Andare a Gesòli dai nonni era per me una
stupenda avventura. Talvolta partivo col treno a vapore - quello di una
ferrovia secondaria - insieme con i miei
genitori, o con una delle ziette, la quale dopo essere stata nostra ospite,
tornava a casa sua e mi conduceva con sé.
La stazioncina
ci accoglieva con le sue muricce dipinte di bianco e le aiuole ben curate, con
i gerani rossi carnosi e dall’aroma penetrante. L’edificio principale era intonacato
di rosso scuro sotto gli spioventi generosamente ampi e orlati di smerli di
legno nero. Sapevo che il capostazione abitava con la famiglia il piano
superiore. Invidiavo gli inquilini di una casa così bella e dipinta anche di
fuori, i quali, per giunta, potevano godere a volontà dello spettacolo dei
treni in arrivo e in partenza.
I miei o la
zietta ospite prendevano posto nella sala d’aspetto contigua alla biglietteria.
Invece io, impaziente e curiosa, perlustravo la piattaforma ben squadrata e saltavo
tra le lastre musive secondo un mio modo d’interpretare la geometria e i colori
del pavé. Tendevo l’orecchio per cogliere i segnali dell’arrivo del treno. E
intanto esploravo il magazzino annesso all’edificio. Ingombro di materiali,
giaceva su una piattaforma più alta di quella della pensilina per i passeggeri.
Aperto sui due lati lunghi, dava l’idea di una veranda belvedere per via delle
merlature del sottotetto, incongrue rispetto alla babele di sacchi e dei
fardelli. Ma io continuavo a saltellare con un piede solo sul pavé del gradone
alla cui base correvano i binari morti.
«Perché morti?»
Il perché forse
me lo avrà spiegato mio babbo, ma ho dimenticato il contesto e come. Di solito era
lui la mia risorsa di informazioni. Paziente, limpido, rispondeva ai miei
perché, forse felice del mio sguardo attento. Io felicemente assorbivo.
In attesa del
treno, mi azzardavo persino, se il capostazione sostava al tavolo del
telegrafo, a giocare d’equilibrio sulle rotaie e guardavo lungo i binari fino
al punto di fuga in cui pareva che le rotaie si saldassero in un’unica
intersezione puntiforme. Il treno vi si sarebbe infilato come un verme nero e
puntuto e avrebbe di nuovo aperto la divaricazione.
Il fischio
acuto, benché risaputo e atteso, mi sorprendeva in un sussulto tra il brivido
della paura e l’esultanza del piacere.
Tutti sulla
piattaforma. E i grandi ad abbrancare i piccoli scavezzacollo e la locomotiva
che nereggia. Sbuffando e soffiando le sue nuvole odorose, va arrestandosi in
uno stridore di ferraglie e sbattimenti metallici frammisti a voci stentoree e
armeggi di bagagli.
L’intervallo
sembra troppo lungo per la mia impazienza. Ma la locomotiva lancia i suoi
sfiati rassicuranti.
Si parte!
Finalmente si parte.! Il cuore mi precede sulla spinta che fa indietreggiare le
case e il paesaggio abituale. E già mi rode l’ansia di avere il naso fuori dal
finestrino.
Oh sì, un
finestrino bisogna trovarlo, sia pure in prestito da qualche passeggero
disponibile.
I grandi si appisolano, io viaggio in
lungo e in largo per la campagna, seguo la testa piumata di vapore del
serpentone che doppia le curve arrancando e fischiando, mi volto all’interno
col naso rosso, spettinata, per farmi levare un bruscolo di carbonella e
rompere le scatole al prossimo con domande a cui non sanno rispondere, del
tipo: « Perché i pali del telegrafo vanno indietro e perché anche gli
alberi, che di solito sono fermi, li imitano?» o «che ci stanno a fare quelle
scodelline rovesciate sui fili della corrente?»
E intanto tutto
il paesaggio scorre a semicerchio e sparisce dietro la coda del treno. E un
altro già gli subentra senza vuoti. Poi la piana si srotola come un enorme
tappeto vivo. I monti azzurri volteggiano in una danza tranquilla e possente.
