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sabato 2 settembre 2023

Il signor Vannacci - Bianca Mannu

 Di lui molti, come me, non sapevano l’esistenza, tampoco erano informati della sua condizione di alto graduato delle Forze Armate Italiane. Adesso sanno e so.

 Egli, per via di una forte pulsione comunicativa e plausibilmente regolativa del disordine imperante, ha dato alle stampe un libro con cui ha voluto annunciare la sua  “nuova” Weltanschauung.

Sono stata costretta, persino io che non esisto sotto spoglie pensanti, a sorbirmi la noiosa ridda delle reazioni e interpretazioni al neon dei mass media, Costituzione italiana alla mano, ora rivisitata con le lenti della sinistra, ora ripassata per gli astigmatismi imbarazzati della destra. Per colmo di bizzarria, la destra del Ministro Crosetto, presa alla sprovvista, ha minacciato la degradazione dell’alto militare, mentre la destra di Salvini gli ha  offerto il meglio: la  candidatura alle europee.

Il Presidente della Repubblica gli ha lanciato di striscio un fervorino dissuasivo, ma pacifico e paterno.

Non mi soffermo sulle dichiarazioni soft dei professori di diritto, di alcuni magistrati in pensione, né sui reportage di certi giornalisti entusiasti del successo del libro al botteghino. Manco avesse riscritto La teoria delle monadi, per ricordare  agli umani del ventunesimo secolo che “il possibile” è per loro del tutto fuori portata.

Egli si volta semplicemente indietro e prende a sistemare la pericolante situazione delle cose capovolte secondo la ratio del mondo d’una volta, dove l'evidenza perpetuata e  nobilitata dalla tradizione indicava il “noi”, dotato d'infule sacre, idonei a delimitare tempo e spazio a tutti gli “altri”.

A questo punto dell’infinita diatriba mediatica suscitata dal libro di Vannacci, mi sento tirata per i capelli a dire ciò che segue, forte della mia debolezza in titoli e stellette, ma d’anni ricca e di quelle esperienze che segnano la discrepanza tra la pietraia dogmatica gradita a “lor signori” e il mio alieno dovervi tirare i passi evitando possibilmente di soccombervi.   Sfugge al sig. Vannacci la conclamata evidenza che neppure il mondo minerale permane in assoluta staticità, come ben sappiamo.

Il fatto è che il delirio del potere alimenta il volere di imbragare corpo e mente a tutti coloro che il potere non l’hanno. Come?

Con l’impoverimento, la colpevolizzazione, la paura servile: «Sei disoccupata, sei occupata e povera? Mica vero! Intanto mangi meglio dei ricchi, perché hai la furbizia di “vendemmiare” gli orti di straforo e  i bidoni dei mercati,  campi troppo a lungo e perciò costi, sei molle, pigra, manchi d’inventiva e di spirito di adattamento, sei un peso sociale. Vuoi vivere a spese dell’erario, eh?» (Ho usato il femminile perché non esclude)

E si fomenta il senso di disprezzo per i gruppi  di cittadini bisognosi di sostegno, come se l’erario (il monte del gettito e le risorse di stato) sia il miracoloso frutto del capitale esosamente accumulato dai magnati (in buona parte stipato nei caveaux dei paradisi fiscali) e non il frutto del lavoro umano estratto in forma di profitto, di mancate garanzie, gravato di tasse sul salario e sui consumi, per servizi sociali non erogati. (Cito Caivano per mille e mille altri inferni).  

Il gap sociale isola i periferici nativi e si combina, complicandosi, con quello razziale così da scatenare guerre tra poveri, foriere della depressione sociale, della subalternità culturale e dell’annientamento sistematico dei soccombenti designati.

Vecchia storia, ma sempre pericolosamente attuali i suoi lieviti. In Germania uno dei lieviti fu un libello intitolato Mein Kampf di Adolf Hitler, che indicò  la minoranza ebraica responsabile della sconfitta della Prima Guerra Mondiale e del conseguente disastro economico; poi con la stessa logica furono perseguite sia le altre minoranze etniche che quelle politiche e religiose.

