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martedì 27 dicembre 2016

Bianca legge MARIA DI ISILI di Cristian Mannu -1°Premio Italo Calvino 2015

Si suppone che di un libro premiato da una fondazione prestigiosa non possa dirsene che bene. E Maria di Isili di Cristian Mannu , vincitore del premio Italo Calvino per il 2015, sembra un ottimo prodotto. Ma pur sempre un prodotto, ossia un oggetto fabbricato per la vendita, che rincorre un gusto, una propensione del pubblico, già in atto. Si inserisce in una tendenza, peraltro riaccesasi nel secondo dopoguerra  in seguito alla diffusione di teorie etnografiche volte alla riscoperta e alla rivalutazione delle culture e tradizioni popolari, una volta completamente ignorate, se non osteggiate dalle culture dominanti. Il processo di ridefinizione teoretica a livello di ricerca storiografica, etnografica  e linguistica in senso strutturale, si è parzialmente riversato nelle concezioni comuni, dando luogo a una vulgata semplificatrice che contrappone in modo ideologico acritico  “la piccola patria”(J. Hessen), il villaggio locale, come esperienza e luogo di valori giusti e genuini, agli statalismi soffocanti, agli ecumenismi religiosi, agli internazionalismi sociali variamente colorati. L’internazionalismo mercantile postbellico ha globalizzato tale tendenza, ha collegato il ricupero o il desiderio di revival dei tratti localistici all’industria chiamata turismo. Quest’industria organizza la possibilità di fruizioni esotiche per i visitatori di culture diverse, trasceglie quelle sopravvivenze culturali ancora misconosciute e/o misteriose o stimate tali, le   adatta, spesso snaturandole e falsificandole,  ai preventivati gusti generici del fruitore medio e alla commerciabilità. Ed ecco che, senza problemi rifà il trucco alle vecchie storie mediante l’esibizione rivisitata, depurata, teatralizzata di certi aspetti rituali di antichi stili di vita popolare, attribuendo loro la patina dorata dell’atteggiamento nostalgico costruito ad arte, sulla base dell’insoddisfazione provocata dagli irrisolti problemi del mondo reale vivente e sulla ben calcolata tendenza a spostare il desiderio di evasione sul terreno del mito a buon mercato
Questo stesso processo decreta anche la scelta tematica, il confezionamento e la sorte di molte delle opere di scrittura narrativa e poetica. Infatti oggidì uno scrittore alla sua prima prova non può, forse, esimersi dall’annusare l’aria che tira. È questa, per  gli scrittori sardi, esordienti o meno, a mandare il vento in poppa (non particolarmente gagliardo) a quei vascelli di carta che solcano le correnti del mito e mantengono la barra del linguaggio in una sorta di terra di mezzo tra monodie e polifonie piuttosto soporifere, che non richiedono alcuno sforzo interpretativo, anzi vanno a riempire i vuoti e l’accidia culturali, carezzano il vello dei patiti del localismo civettando con le sgrammaticature più ridicole. 
Ora mi sto chiedendo se le centrali della cultura letteraria nazionale (storici della letteratura, critici, talent scout, editori, fondazioni e associazioni culturali, giornali quotidiani e loro inserti, i premi, le riviste, ecc.)  abbiano consapevolezza di come il loro imprimatur arruoli, per esempio, gli autori sardi, al compito di corifei di una cultura volta all’indietro, e ottusamente ripiegata sul proprio già da sempre infelice ombelico, dominato dalla consuetudine irrigidita a istinto, e questo, più che vissuto, propinato come fato nei testi.  L’apparente  indifferenza mercantile circa le tematiche si accorda “convenientemente” con le pur nebbiose indicazioni anzidette e quasi suggerisce quale  sia il gradito volto che la Sardegna debba mostrare al mondo e alla sua stessa gente, impoverita di tutto, ma specialmente defraudata degli strumenti adeguati al conseguimento generalizzato di una formazione culturale capace di sceverare concettualmente il mito dalla realtà, il simbolo dall’oggetto,  di decodificare i meccanismi sottesi al mondo reale, tanto quelli delle epoche superate  quanto  quelli che sono attivi nel presente.
