martedì 27 dicembre 2016

Bianca legge MARIA DI ISILI di Cristian Mannu -1°Premio Italo Calvino 2015

Si suppone che di un libro premiato da una fondazione prestigiosa non possa dirsene che bene. E Maria di Isili di Cristian Mannu , vincitore del premio Italo Calvino per il 2015, sembra un ottimo prodotto. Ma pur sempre un prodotto, ossia un oggetto fabbricato per la vendita, che rincorre un gusto, una propensione del pubblico, già in atto. Si inserisce in una tendenza, peraltro riaccesasi nel secondo dopoguerra  in seguito alla diffusione di teorie etnografiche volte alla riscoperta e alla rivalutazione delle culture e tradizioni popolari, una volta completamente ignorate, se non osteggiate dalle culture dominanti. Il processo di ridefinizione teoretica a livello di ricerca storiografica, etnografica  e linguistica in senso strutturale, si è parzialmente riversato nelle concezioni comuni, dando luogo a una vulgata semplificatrice che contrappone in modo ideologico acritico  “la piccola patria”(J. Hessen), il villaggio locale, come esperienza e luogo di valori giusti e genuini, agli statalismi soffocanti, agli ecumenismi religiosi, agli internazionalismi sociali variamente colorati. L’internazionalismo mercantile postbellico ha globalizzato tale tendenza, ha collegato il ricupero o il desiderio di revival dei tratti localistici all’industria chiamata turismo. Quest’industria organizza la possibilità di fruizioni esotiche per i visitatori di culture diverse, trasceglie quelle sopravvivenze culturali ancora misconosciute e/o misteriose o stimate tali, le   adatta, spesso snaturandole e falsificandole,  ai preventivati gusti generici del fruitore medio e alla commerciabilità. Ed ecco che, senza problemi rifà il trucco alle vecchie storie mediante l’esibizione rivisitata, depurata, teatralizzata di certi aspetti rituali di antichi stili di vita popolare, attribuendo loro la patina dorata dell’atteggiamento nostalgico costruito ad arte, sulla base dell’insoddisfazione provocata dagli irrisolti problemi del mondo reale vivente e sulla ben calcolata tendenza a spostare il desiderio di evasione sul terreno del mito a buon mercato
Questo stesso processo decreta anche la scelta tematica, il confezionamento e la sorte di molte delle opere di scrittura narrativa e poetica. Infatti oggidì uno scrittore alla sua prima prova non può, forse, esimersi dall’annusare l’aria che tira. È questa, per  gli scrittori sardi, esordienti o meno, a mandare il vento in poppa (non particolarmente gagliardo) a quei vascelli di carta che solcano le correnti del mito e mantengono la barra del linguaggio in una sorta di terra di mezzo tra monodie e polifonie piuttosto soporifere, che non richiedono alcuno sforzo interpretativo, anzi vanno a riempire i vuoti e l’accidia culturali, carezzano il vello dei patiti del localismo civettando con le sgrammaticature più ridicole. 
Ora mi sto chiedendo se le centrali della cultura letteraria nazionale (storici della letteratura, critici, talent scout, editori, fondazioni e associazioni culturali, giornali quotidiani e loro inserti, i premi, le riviste, ecc.)  abbiano consapevolezza di come il loro imprimatur arruoli, per esempio, gli autori sardi, al compito di corifei di una cultura volta all’indietro, e ottusamente ripiegata sul proprio già da sempre infelice ombelico, dominato dalla consuetudine irrigidita a istinto, e questo, più che vissuto, propinato come fato nei testi.  L’apparente  indifferenza mercantile circa le tematiche si accorda “convenientemente” con le pur nebbiose indicazioni anzidette e quasi suggerisce quale  sia il gradito volto che la Sardegna debba mostrare al mondo e alla sua stessa gente, impoverita di tutto, ma specialmente defraudata degli strumenti adeguati al conseguimento generalizzato di una formazione culturale capace di sceverare concettualmente il mito dalla realtà, il simbolo dall’oggetto,  di decodificare i meccanismi sottesi al mondo reale, tanto quelli delle epoche superate  quanto  quelli che sono attivi nel presente.
Dentro un tale stampo, i sardi sembrano colpiti dall’incantesimo che li relega in un’indeterminatezza temporale e storica, nella  quale le psicologie personali rispondono ancora a categorie rudimentali ossificate, barbariche insomma.