Anche noi italiani, in scarpe di cartone e vecchi moschetti ad armacollo, antesignani dei Nazi, abbiamo a suo tempo biecamente e stupidamente assunto atteggiamenti primatisti e orrendamente persecutori verso le popolazioni delle colonie e, in patria, contro i dissidenti politici e altre minoranze.

Proprio non abbiamo bisogno di un MEIN KAMPF, né vecchio né nuovo in formato sedici.

Dopo quella carneficina senza valori e senza onore quale fu la II Guerra Mondiale nessuno, nessun umano gallonato o meno, dovrebbe avere l’ardire  di sostenere il proprio diritto ad aggiungere nefandezze a quelle già giudicate dalla storia, né spacciare come diritto di libera espressione il denegato primatismo socioculturale sotto l’ombrello della Costituzione democratica e repubblicana d’Italia

Nessuno ha più il diritto e l’occhio bronzeo per permettersi di stilare la nota dei belli, dei buoni, dei bravi, dei comme il faut , dei sempre salvati, di “noi” contro “loro” spinti sulla strada della degradazione.

Non è sufficiente darsi il titolo di Solone per diventare credibile. 

Bisogna studiarlo davvero il pensiero filosofico nel suo emergere, nel suo articolarsi politico, nel suo complicarsi con le istanze di classe, nel suo variare,  rettificarsi e persino autoconfutarsi, prima di proporsi a testimone impossibile di una irragione  artatamente costruita.  

Giordano Bruno, panteista assoluto fino ad attingere il più puro confine materialista (come Benedetto Spinoza), fu sostenitore della, allora “pericolosa”, concezione copernicana, come fu elaboratore di altre straordinarie intuizioni. Egli, come Galileo, era in anticipo sul tempo persistente degli indiscutibili dogmi e ha pagato sul rogo il diritto di discutere il Sapere del Potere di  allora.  Avere la tempra umana e filosofica di un Bruno!

Dunque mi chiedo e chiedo a chiunque: è libero il Nostro Generale di aprire una campagna ideologica a favore del discrimine sociale, dell’odio primatista omofobo e del ripristino dell’ordinamento familistico patriarcale.

Rispondo no; né lui, né altri da posizioni di potere.

Come privato cittadino, forse sì, ma con un po’di grano salis, se possibile. Del resto l'arringa da rasoterra fa meno spettacolo.

Comunque fare campagna ideologica sulla base di un sentire personale rivolto a dileggio delle persone del mondo civile prossimo o lontano, è detestabile. Oltre che sbagliato, è privo di senso perché ridicolo.

E allora, se proprio senti di odiare, odia il furto, odia l’imbroglio, odia l’inganno e il tradimento, odia l’omicidio, odia la dissimulazione, odia la stupidità interessata, odia la superficialità, odia la furbizia malevola, odia l’indifferenza. Odia l’atto spregevole, ma salva le persone senza rango, specialmente le donne, perché possono  concepire le vie migliori in direzione di un mondo più giusto, più disposto al rispetto e alla pacifica convivenza fra preziose diversità non imposte

giovedì 17 marzo 2022

Corsa a scapicollo tra le tracce del femminismo - Bianca Mannu ( quarta e ultima tranche)

 

Bisognerà aspettare quasi un altro secolo per vedere i primi segni della lotta delle suffragette in Inghilterra, e poi un altro secolo per vedere la nascita, nel 1946,  di un libro di forte impatto politico e culturale ad opera di una intellettuale e filosofa francese, Simone De Beauvoir . Il secondo sesso s’intitola questo modo rivoluzionario di descrivere di nuovo la condizione femminile, di suggerire le chiavi unificatrici degli sparsi gruppi di femministe incerte e richiamare l’attenzione sulla possibilità di valutare l’anello di giunzione tra le sempre più vivaci lotte femministe e le molto combattive lotte degli operai, ma non così preparati, costoro, alla parità di genere nel sociale e nel giuridico, sorvolando sull’atteggiamento culturale che fortemente caratterizzava (e ancora qualifica) gli incontri ravvicinati dei sessi.