Dentro un tale stampo, i sardi sembrano colpiti dall’incantesimo che li relega in un’indeterminatezza temporale e storica, nella  quale le psicologie personali rispondono ancora a categorie rudimentali ossificate, barbariche insomma.
Lo sguardo insistentemente rétro di parecchi autori di questo primo quindicennio, e  Cristian Mannu fra essi,  denuncia questo blocco e la fuga circolare in una bolla nostalgica di una presunta identità selvaggia, quale riferimento  genetico collettivo regionale, contenitore assoluto di  potenziali germi creativi, ma ciecamente fissato sulla propria impossibilità di sviluppo.
Il romanzo di C. Mannu, Maria di Isili, rientra nettamente in questo quadro. L’Autore vi aggiunge di suo un rilevante eccesso di enfasi, solo apparentemente epica, in realtà fissata su figure poco emblematiche, mancanti di spessore e di motivazioni, tutte centrate su una generica patologia emozionale. La scelta monodica - per cui ogni personaggio offre la sua versione o parziale o personale degli eventi (anzi la “canta”quasi alla maniera delle prefiche) - vorrebbe snodarsi in polifonia narrativa, ma questa, anziché aprirsi a una rappresentazione dialettica articolata e complessa, si risolve in comparizioni monologanti, in cui protagonisti e comprimari restano prigioni della staticità insormontabile e della solitudine monadica. I personaggi femminili, emanazioni di volontà altrui - quelle dell’Autore, si presume – sono privi di psiche, ridotti a sostanziale lacrimatoio del micro mondo della mal assortita parentela. Maria, ingannevole vessillo di un femminino inesistente (così Isili,le cui uniche coordinate fisiche sono le impressioni fugaci del visitatore del ventoso sito archeologico del territorio), non riesce neppure ad essere credibile stereotipo della vittima, manca di vero e proprio ruolo, non emette il minimo barlume di intelligenza, neppure quella del sentimento. Lei, sua madre e sua sorella restano crocifisse alla propria indefettibile subalternità al richiamo sessuale dell’adolescenza, il cui naufragio scivola in autocensura falsa e tardiva, mai nell’autocoscienza di un calcolo erroneo, di un’ingenuità che può riscattarsi.  Da queste numerose défaillances si ricava la netta percezione che l’Autore, preoccupato di racimolare gli ingredienti forti ritenuti necessari a stimolare palati ottusi, teso a lanciare appetitose promesse dal titolo, non ha dominato la materia del narrare e la taratura psicologica dei personaggi. L’oggettività dei fatti e dei troppi misfatti emerge dall’escussione delle voci narranti – ed è, nel suo eccesso di brutalità gratuita, tutto il melos della vicenda.  Essa si può riassumere così: Ethos - il più torvo custode e ingigantito topos dell’immaginario collettivo assorbito da soggetti perversi -  vince su Eros. Eros, possibile motore della vita, si profila in modo elementare e coattivo nei diversi soggetti e pare risolversi nel semplice atto sessuale  che, concludendosi in riproduzione, si proietta all’esterno, creando il viluppo tragico. La soluzione catartica, se mai possibile, è assolta da Tanatos, morte inflitta, procurata o pervenuta per cedimento del corpo, per vergogna, per crudele stupidità. Essa travolge tutti i personaggi, tranne Evelina, sorella di Maria .  Il romanzo potrebbe concludersi così. Invece l’Autore vuole realizzare una saga con rigenerazione  della stirpe. E “pour cause”, dato che Maria si è negata ogni comunicazione! La narrazione si trascina in epistole finali molto succinte e di cattivo stile narrativo, quasi un rattoppo al fine di collegare, come una sorta di resipiscenza affettiva da parte di Evelina, le  quattro generazioni evocate.  Resipiscenza senza spiegazioni, una questione di consanguineità nella quasi ignoranza della storia familiare. Parlano gli oggetti, la casa grande, i beni, come richiamo da un lato; dall’altro parla il sangue, cioè l’avvenuta trasmissione - per via genetica, parrebbe - della creatività artistica dell’ava in una nipote che, non si capisce il perché, ha per nome Maria di Isili, benché nata e allevata  nel Continente.  Lei sembra sapere già come valorizzare la sua ereditata risorsa e come introdursi nel mercato.
Il cerchio è stato chiuso, ma il medioevo culturale ha continuato a insistere all’insaputa dell’Autore.