Lo sguardo insistentemente rétro di parecchi autori di questo primo quindicennio, e  Cristian Mannu fra essi,  denuncia questo blocco e la fuga circolare in una bolla nostalgica di una presunta identità selvaggia, quale riferimento  genetico collettivo regionale, contenitore assoluto di  potenziali germi creativi, ma ciecamente fissato sulla propria impossibilità di sviluppo.
Il romanzo di C. Mannu, Maria di Isili, rientra nettamente in questo quadro. L’Autore vi aggiunge di suo un rilevante eccesso di enfasi, solo apparentemente epica, in realtà fissata su figure poco emblematiche, mancanti di spessore e di motivazioni, tutte centrate su una generica patologia emozionale. La scelta monodica - per cui ogni personaggio offre la sua versione o parziale o personale degli eventi (anzi la “canta”quasi alla maniera delle prefiche) - vorrebbe snodarsi in polifonia narrativa, ma questa, anziché aprirsi a una rappresentazione dialettica articolata e complessa, si risolve in comparizioni monologanti, in cui protagonisti e comprimari restano prigioni della staticità insormontabile e della solitudine monadica. I personaggi femminili, emanazioni di volontà altrui - quelle dell’Autore, si presume – sono privi di psiche, ridotti a sostanziale lacrimatoio del micro mondo della mal assortita parentela. Maria, ingannevole vessillo di un femminino inesistente (così Isili,le cui uniche coordinate fisiche sono le impressioni fugaci del visitatore del ventoso sito archeologico del territorio), non riesce neppure ad essere credibile stereotipo della vittima, manca di vero e proprio ruolo, non emette il minimo barlume di intelligenza, neppure quella del sentimento. Lei, sua madre e sua sorella restano crocifisse alla propria indefettibile subalternità al richiamo sessuale dell’adolescenza, il cui naufragio scivola in autocensura falsa e tardiva, mai nell’autocoscienza di un calcolo erroneo, di un’ingenuità che può riscattarsi.  Da queste numerose défaillances si ricava la netta percezione che l’Autore, preoccupato di racimolare gli ingredienti forti ritenuti necessari a stimolare palati ottusi, teso a lanciare appetitose promesse dal titolo, non ha dominato la materia del narrare e la taratura psicologica dei personaggi. L’oggettività dei fatti e dei troppi misfatti emerge dall’escussione delle voci narranti – ed è, nel suo eccesso di brutalità gratuita, tutto il melos della vicenda.  Essa si può riassumere così: Ethos - il più torvo custode e ingigantito topos dell’immaginario collettivo assorbito da soggetti perversi -  vince su Eros. Eros, possibile motore della vita, si profila in modo elementare e coattivo nei diversi soggetti e pare risolversi nel semplice atto sessuale  che, concludendosi in riproduzione, si proietta all’esterno, creando il viluppo tragico. La soluzione catartica, se mai possibile, è assolta da Tanatos, morte inflitta, procurata o pervenuta per cedimento del corpo, per vergogna, per crudele stupidità. Essa travolge tutti i personaggi, tranne Evelina, sorella di Maria .  Il romanzo potrebbe concludersi così. Invece l’Autore vuole realizzare una saga con rigenerazione  della stirpe. E “pour cause”, dato che Maria si è negata ogni comunicazione! La narrazione si trascina in epistole finali molto succinte e di cattivo stile narrativo, quasi un rattoppo al fine di collegare, come una sorta di resipiscenza affettiva da parte di Evelina, le  quattro generazioni evocate.  Resipiscenza senza spiegazioni, una questione di consanguineità nella quasi ignoranza della storia familiare. Parlano gli oggetti, la casa grande, i beni, come richiamo da un lato; dall’altro parla il sangue, cioè l’avvenuta trasmissione - per via genetica, parrebbe - della creatività artistica dell’ava in una nipote che, non si capisce il perché, ha per nome Maria di Isili, benché nata e allevata  nel Continente.  Lei sembra sapere già come valorizzare la sua ereditata risorsa e come introdursi nel mercato.
Il cerchio è stato chiuso, ma il medioevo culturale ha continuato a insistere all’insaputa dell’Autore.

