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lunedì 8 marzo 2021

Il poeta drammaturgo dietro casa – memoria di Bianca Mannu

 



Dedico questa breve memoria a tutti gli artisti, autori e lavoratori sacrificati a  causa del Covis19, mentre auspico un rinascimento a favore di tutte le forme d’arte e varie installazioni accessibili anche alle popolazioni dei centri più      piccoli. (BM)                                          


 Ho ri-appreso che Federico Garcia Lorca era di due anni più giovane di mio padre (’898,il primo; ‘896, il secondo). Mio padre non era poeta, ma modesto artigiano. Però era curioso e sensibile nei confronti  dei risultati del pensiero creativo. Essendo stato soldato della Prima Guerra, poi operaio specializzato presso  grandissime industrie della penisola, era per posizione di classe antifascista, in odore – erroneamente - di simpatie anarchiche secondo il Regime. Egli leggeva tanto e, quando gli capitava, leggeva anche stampa clandestina o semiclandestina. Certo sapeva della cattura e dell’esecuzione di questo grande poeta antifranchista, “non proletario”, ma di notevole ascendenza per censo e per cultura. Ciò che io ho saputo e letto molto più tardi.

Tornato nel luogo natio per tentare di guarire da una grave pleurite, regalo della Fiat-Lingotto nella Torino gelida e nebbiosa, mio padre formò famiglia e nacqui io.

Frequentavo la terza elementare allorché piombò con un nullaosta di frequenza nella nostra classe di terza elementare una ragazzina della mia età.


Entrò come dalla finestra aperta una brezza, disinvolta e sorridente , una Lea Carla chiara di viso e di capelli, che durante le presentazioni si diede a fare le capriole più azzardate come una stellina del circo. Sul circo e sui suoi artisti avevo tante volte fantasticato avendoli guardati dalle panche del pubblico e anche mentalmente invidiati; ma non mi era mai capitato di frequentarne uno/a di persona. Lascio immaginare il mio meravigliato gradimento.

L’aula che occupavamo, pure grandissima, parve, addosso a Lea Carla, troppo piena di banchi; e palpitammo nel timore che le sue evoluzioni la portassero a urtare sugli spigoli. Noi eravamo rigide, le gambe strette, incerte e sommesse nel parlare secondo una severità di modelli che lei non concepiva. Diversamente da noi, fasciate di repressione,  lei si lanciava espressivamente in comunicazioni, richieste,  osservazioni, interruzioni e intromissioni, così disinibite da provocare il nostro ambiguo stupore.

In questa maniera ci informò di essere la più giovane componente di una larga famiglia di attori girovaghi che faceva tappa nella nostra cittadina per un mese o forse due, secondo che lo consentisse l’afflusso quantitativo di pubblico pagante per assistere alle recite. Diverse commedie e drammi, ci disse, stavano per andare in scena, settimana per settimana, completi di numeri di avanspettacolo e  persino di esercizi circensi.


- Ma dove recitate? Nella piazza?   
- Ma no, certo che no! Al cinema Ideal - bar – caffè!
- Ah! E abitate lì?
- Ma che dite? Stiamo all’albergo.
- Ah, perché in paese c’è un albergo? – osservò qualcuna spalancando gli occhi per la meraviglia.
- Ah, già, sì, sì … La locanda di signorina Lauretta – sparò a raffica la figlia del tabaccaio.-
Fu così che imparammo che Lauretta era “la donna cannone che faceva pensioni”.

In breve venimmo informate che il “dietro” del telone bianco, su cui comparivano le figure del cine, era uno spazio cavo e ampio dove si potevano montare i quadri delle scene teatrali e dove attori in carne e ossa potevano muoversi e recitare. Proprio come  noi l’anno prima, seconda classe, quando eravamo salite sul palco dell’asilo per recitare le poesie di fine anno, dopo l’esame.

Però quante cose, sulla nostra cittadina e su noi stesse, stavamo imparando in tale minuscolo squarcio di tempo!

Manco farlo a posta, il suono della solita campanella ci cacciò quel pomeriggio a sciamare più ricche e più curiose sulla piazza. Fu una breve corsa quella  verso i cartelloni multicolori dell’adiacente Ideal –bar- caffè, che già annunciavano le programmate rappresentazioni del fine settimana.  

A casa non feci che cantare meraviglie di Lea Carla e di tutto quanto ci aveva raccontato. Ero entusiasta e orgogliosa di averla compagna di scuola, mi dichiaravo a gran voce allieva dei suoi numeri e posture, e già mi disponevo a imitarli per conto mio, coinvolgendovi anche la mia sorella minore in guisa di assistente.