domenica 18 dicembre 2016

Bianca legge L'immortalità - romanzo di Milan Kundera (gliAdelphi)

Milan Kundera non è l’unico fra i grandi scrittori contemporanei ad argomentare sul perché e sul come racconta ciò che racconta, mentre sta raccontando. Però egli lo fa con incantevole leggerezza di tocco. La stessa parola «immortalità», per la verità, non troppo sovente ripetuta,  esce dall’apparente ingombro statuario, entro cui la percepiamo d’emblée, per divenire alito di comune umanità.
La tesi che attraversa l’opera, come una corrente leggera e sotto traccia, è che gli umani perseguono l’immortalità, quale tentativo e modo di sottrarre alla morte qualcosa di sé. Propensione nota, studiata  e metaforizzata fin dall’antichità.  Ma il Nostro fa in modo che il desiderio di essa scaturisca dal semplice darsi da fare a vivere giorno per giorno, ma anche a non dissiparsi completamente nel presente. Infatti i personaggi – accompagnati dallo sguardo benevolo dell’Autore nel loro quotidiano - dedicano una porzione di energia per salvare di sé alcunché di immortale e si applicano a pregustarne gli effetti nel loro presente. Noi persone comuni, abituate a ragionare in termini di tempo della vita, non pensiamo davvero a un’immortalità immortale, se mi si passa il bisticcio. Cerchiamo di dilatare il nostro presente nell’altrui tempo futuro. Il desiderio di estensione non è uguale per tutti.  Sono i ruoli sociali, il grado di cultura e la temperie civile in cui si è inseriti a ritagliare l’orizzonte di immortalità a cui ciascuno può aspirare, perché traspare presto che la disponibilità di tempo risulta preliminare all’insorgere del suo desiderio. Questo desiderio pare scaturire – secondo la scrittura di Kundera – più prepotentemente nel momento in cui la vita sembra tradirti o cacciarti in un “cul de sac”. Ma perché quell’aspirazione prenda forza, occorre che questa stessa vita ti conceda anche opportunità e tempo per riflettere-arzigogolare e ti abbia già fornito anche gli strumenti psicologici e culturali per parlare a te stessa/o, tirarti dentro gli altri – vivi e morti - e discuterci, tirare le fila del tuo esistere.
Non vi è spazio, nel racconto di Kundera, per la concezione escatologica dell’immortalità. Essa è chiamata in causa come semplice funzione dell’ immaginario: tu sogni di restare in qualche modo viva/o, da morta/o, tra i vivi. Sogni ed agisci, ora, in un modo che ti fa ritenere che i vivi non possano, non vogliano, non sappiano prescindere dal percepirti presente come un’istanza interiore forte; istanza affettiva oppure etica oppure intellettuale o tutte queste cose insieme. Naturalmente sai perfettamente che nulla di ciò che costruisci con quel fine, potrà essere oggetto di constatazione. Nondimeno persegui lo scopo corrispondendo a un godimento immaginario e attivando quel godimento nel tuo presente.