domenica 18 dicembre 2016

Bianca legge L'immortalità - romanzo di Milan Kundera (gliAdelphi)

Milan Kundera non è l’unico fra i grandi scrittori contemporanei ad argomentare sul perché e sul come racconta ciò che racconta, mentre sta raccontando. Però egli lo fa con incantevole leggerezza di tocco. La stessa parola «immortalità», per la verità, non troppo sovente ripetuta,  esce dall’apparente ingombro statuario, entro cui la percepiamo d’emblée, per divenire alito di comune umanità.
La tesi che attraversa l’opera, come una corrente leggera e sotto traccia, è che gli umani perseguono l’immortalità, quale tentativo e modo di sottrarre alla morte qualcosa di sé. Propensione nota, studiata  e metaforizzata fin dall’antichità.  Ma il Nostro fa in modo che il desiderio di essa scaturisca dal semplice darsi da fare a vivere giorno per giorno, ma anche a non dissiparsi completamente nel presente. Infatti i personaggi – accompagnati dallo sguardo benevolo dell’Autore nel loro quotidiano - dedicano una porzione di energia per salvare di sé alcunché di immortale e si applicano a pregustarne gli effetti nel loro presente. Noi persone comuni, abituate a ragionare in termini di tempo della vita, non pensiamo davvero a un’immortalità immortale, se mi si passa il bisticcio. Cerchiamo di dilatare il nostro presente nell’altrui tempo futuro. Il desiderio di estensione non è uguale per tutti.  Sono i ruoli sociali, il grado di cultura e la temperie civile in cui si è inseriti a ritagliare l’orizzonte di immortalità a cui ciascuno può aspirare, perché traspare presto che la disponibilità di tempo risulta preliminare all’insorgere del suo desiderio. Questo desiderio pare scaturire – secondo la scrittura di Kundera – più prepotentemente nel momento in cui la vita sembra tradirti o cacciarti in un “cul de sac”. Ma perché quell’aspirazione prenda forza, occorre che questa stessa vita ti conceda anche opportunità e tempo per riflettere-arzigogolare e ti abbia già fornito anche gli strumenti psicologici e culturali per parlare a te stessa/o, tirarti dentro gli altri – vivi e morti - e discuterci, tirare le fila del tuo esistere.
Non vi è spazio, nel racconto di Kundera, per la concezione escatologica dell’immortalità. Essa è chiamata in causa come semplice funzione dell’ immaginario: tu sogni di restare in qualche modo viva/o, da morta/o, tra i vivi. Sogni ed agisci, ora, in un modo che ti fa ritenere che i vivi non possano, non vogliano, non sappiano prescindere dal percepirti presente come un’istanza interiore forte; istanza affettiva oppure etica oppure intellettuale o tutte queste cose insieme. Naturalmente sai perfettamente che nulla di ciò che costruisci con quel fine, potrà essere oggetto di constatazione. Nondimeno persegui lo scopo corrispondendo a un godimento immaginario e attivando quel godimento nel tuo presente.
Questo è, grosso modo, l’assunto concettuale dell’opera. Ma non è esposto in forma trattatistica, bensì, inserito con agilità come un sottotesto che trapunta e accompagna piacevolmente il testo narrativo. Quest’ultimo sbalza a tondo e dinamizza i personaggi traendoli in vortici, non solo e non tanto per azioni e reazioni, ma per cambi di prospettiva, di modo che situazioni, apparentemente ovvie, divengono momenti nodali del vivere, tra concomitanze, collisioni o rievocazioni mentali.  Per quel che mi è dato capire, Kundera non persegue la linearità logica e cronologica del romanzo classico e neppure la sinusoide del romanzo novecentesco condotto come flusso di coscienza; o meglio, usa anche questa tecnica a servizio dei personaggi e per sequenze definite. 
I personaggi prendono vita da un gesto che non rappresenta l’essenza dell’io soggettivo, né una sua creazione, bensì un circuito, un modello preesistente attorno al quale si struttura quell’io. Un gesto è come un lemma linguistico, precede il soggetto e permette al soggetto di strutturarsi agganciando gesti e lemmi analoghi o dissimili in partite che chiamiamo relazioni fra umani.  Le persone sono incarnazioni di gesti e tratti, comuni a una pluralità di soggetti. «… il gesto è più individuale dell’individuo … molta la gente pochi i gesti … Siamo … i loro portatori.» Assicura Kundera.
Insomma i soggetti sono in qualche modo seriali: si passano i gesti come si passano parole, motti, atteggiamenti. Le specificità personali, i caratteri, scaturiscono nella differenza delle aspettative reciproche, nella torsione di gesti identici diversamente assemblati nel gioco interattivo, nella dialettica io-me-altro-altri, ma anche dalle inaspettate risonanze che la ripetizione reale o mentale di un certo gesto produce in noi – che appariamo o riteniamo essere la fonte - allorché lo vediamo in altri come in uno specchio, magari deformante.
Dati questi presupposti, lo scrittore si sente pienamente motivato e giustificato nel saltare da una contemporaneità storica a un’altra, nel raccontare e trovare elementi di analogia tra situazioni e contesti assai differenti E perciò agilmente può sospendere temporaneamente e alternativamente l’intreccio tra personaggi costruiti come viventi nella Parigi attuale e spostare agilmente la propria osservazione su storie documentate e passate in giudicato, come quella che, per esempio, segnò il rapporto tra Goethe e Bettina Brentano. In questa –nella riconsiderazione kunderiana - la sete d’ immortalità  e la sua amministrazione hanno un rilievo più ampio, venato di fraintendimenti e di sottili ambiguità discorsive, che  il Nostro fa emergere e di cui rivela la vera posta nel gioco: il presunto possesso delle chiavi interpretative di un buon tratto di storia e di letteratura.
Ampi e variegati sono gli spazi concettuali che l'Autore attiva mediante narrazioni che egli sviluppa come se parlasse mentre osserva i suoi personaggi col puntiglio dell'entomologo.  