Nelle sue uscite serali, il babbo avrà certo conferito col proprietario dell’Ideal e si sarà informato sul destino momentaneo della sala cinematografica, anche perché a quel tempo mio padre si prestava a fare da operatore del meccanismo di proiezione  e insegnava ad alcuni giovani come diventare esperti.  Egli infatti riferiva alla mamma  come e perché il proprietario della sala aveva accettato di affittare temporaneamente il locale a una compagnia familiare di “guitti bravi”, che metteva in scena testi di scrittori di fama mondiale. Il babbo stesso sosteneva con la mamma che fruire del teatro era un’esperienza educativa importante per adulti e bambini.   


In questo modo il sabato sera successivo al primo ingresso di Lea Carla in classe, babbo mamma e io riuscimmo a prendere posto nel cinema diventato teatro “gremitissimo” di spettatori seduti e in piedi, dove si recitava “Nozze di sangue” di Federico Garcia Lorca.


La cosa che quella sera m’impressionò molto favorevolmente fu l’arredo  di scena. Bene illuminata, come sotto una luce che pareva solare davvero, rappresentava un cortile interno di una casa con un pozzo al centro e una corona di arbusti verdi intorno. Della storia rappresentata capii certo ben poco, ma mi parve d’intuire la natura del “fatto”, sulla base di lembi  di dicerie inerenti conflitti familiari drammatici accaduti per l’addietro in paese. In ogni caso, la mia familiarità con i film di cappa e spada e con i drammi napoletani facilitava la captazione  del nucleo fattuale, al di qua dei discorsi noiosi degli attori.   

Certo fu a causa di quella rappresentazione  che ebbi per bocca di mio padre qualche informazione in più sulla sorte triste dell’autore drammaturgo e poeta del detto dramma, non tanto come risposta alle mie interrogazioni dirette, quanto in virtù delle conversazioni che  proseguivano tra babbo e mamma, a commento e a contorno degli eventi teatrali che si compirono in quella fortunata primavera e che per lei, come per la nostra cittadina,  risultavano nuovi, mentre  per lui erano un ritorno a esperienze simili e non ingenue compiute nelle città del continente. Io li ascoltavo con quattro orecchie ottenendo più chiarimenti e notizie di retroscena  di quanti avrei potuto scoprirne  con le mie domande.      

Quella singolare e davvero vivace contingenza risvegliò in me una curiosità verso quanto mio padre leggeva nei suoi giornali – rimanendo ormai acquisita la gioia serale delle “sue” fiabe, lette, rilette e rievocate  per un sonno felice . Qualche  raccontino, qualche filastrocca egli me la leggeva direttamente  dalla terza pagina del giornale, in occasione di festività che interessavano i bambini.  Ecco che imparai ben presto a trascegliere la terza pagina e a seguire le puntate dei racconti stampati nei feuilleton.

 







Nota - Ringrazio Google e siti che hanno fornito gratuitamente le immagini.(BM) 

 

lunedì 21 settembre 2020

Lei - da "Camilla" racconto edito di B.Mannu

 

Lei

 Fu in tale turbine di pensieri che “lei” entrò, visibilmente claudicante, scortata dal notaio, in quella stanza piena di scaffali antichi e di retaggi professionali. Mi diede l’impressione di una piccola falena entrata lì per inganno, tanto mi parve incolore e impacciata. Timidamente mi mise a fuoco dentro quei suoi grandi occhi iridescenti come prati al trapasso di stagione, poi chinò lo sguardo sulle proprie scarpe.  Per successivi attimi ciascuno, sollevando di nascosto le palpebre sul volto altrui, cercò  i segni visibili del proprio, senza riuscirvi. E quando, cioè quasi subito, il legale con gesto formale ripeté i nostri rispettivi nomi, ci sparammo l’un l’altra una seconda occhiata e, tendendoci reciprocamente la destra, accompagnammo il suono dei nomi con certi scotimenti del capo, come per l’azione di un cordino che un’entità impalpabile avesse strattonato dietro ciascuno. Preso posto su certi scranni di stile indefinibile, espletate alcune formalità annunciate, scambiati i ringraziamenti e stabilito un colloquio a tre a esequie concluse, il notaio, nel dirci che potevamo fraternizzare in tutta tranquillità nel luogo occupato, guadagnò l’ambiente attiguo chiudendo l’uscio alle sue  spalle.