Questo è, grosso modo, l’assunto concettuale dell’opera. Ma non è esposto in forma trattatistica, bensì, inserito con agilità come un sottotesto che trapunta e accompagna piacevolmente il testo narrativo. Quest’ultimo sbalza a tondo e dinamizza i personaggi traendoli in vortici, non solo e non tanto per azioni e reazioni, ma per cambi di prospettiva, di modo che situazioni, apparentemente ovvie, divengono momenti nodali del vivere, tra concomitanze, collisioni o rievocazioni mentali.  Per quel che mi è dato capire, Kundera non persegue la linearità logica e cronologica del romanzo classico e neppure la sinusoide del romanzo novecentesco condotto come flusso di coscienza; o meglio, usa anche questa tecnica a servizio dei personaggi e per sequenze definite. 
I personaggi prendono vita da un gesto che non rappresenta l’essenza dell’io soggettivo, né una sua creazione, bensì un circuito, un modello preesistente attorno al quale si struttura quell’io. Un gesto è come un lemma linguistico, precede il soggetto e permette al soggetto di strutturarsi agganciando gesti e lemmi analoghi o dissimili in partite che chiamiamo relazioni fra umani.  Le persone sono incarnazioni di gesti e tratti, comuni a una pluralità di soggetti. «… il gesto è più individuale dell’individuo … molta la gente pochi i gesti … Siamo … i loro portatori.» Assicura Kundera.
Insomma i soggetti sono in qualche modo seriali: si passano i gesti come si passano parole, motti, atteggiamenti. Le specificità personali, i caratteri, scaturiscono nella differenza delle aspettative reciproche, nella torsione di gesti identici diversamente assemblati nel gioco interattivo, nella dialettica io-me-altro-altri, ma anche dalle inaspettate risonanze che la ripetizione reale o mentale di un certo gesto produce in noi – che appariamo o riteniamo essere la fonte - allorché lo vediamo in altri come in uno specchio, magari deformante.
Dati questi presupposti, lo scrittore si sente pienamente motivato e giustificato nel saltare da una contemporaneità storica a un’altra, nel raccontare e trovare elementi di analogia tra situazioni e contesti assai differenti E perciò agilmente può sospendere temporaneamente e alternativamente l’intreccio tra personaggi costruiti come viventi nella Parigi attuale e spostare agilmente la propria osservazione su storie documentate e passate in giudicato, come quella che, per esempio, segnò il rapporto tra Goethe e Bettina Brentano. In questa –nella riconsiderazione kunderiana - la sete d’ immortalità  e la sua amministrazione hanno un rilievo più ampio, venato di fraintendimenti e di sottili ambiguità discorsive, che  il Nostro fa emergere e di cui rivela la vera posta nel gioco: il presunto possesso delle chiavi interpretative di un buon tratto di storia e di letteratura.
Ampi e variegati sono gli spazi concettuali che l'Autore attiva mediante narrazioni che egli sviluppa come se parlasse mentre osserva i suoi personaggi col puntiglio dell'entomologo.  