Questa e altre singolarità contraddistinguono il piglio narrativo di questo straordinario scrittore: egli apre un cantiere, dispone en plain air i suoi attrezzi:  sensibilità umana, orecchio ai suoni, curiosità, osservazione, esperienza, scienza e immaginazione. Preleva dal vero dei modelli, dei tratti non psicologici, nel senso di cui s'è detto. Su di essi costruisce pezzo a pezzo dei personaggi e li fa vivere ciascuno per sé e nella coscienza dell’altro; non dissimula affatto i suoi procedimenti, anzi li rivela strada facendo e compie ampie digressioni circa l’uso delle “impalcature”e dello strumentario, con perizia e ironia, e li lascia poi a pulsare e dire il loro ruolo nell’opera.

giovedì 8 dicembre 2016

Lettera dal futuro - inedita di Bianca dedicata ai giovani e non solo


 Lettera dal futuro 



Confidammo
al domani
l’involto degli auspici
 con la cauzione algebrica
allegata
Il domani diede forfait
si presentò istante
privo di credenziali
 con la pretesa
di durare un oggi
intero
di essere nuovo
e di
 non riconoscere pendenze
di  non
 fare appelli
segnare assenze


Gli inalberammo contro
nostre aspettative
Significò
senza articolare suono
“Fortuna vostra
d’aver varcato vivi
la mia bocca!”

Un boato - in quella -
ci sparò alto
poi ci abbatté sul suolo.
Il cielo sopra noi
ardeva tutto in fiamme


Più che sospetto
ci trapassò certezza
d’essere giunti vicini
al suo sfintere.


sabato 3 dicembre 2016

Alba - poesia inedita di Bianca Mannu



Alba 

Perché stupisce
già sveglio e nuovo
il verde
passando per feritoie
d’occhi  colmi di buio
ancora
da un mondo
di isole e di squarci
dato per noto
e ogni volta straniero?
Il sole gramo
allunga al verde
l’esistenza
pallidamente tinge
i cavi dei balconi
grondanti
ottuso sonno
mattutino.



Nota- Talvolta ci si stupisce del proprio stupore. Sulle facciate dei casamenti periferici,il sole si presenta a scacchi, pallido. Con gli occhi ancora assonnati cerchi il verde sullo sterrato brado e ti sembra l'unica cosa viva e nuova. La prima foto a sinistra riprende il cielo e il colle antistante il mio balcone, a nord-est, prima che il sole si affacci all'orizzonte. La foto a destra riprende l'interno del balcone qualche minuto più tardi e il mio gatto, Musetto, che gode i primi raggi.

giovedì 3 novembre 2016

IN MEMORIA DI ERACLIO NATERI di QUARTUCCIU una sua poesia

Ho letto il solco roso dal tempo


Ho  letto il solco roso dal tempo,
inciso nel calcare sbiancato.
Denti calcinati dal sole
Nella gengiva rossa della dolina.

A stento ho trovato la trincea dei razzi,
più col ricordo e l’ansia
che con gli occhi.

I cespugli, le foglie, il bosco
quasi a nascondere la terra,
fradicia ancora di umori di morte,
tutto ricopre con pudore
la stanca ripetitività del tempo.

E ti ho visto”Cippo Brigata Sassari”
labile segno di pietra
per l’urlo disperato,
il rimpianto per i campidani
rossi di papaveri
e la pecora al pascolo;
e il corpo straziato rivolto alla roccia
a concimare il nulla:
quello di ieri,
quello di oggi.