Fummo ghermiti da un silenzio atroce. Ciascuno a fissare le proprie mani abbandonate sul grembo. Di colpo una pendola monumentale seminascosta tra un armadio e uno scaffale ci tolse dall’imbarazzo prorompendo in uno scampanio del tutto inatteso. Sussultammo all’unisono. E lì ci vinse una specie di riso irrefrenabile e insensato che ci obbligò seduta stante a rifugiarci in una curiosa quanto gratuita complicità. Lei poi avvampò, si levò e disse “devo andare”. Io, automaticamente, le andai dietro.


Nota - E da quel punto intuire l'improponibilità e l'impossibilità di tornare indietro. (B.M.)

venerdì 4 gennaio 2019

Su Pastorale americana di Philip Roth – considerazioni di Bianca Mannu

La ragione del titolo e non solo

Prima ancora di giungere alla fatidica p.435 - intanto che leggevo le 400 precedenti e attratta mi lasciavo bagnare (ma senza restarne travolta) dalle cateratte verbali che l’Autore, con assoluta fede nelle capacità rappresentative e seduttrici della sua prosa, sciorinava davanti alla mia immaginazione  - m’interrogavo sul senso di “pastorale” in quanto sostantivo reggente l’aggettivo “americana”.  
Quest’ultimo lemma non può che riferirsi agli USA, in quanto rappresentante emblematico dello schema di mondo  a cui  tutti e specialmente noi europei ci siamo adeguati, e col quale raffiguriamo noi stessi credendoci, perciò, migliori. 
Invece il sostantivo “pastorale” mi incalzava verso un senso per nulla nuovo, benché all’apparenza proveniente da oltre Atlantico. Subito la mia pur titubante memoria faceva affiorare le mie sbiadite informazioni sulle Bucoliche virgiliane, sulle suggestioni campestri e pastorali di Petrarca e giù discorrendo fino all’Arcadia e alla vena naturalistica di Leopardi e dopo ancora  fino alle non pastorali opere della grande  narrativa europea, per esempio I Buddenbrook  e America, onirico controcanto, quest’ultima, sul Nuovo Mondo.
Ma durante la lettura, più forte d’ogni altro riferimento, s’è affacciata alla mia mente “La Pastorale” di Beethoven, già antifona della prima grande lacerazione uomo/natura in Europa (1^rivoluzione industriale avvenuta). La Pastorale beethoveniana rappresenta l’auspicata ricongiunzione dell’umano con la natura di cui è parte. In realtà quel ricongiungimento non ripristina affatto quello primigenio: l’uomo in generale è divenuto un’astrazione rispetto alle sue contrastanti funzioni sociali e la natura è stata variamente alterata in funzione dei destini produttivi. Il possibile ricongiungimento avviene tramite la mediazione dell’arte e della cultura, cioè la natura in scala ridotta rientra nella categoria estetica e l’umano che si congiunge e si rispecchia in lei è l’artista e il suo committente, cioè la classe padronale colta.
Probabilmente anche Roth ha cercato di immaginare le possibili condizioni per  prefigurare una nuova giuntura tra la natura e l’uomo. Ma stavolta l’articolazione si presenta più che mai complessa. Nella Pastorale di Beethoven resta invisibile l’oscenità infernale del mondo della produzione senza apparente nocumento per la sintesi estetica, mentre Roth non può farlo con la stessa facilità e buona coscienza. E non solo perché Roth è di circa centocinquant’anni più giovane, ma perché con lo sviluppo del grande capitale le categorie della natura   e quelle dell’umano, non solo si sono pluralizzate, ma è difficilissimo articolarle, perché la meccanica produttiva capitalistica ha reso la natura indisponibile per la fruizione estetica generalizzata e perché il lavoratore collettivo, per un verso risulta deprivato della sensibilità estetica non finalizzata alla produzione, per altro verso la sua sensibilità compressa nello stato grezzo viene catturata in direzione di una bassa estetica, perché questa è incentivo a consumare merci che recano profitto al produttore e non affinano il gusto e la mente del loro consumatore. Ma il produttore stesso, o meglio colui che investe il capitale, non si preoccupa delle sorti della natura, se non per quella minima parte che ritiene di preservarsi per il proprio benessere, si preoccupa invece tanto di riservare alla proprie attività le materie prime necessarie, almeno finché non ne trova altre in sostituzione, se il mercato della domanda resiste, oppure muta totalmente orientamento produttivo, anche in virtù dei mutamenti tecnologici che sono un altro difficile e contrastante nodo del nesso uomo-natura.
Per restare nell’ambito di una sintesi elementare, Roth non può raccontarci una Pastorale credibile, magari mitica, ma lo spettro desiderato di una pastorale il cui respiro si fa rantolo.
Azzardo un’ipotesi di segno storico letterario: chiamare pastorale questo ambizioso intreccio narrativo è il segno di una petizione dell’Autore al mondo: l’aver costruito un’opera così impegnativa, così densa e collegata al cuore, alla mente e alle viscere della cultura dell’Occidente da entrare a buon diritto nell’Olimpo della narrativa classica mondiale, come un solenne affresco che vede protagonista la più grande potenza mondiale esistente.