Questa e altre singolarità contraddistinguono il piglio narrativo di questo straordinario scrittore: egli apre un cantiere, dispone en plain air i suoi attrezzi:  sensibilità umana, orecchio ai suoni, curiosità, osservazione, esperienza, scienza e immaginazione. Preleva dal vero dei modelli, dei tratti non psicologici, nel senso di cui s'è detto. Su di essi costruisce pezzo a pezzo dei personaggi e li fa vivere ciascuno per sé e nella coscienza dell’altro; non dissimula affatto i suoi procedimenti, anzi li rivela strada facendo e compie ampie digressioni circa l’uso delle “impalcature”e dello strumentario, con perizia e ironia, e li lascia poi a pulsare e dire il loro ruolo nell’opera.

giovedì 7 luglio 2016

ESISTENZE-INSISTENZE E STRASCICHI

 "Dettagli di un sorriso" .... Favola nera

Il processo di decodifica e interpretazione di un testo complesso, come quello di un romanzo, da parte di un lettore quasi comune quale io sono, non può dirsi compiuto in qualche giro di frase, anche perché la lettura effettuata continua a frugare il sottofondo esperienziale, culturale, il sistema concettuale e immaginativo del lettore che interroga il testo e se stesso per suo tramite.
 Ma io non avrei scritto ciò che ho scritto e sto per scrivere se non fosse nato un colloquio con l'Autore, il più bello e interessante che  io abbia vissuto in tanti anni di scrittura e frequentazioni fb, ma anche di discreta partecipazione in corpore agli incontri letterari, da cui qualcosa ho desunto.
Per esempio che la platea dei lettori è, non solo, ridotta rispetto alle potenzialità numeriche e alla diffusione delle competenze strumentali, ma superficiale, fissata sul “mi piace” o “salta”, come su fb, o sull’applauso che non viene negato a nessuno, qualunque cosa presenti o legga.
 Gran parte del pubblico legge narrativa con lo stesso atteggiamento con cui consuma hotdog da Mc Donald’s: riempie un vuoto, il vuoto di un momento, che poco dopo si manifesterà come bisogno di acquisizione o di consumazione di qualcos’altro, con esito simile al precedente, a meno che il vuoto dell’animo e quello fisico non venga temporaneamente riempito da alcunché somigli a uno spettacolo, dove ognuno diventa volta a volta attore e pubblico, celebra la voglia di esibizione egotistica o gode di riflesso per quella altrui; e brucia così un pezzo del suo tempo di vita, divenendo “oggetto che gode”: pancia, stomaco, solletico del corpo tramite le facili sinapsi sottocorticali, mentre fuori da questo alveo è noia, è palla, è costrizione dentro il tempo lungo della fatica o del doversi incontrare col proprio sé ignoto che guarda, dunque è inferno da cui  velocemente cercare di uscire … Io mi spiego così, l’enorme platea dei lettori dei gossip: pessima letteratura adatta a stuzzicare curiosità viziose, a semplificare o a mettere in mora il pensiero razionale, a occupare il vuoto mentale.
Valdo, il protagonista del romanzo, malgrado il suo livello di istruzione, possiede in buona misura queste caratteristiche.  Per dirla in altro modo – ma non si può dire tutto subito -  tu, Gianni hai ritratto un personaggio la cui cultura, non solo non riesce a porlo a distanza critica dal reale e da se stesso, ma lo intrappola sempre più nel non senso, espropriandolo dell’inquietudine etica autentica, da ogni sentimento mansueto, da ogni appartenenza umana non abitata dalla ferocia e dal disprezzo.  
Se il tuo occhio e il tuo sentimento si è posato sullo spaccato di mondo dove ciò si verifica e ha permeato in profondità i legami sociali così da mutarli in cosa (potere, denaro,violenza e sopraffazione, inganno…), non è perché tu sei cattivo o mediocre scrittore, ma perché non ritenendo credibili e spendibili certi modelli di apologhi edificanti, per onestà intellettuale devi necessariamente incontrarti con i Valdo e i personaggi, meno carnei, di contorno,  perché sono tipici. Ma se singolarmente considerati sembrano mostri, lo sono solo in sottordine... Insomma non è Valdo il mostro, la mela marcia - benché lo sia come individuo di una morale assoluta - ma mostruoso  è il sistema che lo produce e ne alimenta nello stesso tempo la ferocia e la mancanza di ogni minima forma di empatia umana. E il sistema - che ne seleziona, per dir così, il genoma - si regge sul possesso, raggiunto non importa come: avere cose per avere signoria sugli umani, dominare su di essi o distruggerli, anche perché loro e il Valdo sono replicanti prodotti dalla stessa logica.
È  questo, credo, il materiale per la tua favola nera. Ma come per le favole che finiscono con i lupi che mangiano gli agnelli e dominano sulle pecore, non si dà catarsi etica né drammatica, perché l’istinto narrativo dell’Autore sa  che “a canzoni non si fan rivoluzioni”.  
Ma si può mettere in scena l’ironia amara, lo sproloquio etico consolatorio, le smargiassate e le sviolinate sentimentali per la musica, la passione strumentale e animalesca per le donne, le farneticazioni dove le aporie e gli ossimori sono la traduzione verbale degli scollamenti umani e sociali  e dell’orrore delittuoso stemperato dalla fragile consistenza  dei replicanti e dal fatto che la narrazione  si mantiene, e lo deve, sul piano favolistico e letterario da cui era partita.
Tu, questa mise en scène, riesci a sostenerla in modi che, insistendo sul regime da favola, attingono al tipo di disperazione che caratterizza certi personaggi beckettiani; riesci in alcuni tratti a dare flusso quasi di canto, di poesia, come già detto, alla sequela demenziale dei soliloqui e dei non-sens, così come risulta letterariamente interessante il calibro ben dosato dell’idioma malavitoso che punteggia dialoghi e progetti delinquenziali.    