E io tutti li ho visti … i riversi …
tutti li ho li ho riconosciuti,
 non mancava nessuno.

Ma il singhiozzo ha interrotto
Il silenzio dell’anima…
e lento saliva sul Carso

un volo di gabbiani.

di Eraclio Nateri

Questa e altre poesie di E. Nateri, sono state lette dai poeti dell'Associazione Impari po imparai, dopo l'introduzione commemorativa del Suo Presidente Angelo Spiga e l'intervento di Andrea Nateri, figlio e poeta.
Accludo qui una mia nota

Questa poesia così intensa e forte indurrebbe a credere che il Poeta fosse un reduce. 
No; e lo scrive a chiare lette là dove dice “ho letto”.
Che cosa legge? Un cippo, un cippo così poco significativo rispetto a una terra ancora fradicia di “umori di morte”e a una testimonianza umana così povera di viva ed efficace memoria .
E perché, pur leggendo, cioè riprendendo atto di fatti non vissuti in prima persona, si avverte lo stesso strazio e quella stessa rabbia che i “riversi”, tutti presenti nella morte violenta delle battaglie avrebbero manifestato se avessero intuito l’inutilità del loro sacrificio.
E qui non si può non notare la discreta citazione del poeta – soldato e reduce Ungaretti.
Questa poesia mi chiama a una vicinanza col sentimento del poeta, e m’induce a dire -io con lui – noi.
Noi, di terza e quarta generazione post, ci siamo portati dietro un retaggio di ansie che ci continuano a spezzare l’anima tra voglia e paura di non poter più capire e archiviare, perché anche il voler capire e giudicare è doloroso, come se dovessimo entrare di nuovo con la carne viva dentro una maglia metallica già tessuta senza di noi; soffriamo tra desiderio e paura di ricadere in una falsa consolazione innocentista, non più possibile, viviamo sgomenti in quel nuovo ordine che scaldavamo luminosamente umano e che invece si rivolta in nuovi orrori in progressione.
 In questa poesia il poeta, e noi con lui,viviamo tutte le guerre della contemporaneità, specialmente quelle che incoronano di spine il nostro unico giorno,  che sono la cifra dell’ordine attuale e ripetono all’infinito il nostro scacco etico e politico.
Eraclio mi chiama in causa e mi scuote con questi versi che rifiutano il patriottismo di ricupero, ma sono una domanda inquieta: quando saremo umani in un modo diverso?
Bianca Mannu 

giovedì 20 ottobre 2016

Da "POESIE IMPOSSIBILI" - GUERRE E DESTINI - inedite di Bianca Mannu

Nota Le tragedie umane che ho davanti agli occhi, le mitragliate che ossessionano la mia impotenza, la sofferenza che mi dilania l'anima, la sorte dei bambini... C'è rabbia in me, non canto, né consolazione... So, credo di saper dire ciò che dico, ma non vi aspettate inni o peana...
Sono all'opera logiche folli e ci sono i responsabili: uomini, solo uomini che pretendono di trasformare ogni essere o ente in oggetto convertibile in altro per sé: godimento del puro potere.
















Guerre e destini

Nei sobborghi fangosi della terra
si alternano al potere soldataglia -
gallonati di pessima taglia -
paraventi di  occulti consiglieri
prezzolati  e gran filibustieri
che tramano blitz
e ogni sporca guerra.

Le nuove guerre – come le passate -
sfociano in conflitti per la supremazia.
Con  tenaci argomenti principiate e ribadite
contro i dubbiosi e gli oppositori.
Ancorché gonfiate e spacciate come irreversibili
sono ancora e sempre del tipo
“Armiamoci e partite”
Perché il vero segreto è questo:
portare al più presto
 l’inferno nel fronte avverso. 
E i fronti sono tanti
quanti gli interessi contrapposti.

   Sarà questo il prezzo per la pace del natio versante? 
Per la pace del tuo notturno sogno - forse. 
Ma quella che vivi  tutti i giorni è guerra strisciante.
Guerre quotidiane … -
quelle  accese a ridosso dei mercati -
quelle di famiglia – tra inquilini di casa – 
quelle tra dirimpettai delle vie più strette –
quelle tra le automobili e le biciclette –
quelle semaforiche tra veicoli – 
quelle razziali fantasiose e tremende
periodicamente fomentate  da partiti e da giornali – 
quelle di classe nebulose e complesse
attivate per aggiungere o sottrarre diritti alle masse -
quelle sottili e infine sanguinose
tra mariti e irriducibili spose
decise  a divenire indipendenti
– guerre vendute in forma di pettegolezzi
con i particolari in cronaca: nefandezze …
… Su tutte 
ci mette il segno orrido la ciurma 
degli illusi  e disgraziati e la policroma marmaglia
dei delinquenti d’ogni sorta e taglia.