Ecco altre stazioncine, simili a quella di Vineanova, ma sempre più piccine e
isolate. Casolari. Greggi. Qualche figura umana si profila solitaria e,
fuggendo inchiodata al suo sfondo, saluta con uno sventolio del braccio.
Il sole già
sparisce con un lampo sanguigno. Ora le ombre smisurate in un amen si tingono
di viola.
«Chiudiamo il finestrino, adesso.
Non c’è più niente da vedere. E poi, s’è messo vento», dice una voce di buon
senso
Mi vedo di colpo
arresa sul duro sedile di legno della terza classe. Sto a guardarmi emergere
dallo sfondo oscurato del vetro: un’altra me stessa che si racconta d’andare
nella notte, dentro una palla di luce che si scuote in un buio sconosciuto. Lei
se lo figura come un inchiostro gelatinoso e rotolante, con dentro le cose del
giorno annerite, finché le lucine solitarie, emergendo e sprofondando, smuovono
la fantasia, eccitano l’emozione dell’arrivo.
Infatti, ecco:
altro stridore, altri sbattimenti e, ora, solo la nostra concitazione.
«Gesòli - Stazione!» strilla il
capotreno senza scendere sulla piattaforma.
Gesòli -
Stazione è solo un casolare. Il treno svanisce in un imbuto fatto più nero dal
lume dei fanali della locomotiva puntati sull’altopiano che bacia la vetrosa
trasparenza del cielo stellato. La sollecitudine dei nonni si materializza con
una sagoma bofonchiante che ci strappa i bagagli.
Tziu
Nicolinu, che non è zio, ma
persona anziana e di rispetto, ci spinge sul calesse e inforca la carrozzabile
verso un abisso. Ma al trotto tranquillo della cavalla, le stelle oscurate dal
colle non sono perse. Le ruote cigolano e traballano sul fondo accidentato. Fra
poco spunterà il lumino rossastro della casa sull’argine. E, come la bestia
lentamente doppia la curva in discesa, ti pare di entrarvi dentro e sostare un
poco davanti al focolare acceso e scambiare un saluto. Ma già tutto lo sfondo è
un presepe di lumini accesi: Gesòli pulsa nella sua fossa.
Ecco, la sagoma
del monte granatico, il ponte a doppio arco sul torrente sonoro d’acque
piovane, un crocicchio con la fonte al centro, il lungo cardine viario dalla
classica pavimentazione romana con le lastre carraie, poi la piazza che i
residenti chiamano Sa Panga.
Mi suonava
brutto, triviale, Sa Panga; benché non sapessi allora del suo
significato inerente il ceppo del macellaio e anche quello del boia. Mai ho
appurato se, come mi sembra plausibile, quel nome si riferisse al fatto che
nelle sue vicinanze fossero allocate rivendite di carne, compresa quella del
nonno, o se realmente vi si praticasse pubblicamente la macellazione. Comunque,
a mia memoria, la beccheria di nonno Augusto era già dismessa e faceva da
magazzino e ripostiglio della mescita, che le era contigua.
Ho appreso poi
da mia madre Domitilla che il nonno macellava in casa, su panca e ceppo trasportati
all’occorrenza nel cortile retrostante la macelleria, lastricato e in pendenza,
in modo che le acque di lavaggio e di scolo confluissero nella cunetta del
vicolo, la quale andava a sfociare nella lunga gora che si allargava nella
piazza.
Ma la mia mente
bambina era in quei momenti assai lontana da ogni considerazione critica.
L’odore di strame e di fumo, avvertiti come facenti parte del luogo, erano in
qualche modo salvati a causa del ricavabile e ricavato mio godimento da quei
ripetuti soggiorni.
Infatti, giunti
al centro della piazza, il calesse aveva come un cedimento: l’avvallamento di
scolo.
«Ferma, tziu Nicolinu, voglio arrivare a piedi. Faccio una sorpresa!»
e
mi gettavo sul selciato melmoso verso la lampadina che splendeva come un
faro sopra la soglia a gradini della mescita dei nonni.
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