martedì 5 luglio 2016

Bianca Mannu legge DETTAGLI DI UN SORRISO - romanzo di Gianni Zanata

Non conoscevo niente dell’Autore né delle sue opere. Ora che ne ho una in mano, so  ancora meno di entrambi e forse, a lettura compiuta, non saprò se mi mancava o no. Un incontro casuale, prima che col suo autore, con un suo romanzo: Dettagli di un sorriso. Un “noir”, dicono.
Gli incontri casuali riserbano sorprese, a volte negative, a volte solo piene di punti interrogativi, perché se non hai già pronto un protocollo per la schedatura, lo scritto permane in un limbo di quesiti e saltabecca da una casella a un’altra, finché l’oblio finirà per tingerlo di una patina neutra. Ma se scrivi le tue impressioni, impressioni senza pretese, positive o negative o incerte o ambivalenti, qualcosa del testo resterà scritta dentro di te. Quale migliore omaggio all’Autore, après tout!
Comincio, dunque, a leggere diligentemente una pagina dopo l’altra, galleggiando a pelo di discorso, fino a cogliere i segni di una geografia fisica che mi pare familiare e tuttavia aliena. Una fisicità che scorre in trasparenze discorsive contestuali, che io riscopro nella mia quotidiana esperienza come in un fondo irrisolto, che mi spinge  a frugare nei circuiti narrativi e lessicali altrui – e ciò va annoverato come  loro pregio –  quel mio fondo che mi elegge pianta straniera, mai acclimatata del tutto nella sola terra nativa, ospite ostica. Straniera e avventizia perenne,  annuso nella traspirazione di altri vegetali, locali o allogeni, i fumi delle mie vibrazioni respinte in una sorta di chimismo ancestrale.   
Il filo di Arianna per addentrarmi in questo libro dovrei cercarlo  raggomitolato nel titolo. Ma questa è una  tecnica di lettura che non mi si confà.
Nella tecnica compositiva del fumetto, la rappresentazione del dettaglio racconta più di tante parole e fornisce informazioni plastiche sulla psicologia e sullo stato emotivo dei personaggi. E a furia di dettagliare la presunta unità-identità individuale s’infrange talora irreversibilmente, perciò nel fumetto nessuno muore mai davvero. Il fumetto schizzofrenizza la presunta compattezza dell’altrettanto presunta realtà, assume il dettaglio a categoria esplicativa e/o motivazionale del tutto, rappresenta l’alterazione febbrile, il reale patologico. Il noir letterario corrisponderebbe a questo disegno. È a questo che il titolo,  Dettagli di un sorriso, vuole alludere? Forse.   
Comincio invece come lettore ingenuo e credo che solo strada facendo perderò, se la perderò, la mia ingenuità, vera o presunta che sia.
Ed ecco un, anzi il personaggio, Valdo, baldo e baldanzoso, tutto sciolto nella propria autocontemplazione attiva. Norman, di cognome, uomo del Nord e forse anche uomo di norma… Al tempo.
Un personaggio  alle prese con la propria schizofrenia. Giornalista sui generis, delinquente in subordine e serial killer, troneggia nel testo evocando figure di carta, spettri umani senza vapore di vita.
Se la racconta –il Valdo-io narrante - questa storia senza storia, da capocomico pressoché solitario in un proscenio deserto, intento a trascinare un vuoto di senso da capitolo a capitolo. D'altronde nella follia solipsista tutto si tiene, anche il tutto di niente: ciò che  è dato come la cifra dell’esistente e del pensiero che lo pensa. Questo inferisco.