Si scrive intanto sopra e tra le righe dei giornali
si divaga tra report e reality in TV 
che grandi e piccoli conflitti sono manna
per chi v’impegna ingenti capitali -
ma sono anche soluzioni
per i forzati di certe professioni. 
“Voce dal sen fuggita  al  vero ti condanna!”

E dunque - come al tempo degli antichi imperi –
si assoldano combattenti mercenari.
L’amor di patria – peana screditato  - ha smesso
 di uguagliare dentro ai petti l’erba voglio 
batte e ribatte invece nel cuor del portafoglio
e viaggia sull’abbondanza del bisogno.

Torme di umani in marcia: miseria generale. 
Ciascuno si sente infetto del problema personale. 
Il dorso sopra i visceri contratto a inutile difesa.
Sibillina o mortifera circola anonima -
in  agguato -  mista alle polveri l’offesa
 nel vento detonante.
Si sosta in cunicoli e in anfratti di muri per sfuggirle –
 si veglia in bilico sul piede della fuga
si trattiene il respiro sopra il lume cieco
della vita afflosciato sul suo minimo
dentro il sistema limbico …
Si sposta con le torme dei fuggiaschi
una miseria fetida di morte.
Di morte in morte riaffiora 
aggrappata alla creatura puntata sul resistere.

Spiaggiata in corpi esausti – arranca verso 
gli angoli d’un mondo che la teme
come se già non ci dormisse insieme …   
 Involta nelle pieghe ora più fruste 
di vesti scombinate da molteplici accidenti
 tuttavia dilaga oscenamente maschia
nel sole dei giardini
s’infratta nei timidi cespugli 
quasi a scansare l’evidenza
 che impone del derelitto la familiarità con l’indecenza.

 La città nobile scioglie nel frizzo mattutino 
tra eleganti palazzi il traffico operoso
e fluisce umanamente babelica 
intorno al suo epigastrio. 

 Ma a sera espone l’opulenza dei lumi
esulta di colori  e di profumi 
spumeggia di movida  espone sul passeggio
l’indifferenza felina dei carini e il loro futile corteggio.
Ecco l’immagine di copertina.

Ma - come la notte avanza incontro alle ore piccoline -
s’attenuano le luci e i belli 
tornano ad abitare i lussuosi ostelli.
Allora sono le ombre dei porticati e degli androni
a riempirsi di sbadigli sussurri e strabalzoni  …
È l’altra umanità che – suo malgrado –
occupa la lista d’ombra della quinta –
 che il nottambulo rasenta senza averla distinta –
 che l’ultimo galoppino delle pizze
annusa fuggendo verso il suo fastigio
gravido d’un domani che – già se lo figura -
 riserva solo qualche sfumatura di grigio.  
Luci basse in quarta di copertina.

Questi i destini!
Colpa di Giove - della Luna – dei Monsoni?  
Non divaghiamo in disutili questioni
che in questo buio denso
uccidono il gusto del dissenso
  
 Non  so se avete riflettuto -
come  tra ombra e sole  hanno intuito i saggi -
                 che la guerra fa da imbuto
e da tramoggia:
distrugge frange cerne …
oscuramente attua selezioni
mette ganasce alle contestazioni 
abilita i pochi a laute riscossioni.

“Disapprovare la guerra”
  è compito affibbiato 
a certa retorica dell’ipocrisia.
Comoda!
 Anestetizza i sintomi della sociale malattia.
Agli scarsi uffici della diplomazia
si addebita il sicuro collasso:
le trattative inciampano
su codicilli di sasso. 


La guerra è.






 


