mentre morite a poco a poco

nei paradisi dei vostri letti …

E tutti voi - dispersi e soli

a sfangare la vita lottando

con un qualche marchingegno traditore -

soffiatelo con la forza dei tornado

dentro le orecchie dei professori ISTAT -

gridate che - pure consunta

ogni marcata essenza agglutinante -

siete magari folla sfilacciata e spersa

d’umani - troppo tristi umani e vivi -

sparpagliata truppa inerme -

prigiona a guerra persa.

martedì 11 giugno 2024

6 o non 6...? Malizioso pensierino di Bianca Mannu

 

6 o non 6...?

 

"Sei o non sei antifascista?" E' questa la domanda stucchevole che continua ad essere rivolta  agli esponenti apicali dei partiti vincitori delle ultime politiche. Le risposte sono ambigue, false, incoerenti, e altrettanto stucchevoli. Le sciroppano al cronista, alle varie telecamere e a noi, che talvolta ascoltiamo allibiti, come prove, non della buona fede, ma della loro capacità persuasiva unita alla convinzione di aver sempre buon gioco in quanto “comandanti del vapore”.                                                                       E infatti bisogna che noi astanti e subenti facciamo appello al nucleo personale e ancestrale del sospetto, riattivarlo per evitare  di essere presi nella pania come gattini ciechi. 

L'impressione che io ricavo da tale schermaglia - io e la gente da niente come me - equivale al senso di una menata per il naso. Perché ognuno di quelli al potere ne ha dette e fatte, in modo quasi insopportabile, tutti i giorni e nelle più diverse occasioni. Forse ci saremmo aspettati minore arroganza nelle rivendicazioni del "nuovo" Potere a  “poter dire e fare” quanto ritenuto suo conveniente diritto, esporre senza limiti e colmare ogni occasione di incontrollate asserzioni. E queste ancora  ribadite con grida e sproloqui, tali da  far aggricciare le nostre minuscole intelligenze, tuttavia aduse ai sentori di più raffinate dialettiche.

Mi aspetterei che i politici, quelli ritenuti “buoni”, svagati fabbricatori di questo stato di cose, quelli che si dicevano antropologicamente netti e che non sono stati né politicamente né moralmente affidabili, la smettessero di chiedere a vuoto certe professioni di fede a  questi ultimi caporali , tutti tesi a ingessare e retrodatare le viventi tensioni umane, volti ad approfondire gli iati razziali e di classe, mancanti di una qualsiasi idea di costituzionale uguaglianza tra umani, impotenti a promuovere disegni sociali  inclusivi, incapaci di attivare  qualche straccio d’immaginazione e d’operosità politica, un qualche tentativo, magari maldestro, di rimediare agli scassi sociali prodotti dai modi di produzione eccessivamente competitivi ed esosi, gravanti su persone, ambienti e risorse non illimitate.

Se la richiesta non riguarderà che parole ed espressioni liturgiche, con qualche torsione ci si accomoderà al nuovo abito, s’inaugurerà una moda così pervasiva e accomodante da risultare naturale e pesino soporifera. D’altronde la fascinazione del potere è capace di slacciare le stringhe alla rigidità  noviziale  per consentire l’uso  di più stringenti e convenienti ganasce. Per maneggiare fortemente queste, non c’è considerazione più adeguata di quella attribuita a Enrico di Navarra, allorché da ex ugonotto si scoprì cattolico: “Parigi val bene una messa!”  

Ma nei fatti conteranno quelli che maneggiano le chiavi del potere, usando il linguaggio più pervasivo e complice, quello dell’indifferenza logica, adatto all’ottundimento percettivo delle platee  catturate della credibilità fantasma che si adegua a tutto … Si procederà come Enrico di Navarra:«Parigi val bene una messa!»

La commedia degli inganni e autoinganni ha un suo tempo assicurato. Gli opposti che tali non furono, ma tali si dicono, si somiglieranno nei difetti contaminandosi: non uguaglianza, ma intercambiabilità, perché tutto scorra … Finché scorrerà …

   

 


venerdì 15 marzo 2024

Come so fare io - versi inediti di Bianca Mannu

 








Solo  come so fare io

- le gambe spesse di  vecchia –

striscio sbilenca

dentro quel triangolo di luce

che allora ci appaiava

 

E siamo là  tu ed io

a trafficare con parole irte

sui pavimenti a intagli

colposamente striduli

per le sante geometrie

dei nostri insorditi ego

 