Però, da delinquente colto, il Valdo tenta persino di connettere la sua vocazione criminale con un mitico e fumoso ritorno della rimossa ferita prodotta da violenza paterna. Ci fa sapere anche che lui opta per la parte femminile, per via del giusto omaggio alla posizione ideologica progressista, lui freddo carnefice di donne! Quasi ricupero atroce di uasiquel bimbo che anela a identificarsi con quello stesso padre feritore.
Il “Freud” semplificato funziona sempre come passe-par-tout dell’animo più oscuro. Almeno un po’ sembra fornire spiegazioni rapide  e razionali.  Poi, buio.
Ma il lato “bello” cioè “etico” del personaggio Valdo è questo: chiamarsi fuori dal suo atroce pantano e tratto tratto snocciolare, a se stesso e per noi,  le sue considerazioni morali  desunte, pare, dal suo tastare il polso alla “gente”, peraltro contumace, destinataria ipotetica e improbabile dei suoi motti.
Se l’intenzione dell’Autore  era  quella di scattare dei flash sul vuoto umano che l’individualismo culturale planetario introduce nella crosta carnea della socialità contemporanea, anche in quella isolana - solo apparentemente fissata in immaginari modelli  recessivi e rassicuranti - possiamo ammettere che vi sia riuscito. Ma a che prezzo! Al prezzo di sottrarre al lettore ogni lavoro dialettico diverso dalla meccanica che, repressa e autoalimentata, tracima verso la soluzione criminosa e la celebrazione egotistica.  Ma quale crimine, poi?  Si può dire crimine, e tremarne, se si continua a trafficare in un “verbale” annientamento di figurine di carta, silouettes senza carattere, macchine per giustificare un gesto che pretende di spendersi come definitivo, letale?  
Manca il racconto, non dico verosimile, ma quello dell’inquietudine, se non della lacerazione. Insomma l’Autore-Valdo se la racconta facile. Ma in qualche tratto la parola del soliloquio, usuale, reiterata, carica di assilli e allusioni, apre un proscenio onirico “alla Beckett”, da cui fuoriesce un flusso che, per la sua indifferenza logica, per l’escussione sequenziale e talora lucidamente demenziale di asserti e marcature macroscopiche, si apre a una sorta di poesia capace di sostenere ogni gratuità, oscurità, caduta di senso.
In fondo lo Scrittore lascia trapelare il sospetto che il dire e il fare narrati siano tutt’uno col farnetico del  protagonista e con la sua sterile ansia demiurgica e punitiva, quasi da giustiziere della notte, ma senza giustizia, senza parvenza d’amore, senza riscatto possibile e senza un vero suolo di gravità. Così la sua paura e lo scambiare una maschera accosciata sui gradini di una chiesa per il fantasma d’un idolo morto. Eccolo lì il Valdo, selvatico e/o dominatore, uomo-norma del suo cerebrale proscenio.
E lì il linguaggio ben padroneggiato dall’Autore, e venato d'ironia, si snoda veloce lungo una corsia che si staglia tra un buon italiano medio e l’inclinazione ben temperata in  direzione di uno slang malavitoso, in sintonia col tempestare delle musiche di “stretta osservanza jazz”, col fluire del whisky e dei suoi fumi, omaggio all’americanismo  culturale che si vende meglio del nostro vino.