venerdì 7 ottobre 2016

Uno sguardo di bianca su "Isole e voci" di Maria Rosa Giannalia

È con questo titolo che la seconda raccolta di racconti di Maria Concetta Rosa Giannalia vede la luce.
Ma qui la semplice e gaia magia volta all’infanzia si muta in un discorso realistico, scorrevole e apparentemente senza preconcetta malizia, il quale, andando a frugare nello sciogliersi quotidiano del vivere, vi coglie l’inatteso, oppure il paradosso, o anche l’insensatezza; e questi tratti si manifestano variamente combinati con l’insormontabile solitudine e l’ambiguità degli esseri umani nell’ambito delle relazioni sociali e interpersonali.
Sono proprio le voci - nella loro normale sonorità che Maria Rosa, figlia naturale e adottiva di diverse isole, modula - non solo a specificare la geografia spaziale in cui  vuole introdurci, ma anche a inviarci gli echi d’un fondo umano oscuro e inquieto a lei noto. Esso si palesa simile, malgrado i diversi idiomi e i differenti localismi, e spesso larvato entro i connotati della banalità quotidiana. Anche quando il racconto comincia a dipanarsi da un evento apparentemente più drammatico, nasconde una verità più sottile e acre, che appare quasi di colpo ancorché sommessa e stemperata nei toni ingenui di un personaggio fanciullo, come in Tanino.
Le vicende narrate espongono un susseguirsi di situazioni, a partire da quelle in apparenza logiche o naturali fino a quelle che si svolgono sullo stretto limite dell’insensatezza. Più che volute, risultano subite da personaggi ordinari, i quali, così come vivono, si spengono nel progressivo annullamento di ogni senso del loro  passaggio, tranquillo o feroce o misero, nel mondo.

giovedì 29 settembre 2016

ERVAPEDRA = LICHENE - due sonetti di ANTONIO ALTANA

Parlarsi da verso a verso è una delle più singolari e squisite emozioni che la sorte può regalarti. 
Una pratica che solo gli antichi, di comunità relativamente piccole, esercitavano con reciproco impegno e soddisfazione del pubblico, dato che questo scambio avveniva oralmente e pubblicamente nei raduni religiosi e civili.
Antonio Altana, sardo come me, dialoga con me, in relazione al mio divenire metaforicamente il lichene - del poemetto Figlia di liberti.  Come  uno scriba bizzarro e spontaneo, quel lichene incide sulla roccia, insieme al suo percorso vitale, le anonime peripezie storiche delle classi lavoratrici, nell'unico modo che può.
Antonio  Altana riprende quella metafora, rendendo perspicuo il riferimento al lavorio linguistico che conferisce senso a ciò che sembra non averlo secondo banale evidenza. Sciolto, moderno nei significati e nell'espressione, il suo stile aderisce alla forma classica del verseggiare. 
Altana, predilige il Logudorese, sua lingua nativa, che io, Campidanese, conosco poco, ma di cui "a naso" avverto l'eleganza e la precisione lessicale. Usa l'italiano, come lingua di più largo supporto e a quella mi appoggio per capire meglio il concetto. E lui, anche da questo versante, si rivela poeta raffinato.  (B.Mannu)

Ervapedra

Dare versu a rocas carasadas
cun atarzina limba geniosa
est frùtura licanza e saborosa
pro biados de bramas iriadas.

Medas bident sicaza neulosa
inue b'at cagliadas sirigadas
chi movent pesos chena sueradas
fora dae s'usantzia pretiosa.

Sighi che ervapedra a suer rocas 
pro frunire cun fozas sos colores
chena timire abba ne fiocas.

Mantene atenatzados sos valores
pro mezorare sos sinnos chi tocas
cun grafemas cundidos de lugores. 


Lichene

Dare verso alle rocce inaridite
col lessicale acciaio del talento
è frutto prelibato e succulento
per pochi eletti alle brame assortite.

Molti vedono arse e sbiadite 
le gemme nel suo muto crescer lento
che smuove pesi per rilassamento
oltre le prassi solite, impigrite.

Continua da lichene, suggi rupi
per fornire con forza quei colori 
senza timore degli eventi cupi.

Tieni sempre tenaci i tuoi valori
per migliorare il senno nei marsupi
con grafemi farciti di bagliori.

giovedì 22 settembre 2016

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu - Seconda parte

Seconda parte


Dell’altoforno so per verbi scialbi
l’arsione – altrimenti feroce –
del suo fiato.
E solo per procura dei media
la sibilante pazzia conosco
dei fuochi e degli acciai

sfuggiti alle ragioni e prigioni
tecnologiche
per causa degli imprevisti colpi –
si mitizza - della malasorte
su malfatati Efesto di caduca sostanza -
appesi a un salario
magro e morganatico.

Conosco per sentito dire
le bocche delle trance - delle tramogge
delle pompe a risucchio e a cremagliera –
 spalancate – avide –
dentate – semoventi –
con voci di tuono
e stridenti di ferraglia …

Di debolezza si mormora
a carico di uccelli giganteschi e implumi –
forgiati in gelidi metalli  e vetri –
di gru fradice - si dice - di bufera
e d’altri scempi … 
E di stantuffi matti – si narra ancora –
colti a sfiatare in faccia
micidiali vapori al diavolaccio 
che – per motivi - si disse –
di razziale ascendenza –
di scarsa intelligenza-
per nera pelle o bianca o
d’indecidibile colore -
all’incanto s’è posto – oggi lo si ammette! -
per obbligo di economica natura
d’ “impar condicio” storico-sociale
e di altri – (sempre per malasorte!)
non solo ideologici - tormenti.