Fin dalle pagine iniziali l’autore si concede numerosissime divagazioni, prima di procedere all’intaglio della figura centrale, entro uno sfondo caotico e ostico: una sequela di passaggi sul gioco sportivo su cui sottilizza con tecnicismi da esperto, beandosi e insistendovi come un tifoso autentico, quale forse è stato da buon americano! E a mano a mano che dalla tela esce scontornata qualche figura, ecco l’espandersi ulteriore, quasi ossessivo, del più immediato milieu del protagonista, già baciato, lui così limpido, così alla mano, dalla gloria e dal successo: già una star con  tutta la scia!
Scegliere una prospettiva discosta, seguire ciò che emerge come capriccio della memoria,  connettere situazioni apparentemente lontane fa parte della tecnica compositiva del romanzo contemporaneo. La  creazione  si fa carico di conferire consistenza oggettiva e insieme dinamismo ai protagonisti. Lavorando sugli sfondi l’Autore immette aria e vento nelle sue trame, si libera del marmoreo e in qualche misura mette i protagonisti al riparo dal pericolo del suo stesso amore. In ciò Roth s’impegna da grande maestro con una discorsività scorrevole ed elastica. Eppure la messa in moto di una tale circolazione sanguigna non sempre sortisce l’atteso effetto. Perché?  
Perché manca il vero volano, quello dialettico. Tutto ciò che l’Autore involve per dare concretezza d’anima agli esordi e agli sviluppi della vicenda centrale resta nell’ambito della familiarità.
Molto godibile la modulazione dei dialoghi nella rimpatriata degli ex liceali di Weequahic e di Rimrock , in cui predomina con malinconica asprezza lo sguardo innamorato per la propria e altrui giovinezza smentita dai corpi. Nel medesimo contesto, tra confidenza e perfida franchezza, s’intreccia il dialogo con Jerry Levov, fratello di Seymour, che snocciola all’inconsapevole Nathan Zuckerman, alias Skip (l’ombra romanzesca di Philip Roth) i retroscena del clan Levov con tutte le sue debolezze e vergogne. Che i due  chiamino merda la fanghiglia familiare fa parte del narcisismo d’élite. Però lì Roth non solo tesse l’ordito del dramma, ma inventa il più bel colpo di scena di tutto il libro: Seymour Levov è morto, comunica seccamente Jerry a Skip. E quasi non hai tempo per prenderne atto ed essere consapevole che tutto ciò che Roth sta scrivendo sarà il grande monumento alla memoria.
Caratteri a parte - sgorbiati in pietra, quasi megalitici – sei precipitato nel clan, sei in famiglia. Nonostante la freschezza dei bozzetti, malgrado l’effervescenza e l’arditezza dei dialoghi, avverti aria di chiuso. Senti che c’è un dietro che né  il pensiero né la penna ha sfiorato o sfiorerà. C’è un qualcosa che hai calpestato senza conoscerlo, e tu, Scrittore, non ti sei domandato da che cosa dipende l’inciampo a varcare il chiuso. Jerry, descrivendo l’abnegazione di Seymour verso la volontà paterna, allude alla “sua attrazione fatale”: il lavoro. Il lavoro che rende bruti e lascia povere intere popolazioni (anche questo, il non significato, l’eluso) diventa su di lui, sul padre Lou, su Dawn,  emblema. Ecco un’ingiustizia teoretica trasformarsi in dato meritorio.  Roth è meritocratico e non spiega l’eziologia del presunto merito, se non restringendo lo sguardo alla sfera essenzialmente privata. Ecco che i protagonisti, malgrado errori, leggerezza e sostanziale cinismo, sono da sempre e per sempre “i salvati”. Dei “sommersi” Roth non ha minima contezza che si tratti di umani. L’umano illumina un tratto di qualche fedelissimo dipendente come prova provata della magnanimità padronale. Solo quando Meredhit (Merry) condivide l’orrenda esistenza dei vinti, dei sommersi, allora Roth suscita nella mente di Seymour la moltitudine dei senza volto come liquame, i cui miasmi minacciano di appestare i buoni come  lui.
Questa la tabe sulla resa artistica di «Pastorale americana».
Infatti l’insistente autoreferenzialità e la sostanziale chiusura ideologica e sociale dei protagonisti contrae la vicenda in dramma di dimensioni pressoché private. 
L’occhio dello scrittore continua a muoversi in prossimità dei protagonisti, senza indagare sulle diverse dinamiche sociali con l’occhio magari asciutto, ma libero dalla glassa autoreferenziale. Come dire che Roth non riesce a mettere a fuoco i nessi tra la storia dei Levov con gli operai bianchi e neri, gente che aveva fatto e faceva la fortuna dei Levov e di molti altri, persone che al momento erano inviate a uccidere e a morire in Vietnam. Persone segnate dalla guerra che, deposta la divisa, non trovavano possibilità di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo, dato che l’industria di guerra non dava e non aveva dato i risultati sperati. Fallita l’interconnessione con la problematica dei neri, indicati come più neghittosi, ma ancor più carne da cannone, usati, sfruttati e anche segregati, i loro leader assassinati; fallito il riferimento con gli Amerindi del Centro America  e del Sudamerica, umanamente inesistenti per i Levov, ma forse per Roth. Ma noi lettori li sappiamo espropriati di risorse e repressi nelle loro istanze liberatrici tramite governi quisling filostatunitensi. Manca in Roth la coscienza di questa immane responsabilità da  ascrivere alle classi di potere.