Siamo là senza stupore

 forse sospinti da un vento coercitivo

dentro una faglia dello spazio

verso uno spettro allucinante  

del tempo sotterrato …

 

… Là a circumnavigare nel buio

 gli aguzzi speroni

d’un abbordabile abbraccio

che invece sguscia morganatico

in brume di dissensi

e ancora rivela  

nelle sciabiche d’onda

gli inganni dello specchio 

 

Perché? Perché - da questo

silenzio d’ulivi ed erbe nere

affogati nella notte senza stelle -

torno  da «novia» a calpestare

con le mie vecchie gambe

quel pavimento sghembo

senza inondarlo di schianto

del deluso e reciproco furore

che numinoso ci disfece

come la fiamma sulla cera?

 

Chi sa perché torno

e ritorno in un “sempre là”?

Là - dove anche tu saturnio

accendi la tua  secca brina

disfacendo la tua assenza

 






E sempre e ancora là

sotto i miei occhi nuovi

prende a scintillare

il tremulo lucore d’un film

che abbiamo girato insieme

in un falso magico ieri

d’un secolo o due … Chi sa?

 

 

 

 

 




lunedì 11 marzo 2024

Altra me - versi inediti di Bianca Mannu

 

Altra me


Mio sonno - mia anima tremula  - 

credeva


 alle corazze

alle selve d’alabarde

erette a difesa

del cuore pulsante

 

 La cifra segreta del dire

 ha preso stanza

dentro la verga

da dove erompe

parendo viva

 

Ma nel mio cuore acefalo

inebetisce

come la lingua

nell’eccesso di saliva

Nota - Anche questa piccola composizione è una metafora. Non una metafora del mio io psicologico o affettivo, ma l'allusione traslata alla condizione e volontà di esistenza soggettiva femminile resistente, con fatica, agli effetti pervasivi della configurazione culturale del mainstream. Va da sé che tale condizione valga anche per maschi non maschilisti, critici verso le posture personali e sociali aggressive e grettamente mercantili. Siamo pers un' one fortemente lacerate  e consapevoli di doverci misurare con le antinomie coscienziali (amarissimo sale della libertà possibile) e le massicce ipocrisie dei macchinismi padronali capaci di avvelenare i pozzi del pensare, del nominare, del conoscere e giudicare, di cui non possiamo cessare  di alimentarci pur cercando di elaborare le necessarie antitossine. (bima)         

domenica 25 febbraio 2024

Guerra ... purchessia - versi inediti di Bianca Mannu

 

Hai un cognome strano! –

È un pretoriano d’oggidì

venuto ad apostrofarmi

da sotto i galloni del kepì

« Ecco …  - ride per allettarmi - 

ecco - una stellina bruna

t’appunto sul pastrano … »

 

Ed io: - Rifiuterei il galano

« Niente di personale – dice -

solo un piccolo segnale

per i distinti da implicare

in questa  - qui o là –

semplice guerra universale -

impossibile glissare»

 

Sarò merla o gazza?

 - Ora con la stellina di bronzo

e il nome un po’ balzano …

… in quale guerra m’insinuo

con gli attributi di razza?

« Aspetta un semestrino

ché ti spedisco a Gaza!»

 

Penso:- Con gli occhi a mandorla

e la pelle tinta d’Africa

potrei fingermi creola

ma penserei che la metrica

dell’idioma mio parlato

non corrisponda al fatto

 

Ecco - perciò stesso

sarò statua di gesso

davanti al quesito censorio

dell’odierno milite littorio

Se fossi come non vorrei e sono

mi darebbero della poco di buono

sarei spinta giù con acribia

in fondo al rione Carestia 


Se andassi a finire a Gaza

in piena pandemia

riceverei il vaccino tuttavia

e  - non per i miei occhi a mandorla -

sarei cacciata via

perché avrei compiuto

- in anni - ottanta primavere!-

sbagliando d’epoca e di geografia

 

Dopo tutto – se un po’ ci pensi  

e comunque io  mi dichiari -

dubito che scamperei alla follia

d’esser preda della guerra a pezzi

o della guerra  … purchessia

 

sabato 20 gennaio 2024

GIRAVOLTA - inediti di Bianca Mannu

 




Una giravolta del tempo

arriva così:

un ansare di vento

dalle cime alle gole dei colli

strappa alla spossata pagina

lo straniante congedo dalle cose

(cose solite e insolite

senza più domande) in

Spoglia d’autunno

di sé indolente

per altrui sensi “cosa/cose”

in ordinari frammenti.

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