E  io ?… In quale – di detti registri  –
sono inscritta? 
Sono forse sfuggita di mano
al mio più duro destino?
Però sono dovunque
dovunque hanno lasciato ossa
e pelle gli antenati e miei parenti
e altri ritenuti alieni d’oltremare.
Contro quel destino
mi sono evoluta stranamente
e in un modo che
certo ha del sorprendente.

Sento di vegetare adesso
un po’ torpidamente
nel dubbio di un clima … di frontiera.
Tra pioggia e vento  confido
allargarmi sulla roccia  avara
e scaldarmi di sole generoso …
Respiro – respiro
respiro a tempo di risacca.
E respirando sopravvivo.
Sono lichene e sul mio sasso
scrivo!

venerdì 16 settembre 2016

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...: Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi ...

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu


Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi mai il babbo, ma il Patriarca-padrone, il quale talvolta abita lussuosamente altri luoghi. Le radici sono le invisibili e spesso insapute/dimenticate connessioni storiche che ti assegnano il posto da cui spremere, tra sudore e paura, quel qualcosa che diventa energia, respiro. Se incroci il caso fortunato, occupi uno spazio e vivi in un modo che altri hanno sudato per te e che tu
spesso ignori
Questa. che ho enumerato in questi e altri versi liberi
è la mia genealogia e la mia parentela.
Sono sarda, ma i miei ascendenti e discendenti sono sparsi a faticare nel mondo


Figlia di liberti


Non so che cosa sia un chiuso -
un campo coltivato - un orto …
M’è ignota la terra che mi nutre.
Così delle sue viscere altro non so
se non che vi alberga la sorgente
di certi monili che attestano
la mia femminile schiavitù –
quella nuova – non meno di quella
che le antiche mie madri – tra un fiato
e l’altro del loro eterno faticare –
mettevano  in parola di conferma –
per l’infausta progenie femminile -
intorno al fuoco – avanzando sera.

M’è ignoto il sentore aspro della terra
ferita dal chiodo dell’aratro.
Bestia d’allevamento urbano –
lascio ad altri gli effetti corporali
del burbero e moderno
scotimento del trattore
e di quello mandibolare della
mietitrebbiatrice.

Non so il gusto del fango
che nutriva le patate
interrate nei terrazzamenti. 
E i suoi effetti non so
sulle “faldette” delle nonne
inginocchiate sul costone.
Diveniva – seccandosi sul tubero -
teca di conservazione
nell’interrato/stalla dove –
sullo stesso strame
della mucca figliata -
il ventre d’una mia ava 
partoriva il mio passato
come acconto in bianco
sulla futura carne.

Non ho abitato le case/covile
addosso alle falesie
né le capanne di legno vivo
e vive frasche
ho abitato - servo pastore
in tanche di costiera
o in quelle di bassura – in condominio
con l’ovina gente.

Non ho corso le onde
sui gusci di noce
per strappare alla vita –
con reti o con paranza-
la vita di creature
costrette a guizzare
il proprio morire di soffocamento
nel vento sordo
dei loro affannati giustizieri.

Neppure abitano le mie tante paure
le convulsioni dei fortunali  salsi
né i repentini viraggi d’acque
a complotto  coi nembi
gonfi di saette …
Perché – verme di terra bitumata –
le ho vissute al più come parola -
come emblema e figura
d’una Natura temibile e possente
ma ammansita e reclusa
entro il perimetro delle cartoline.

Né per scelta né per dovere
la  penso intimidita – la Natura -
dall’alta arroganza delle corazzate
o dalla goffa gravezza delle petroliere …
Neppure mi muove
la volgare illusione di ridurla alla mercé
della falsa apparenza di pingui crociere
in tour transoceanico …

No, non conosco l’immenso orrore
della solitudine
nel mare freddo e nero
che m’ inghiotta e mi sbatta
contro le paratie indifferenti
del vicino Continente -
contro i rocciosi tradimenti
del suo cuore umanitario
assoggettato alle cattive ragioni
del suo viscere
in formato capitale.


Noticina: La composizione continua nel prossimo post. (B.M.)