S’intuisce anche una presunzione nascosta nel titolo, quasi a significare che l’impero americano produce la sua  “Pastorale” come l’impero romano ha prodotto la sua Eneide: pace ed egemonia Yenky nel mondo globale come Pax augustea a sanzione del dominio romano sul mondo antico.
Oscurate come irrilevanti le realtà di cui sopra, il romanzo di Roth vuole entrare e forse entra nella sfera mitica e mitologica, non dell’idilliaco, ma dell’idealizzazione e celebrazione dell’ordine, o disordine, esistente. La borghesia imprenditoriale formatasi nella congiuntura postbellica statunitense, divenuta colonna portante della grande potenza mondiale, secondo la visione dell’Autore e anche oggettivamente, si trova però inaspettatamente sotto scacco … Perché?  
Per via della guerra a baluardo del Vietnam del Sud, contro il Vietnam del Nord, voluta in ottemperanza della volontà imperiale di garantirsi i mercati, le zone d’influenza, gli ingenti profitti anche e sopra tutto sul mercato delle armi, anche da usare come monito contro istanze politiche più inclusive. C’entrano con la guerra  i guantai? Roth sembra credere all’innocenza di quella categoria e persino di tutta la classe imprenditrice nella sua totalità, come chi confonde la non colpa personale col disimpegno o col cinismo  politico-sociale che ha colpe e manca di responsabilità. Infatti per i personaggi il problema diventa allarmante quando certi loro ben allevati rampolli provano a passare nella trincea opposta. 
Trincee? Dunque guerre, guerre in famiglia, magari guerre in forma di conflitto di classe, che minaccia di scivolare verso la guerra civile.
Il lettore si chiede: forse che i produttori di guanti d’America (tanto per dire il settore più anodino sul quale Roth ha davvero forzato la pazienza del lettore) non conoscono o non praticano i processi di riconversione produttiva che puntualmente vanno a scaricarsi sul proletariato in forma di contrazione di manodopera, di dismissione della medesima e drastica contrazione dei salari? Forse che gli imprenditori dei più diversi settori non investono in borsa i loro profitti, per esempio sulle quotazioni delle armi, nelle prospettiva di acquisire ulteriori profitti, invece di investire in un’economia di pace e di inclusione sociale? Forse che nel gioco di borsa non mettono a rischio e perdono … perdono… il lavoro di chi non ha che quello per vivere da umani.
Dove sta almeno l’eco di questo intreccio complesso e conflittuale nella  Pastorale di Roth?
 L’ evento centrale della narrazione si contorce nella sua esilità: Merry, l’adorata figlia di Seymour Levov, detto lo Svedese, e di Dawn Dwyer, agiata coppia di imprenditori di rilievo economico e sociale non più progressivo come per l’addietro,  manifesta difficoltà linguistiche e psicologiche, entra in conflitto con i familiari, fugge da casa per abbracciare la militanza socio-politica radicale diventando “bombarola” e assassina. 
Come si sviluppa l’educazione politica, per dir così, di Merry, a quel punto della narrazione? In quale contesto? Un autore può rispondere in termini narrativi a tale quesito. Ci sarà una realtà sensibile, descrivibile che invera teorie e punti di vista?  
La famiglia Levov, com’è naturale, nell’apprendere ciò che la figlia verosimilmente ha compiuto, cade nel più profondo sconforto. Ma, mentre Dawn, la madre, si limita a cadere in una grave forma di depressione, Seymour è il solo a chiedersi  che cosa nei rapporti familiari, nelle relazioni amicali, nei rapporti della figlia con gli insegnanti e con la scuola, abbia innescato, dapprima la feroce balbuzie di Merry, e poi il suo progressivo ipercriticismo verso la madre, con cui intrattiene un rapporto-raffronto ambivalente, forse oggetto di pesante rimozione, intanto che nella bimba cresceva la donna. Una situazione che sembra spingere la ragazza verso una caratterizzazione fisica e psichica di segno opposto rispetto alla madre; il che però accentua il suo disagio e dunque la tensione critica e l’inclinazione verso la prassi distruttiva. Ma Merry critica, con la stessa ferocia immatura dell’adolescente, anche suo padre, benché mantenga con lui un certo dialogo, almeno fino alla decisione della fuga. Lo critica  per la sua indifferenza verso coloro che la guerra corrompe, impoverisce, uccide rincalzando il conflitto a un livello più ravvicinato. Merry non riesce a mettere insieme l’integrità personale del padre, la sua gentilezza d’animo, di cui lei ha fatto gratificante esperienza, con il fariseismo sociale che a lui blocca la diretta e totale scelta di campo: una scelta etica mancata. Nella sua frettolosa ingenuità politica, Merry intuisce la relazione perversa tra status socioeconomico eminente e sospensione del senso della responsabilità politica e sociale.
E il padre, solo a posteriori, ricostruisce il percorso autoformativo intellettuale di Merry scoprendo una quantità di testi teorici (in Italia gli autori sarebbero stati indicati come “cattivi maestri”) che lei avrebbe letto e studiato con foga immatura e senza prefigurarsi mediazioni.
Queste mie considerazioni saltano fuori dalla lettura in negativo del romanzo: da ciò che viene eluso da parte dell’Autore. Il testo della narrazione, appare molto diluito e insistito nell’inseguimento coscienziale di Seymour a caccia delle minuzie relazionali con la figlia. Anzi l’Autore sembra cadere nell’incredibile ingenuità di stabilire una relazione di causa/effetto tra il disagio affettivo e psicologico di Merry e il suo diretto coinvolgimento nelle azioni di eversione delittuosa. E davvero non si capisce bene se un tale atteggiamento corrisponda all’esigenza narrativa di evidenziare la postura protettiva di Seymour verso sua figlia nel raccontarsi la fondamentale incolpevolezza di lei (troppo intelligente, troppo giudiziosa) attribuendo ad altri il reato di averla usata come strumento semiconsapevole, oppure se l’Autore voglia sottolineare l’efficacia pervertitrice della tabe psicologica, allorché vi siano condizioni esterne  e teorie ausiliatrici (la cui descrizione analitica è, come già detto, logorroica e insieme lacunosa) che ne sussumano la dirompenza.
Ma un romanzo è un romanzo, cioè un lavoro dell’immaginario e, per quanto il materiale ideativo peschi nei vissuti profondi  e si valga di documenti che formano nodo  nell’esperienza e nella visione complessiva di un Autore certamente dotato, può accadere che esso non acchiappi gli elementi di contraddizione e di scontro provenienti dal gioco degli interessi sociopolitici emergenti e contrapposti nel caratterizzare i personaggi; e perciò fallisca la condensazione figurativa e psicologica forzandoli entro la linearità di una prospettiva troppo soggettiva (in questo caso il punto di vista di una classe borghese imprenditoriale che incarna un modello economico fondato sul profitto la cui fonte è sì il lavoro umano, ma nella condizione di merce). 
 “Pastorale americana” si rivela favola triste di un incubo ideologico. La nuvola ideologica invade tutte le prospettive, oscura il parossismo della competizione che irrigidisce l’immigrato artigiano nella sua voglia di farcela a tutti i costi (Levov padre), contro un altro immigrato con la stessa voglia (colleghi, competitori), contro i neri poveri, troppo repressi e depressi per cadere al laccio della medesima spinta rampante, contro  l’erede dell’antico avventuriero, magari schiavista territorializzato, reso altezzoso dal censo più “old” e nobilitato dalla pratica del potere istituzionale divenuto dinastico (Orcutt), contro l’intellettuale critico di cui invidia la presunta libertà, l’immeritato benessere e  l’impunità ideologica e morale( Shelly Salzman, Marcia, Sheila).
L’Autore appare affascinato da quella voglia aggressiva, e al momento imbelle, del magnate che riferisce a sé ogni altro valore, però oscilla se sanzionare il personaggio dominato da quell’assillo della salvezza del capitale con pennellate di graffiante ironia sottolineandone il ghignoso compiacimento egotistico (Lou Levov e lo stesso Jerry in altra categoria), o se, all’opposto, parteggiare per chi nasce predestinato a divenire magnate, come Seymour, che trova il solco segnato e lì generosamente spende le sue energie e raccoglie frutti senza farsi troppe domande, forse anche senza capire bene  la cifra del mondo, o forse anche leggendola, ma raccontandosi la fiaba che lui ha fatto e fa del suo meglio e che sono gli altri a tradire: i bianchi, i poliziotti, i neri, quasi tutti casseurs. E nella sfera familiare e di clan la moglie Dawn tradisce, ma  tradiscono anche gli amici, mentre lui,  vittima, incassa i colpi. Anche Merry forse vittima lo è, rispetto ai soci di eversione. Ma il tradito deve riconoscersi a sua volta traditore e simile nella perfidia, facilmente sottovalutata ed elusa. 
Infine c’è il nostro inconscio e l’autoassoluzione preventiva: questo Roth lo rappresenta. Seymour consegna sua figlia alla furia vendicatrice di suo fratello, Jerry. L’Autore a questo punto trova la soluzione  psicologica più sottile ed efficace  nella resa artistica: le torsioni di Seymour per scuotersi il peso insostenibile, tanto della Merry attentatrice, quanto della non redimibile Merry giaina, contaminata e veicolo di più orrenda polluzione dal mondo dei dannati alla discarica umana in cui si è gettata, e infine scuotersi l’enormità delle sue perdite perdendo la vita.
Dunque tutto si è sfaldato e decaduto rapidissimamente nella banalità più triviale intorno e dentro i protagonisti di questa storia.
E tuttavia Roth sembra sostenere che se un mondo, creativo, volitivo, regolato, produttivo e persino virtuoso e candido, è esistito, sono i Lou, i Seymour, le Dawn ad avere la palma come coraggiosi creatori di progresso e di benessere. Un’esigua parte sociale pensa di essere la totalità, ma poi si comporta come la sonnambula scossa nel bel mezzo dell’incubo. Solo che l’incubo è una realtà in esplosione, non dominabile con ordini di servizio ed esibizioni di titoli di merito inesistenti
Ma se eviti di essere sommerso da certe deviazioni verbalistiche dell’Autore, vedi gente incantata sull’ipostasi dell’accumulazione, del successo, dell’espansione illimitata; gente che non ha avuto né altri occhi né altra religione se non il proprio profitto, così assorbita nel celebrare i propri feticci da non accorgersi neppure di nutrire nel proprio seno la loro smentita più clamorosa.  
I protagonisti ex magnati cadono preda di farneticazioni, fughe verbali e insulsi battibecchi. Sia che comprendano o no le ragioni vere delle convulsioni sociali che li impauriscono, tendono a occuparsi del loro ancora dorato perimetro o si voltano indietro come se la nostalgia della frontiera e del sogno americano sia di nuovo disponibile per il poi.
È in questa mancanza di presa che si avverte la debolezza dei molti indugi allo specchio della propria immagine di classe, di cui Roth elabora curiose sfaccettature senza stare a sufficienza nel segno.
E sta forse in ciò la tabe della sua stessa grandezza: averci regalato la rappresentazione palpabile (errore o obiettivo raggiunto?) dell’idealizzazione narcisistica di classe, condizione della cecità sociale e storica ritratta in personaggi che non sembrano avere la minima idea, fuori dalle quotazioni di borsa, di come le  interrelazioni planetarie irrompano a cambiare gli assetti del più solido quotidiano. In tale ambito spicca l’ottusità psicologica dei protagonisti, per esempio di Seymour, che si ostina a credere all’inconsapevolezza di Merry, alle dichiarazioni truffaldine di una  Rita Cohen viepiù associata ad Angela Davis come sua perfida sosia, di Dawn che pretende risolvere la lacerazione affettiva materna e di ruolo sociale con un lifting e una nuova villa con amante.
Una considerazione speciale merita il colloquio, o  piuttosto l’apparizione di Angela Davis nella cucina di Seymour. Qui siamo ai limiti dell’incredibile, se non del farsesco. E qui si può cogliere la farragine piuttosto veloce e un po’ liquidatoria di Roth nei confronti di quegli eventi e delle idee che li interpretavano e motivavano, come se volesse equipararli agli isterismi dei visionari più folli. Perciò risulta davvero difficile distinguere il pensiero analitico dell’Autore dalle reazioni confuse e altalenanti dei protagonisti e di certo capitalismo.
Per questi motivi viene spontaneo concludere che la Pastorale Americana sia un canto per voce sola, quella ancestrale dei fuoriusciti e deportati europei che divenivano coloni e non avevano ancora iniziato il confinamento e il massacro dei nativi. Fu Lincoln nel 1863 a proclamare la celebrazione del Ringraziamento come festa di pace civile inaugurata invece duecento anni prima dai Padri Pellegrini come festa religiosa
 Infatti alla pagina 435 del romanzo in oggetto, dopo lo stucchevole amarcord del colloquio di Dawn con Lou sulla eventuale scelta religiosa per gli eventuali figli di Dawn e Seymour, da cui risulterebbe  un triste vaticinio  sulla vita di Merry, si indica in che cosa consista la Pastorale americana: nel momento fugace della festa del Ringraziamento della durata di un giorno, allorché tutti mangiano lo stesso immenso tacchino, rendono volutamente omaggio all’istituzione suprema che si eleva incrollabile sopra ogni conflitto. Insomma un’epifania di pace puntiforme.
E qui ancora una volta è evidente la distopia visiva di Roth che si limita testardamente a considerare solo la discriminante religiosa tra ebrei e cristiani, come se tutta l’America del Nord non conoscesse altre specificità umane religiose o razziali, cozzando col fatto che almeno una macroscopica questione razziale c’era e c’è tuttora, quella con gli ex schiavi neri e quella non meno lacerante dei pochi nativi sopravvissuti alle stragi e confinati nelle riserve.
In tal modo la Pastorale americana di Roth si chiude ideologicamente entro una cortina fumogena per non fare i conti (artistici) con le istanze di liberazione e inclusione umana, riproponendo in sostanza la griffe rassicurante e conservatrice del mito yenkee del self-made man. 
   
Noticina - Ringrazio la mia amica poetessa Giuseppa Sicura che mi ha prestato il libro. (B.M.)

domenica 4 novembre 2018

DA NONNA ANNETTA – romanzo di Bianca Mannu - dal cap.XIV - Ricordi di guerra


Ricuperato l’ultimo salario di “aiuto meccanico” nell’officina mineraria di Montopinosu, dove era tornato a lavorare dopo la smobilitazione, Alfano s’imbarcò come passeggero di terza classe su una vecchia nave a vapore in rotta per Napoli. 

La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. 
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. 
Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
 
Nota - A parte i nomi di fantasia, i ricordi sono quelli autentici che mio padre - reduce della Grande Guerra e operaio metalmeccanico, migrante dalla Sardegna verso i centri industriali del continente, (da Napoli a Genova a Torino) - narrava a noi figlie curiose ... 
Anni 1920-30: l'Italia diventava fascista,  lui, no. Anzi,  sospettato dagli scherani locali 
Ammalatosi e impedito di lavorare, fu costretto a tornare in Sardegna e spendere in un colpo solo tutti i risparmi per curare una pleurite che lo stava uccidendo. Palesò la sua fede antifascista e abbandonò perciò il lavoro presso le industrie fascisticizzate.(B. M.)

domenica 22 luglio 2018

DA NONNA ANNETTA - brani estratti da In-croci XXII cap.

Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci,  è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca.  (B. M.)    


XXII
In-croci 
C’è chi, venendo alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane, sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti, difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero, chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco, sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto - quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta, però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio “cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini - era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba di un bambino” rispose mio padre.

È possibile – mi chiedo ora - ricordare eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto, nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi - lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio, battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro. E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente opacità.
Ma io anche questo, il manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire, smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua – e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo intenso sito mentale. 

***
Dapprincipio non vide che gli spettri saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console, fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli. Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende, graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore. Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete, salutatelo adesso,” disse e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime, tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a “vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no - giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau!  Mirau? Come me?”.  E volse gli occhi carichi di stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.