La legge per l’estensione del diritto di voto alle donne fu varata in Italia  nel 1945 ad opera dei partiti antifascisti del Governo Provvisorio (Parri), poi  inglobata nella Costituzione Repubblicana del 1946 insieme agli articoli sulla parità dei generi quindi all’eguaglianza dei diritti di tutti gli umani sul suolo italiano. Ma le leggi dei codici erano ( e sono rimaste nei fatti) ben lontane da quell’ideale.

Difatti – era il 1965 - una giovane donna, allora minorenne, Franca Viola, rifiutò di sposare il suo violentatore con un matrimonio riparatore. Il codice penale poneva lo specifico sotto la specie dei reati contro la morale. Con tale meccanismo la parte lesa poteva dichiararsi consenziente e, sposandolo, liberare il reo dalla condanna. Ma  Franca Viola rifiutò di sentirsi disonorata e rigettò il disonore sull’aggressore. Lui e i suoi complici furono condannati.

La legge fu abrogata nel 1981. Solo nel 1996 il reato di stupro fu ascritto come reato contro la persona. E la strada è ancora lunga. 

 


domenica 13 marzo 2022

Corsa a scapicollo tra le tracce del femminismo - Bianca Mannu (prima tranche)

Ciò che vorrei significare con questa chiacchierata sul alcuni momenti essenziali delle lotte sociali e femministe è questo: nessun miglioramento, nelle condizioni di vita e nei rapporti sociali e fra i sessi, è possibile, se non preparato, progettato, accompagnato, reso pubblico e condotto dalle persone vive che usano tutti i mezzi disponibili per comunicare e organizzare. Questo insieme di mezzi lo chiamo per brevità letteratura, che comprende ciò che può essere registrato comunicato e trasmesso nello spazio e nel tempo per l’azione, il sentimento, il pensiero e la memoria a beneficio della collettività: parole d’ordine, regole d’azione, narrazioni, testimonianze, canti … tutto ciò che scalda il momento dinamico.   

Il femminismo è un atteggiamento per azioni e idee. Nasce come reazione alla supremazia maschile che dalla notte dei tempi  ha confinato le femmine della specie umana in una posizione subalterna, l’ha considerata incontrovertibile, in quanto conseguenza logica, sociale e politica della presunta minorità naturale delle donne e di certi gruppi sociali(schiavi). Il femminismo  e i movimenti ad esso simili, tuttora attivi con alterne sorti, incontrano limiti e ostacoli nella tenacia del potere nel rafforzare se stesso con  tutti i mezzi più solidi e più pervasivi: dall’organizzazione familiare in clan gerarchizzati e quasi separati per caste chiuse, a formazioni di classi teoricamente mobili, ma strutturate  sulla base dei poteri economici, di quelli giuridici e ideologici i cui meccanismi ostacolano i passaggi da un ceto inferiore a uno superiore; e si prefiggono di emarginare quella parte di umanità che, dopo essere stata espropriata delle sue qualità per continuato deprezzamento, per imposizioni lavorative devastanti,  viene connotata per caratteristiche esteriori ritenute negative:  colore della pelle, voce in falsetto, altri segni considerati di ordine magico religioso (povertà come demerito, mitezza come viltà, intelligenza come protervia, timidezza come falsità, vivacità come prepotenza, ecc.) Mentre le stesse caratteristiche unite al potere e alla ricchezza diventano virtù da esibire con molta  parsimonia, perché a temperarle è immancabile la durezza, la crudeltà, la furbizia, la malevolenza, la sospettosità... (Va da sé che difetti e virtù sono abbastanza ripartiti fra gli umani di ogni classe sociale, perché pescano sul fondo dell’insopprimibile animalità umana, ma il risultato psicologico individuale è opera storico sociale e il suo peso culturale – cioè l’effetto modello – è correlato col potere impersonato.)

domenica 27 febbraio 2022

NESSUNA FESTA -- di Bianca Mannu

 Tre primule, sì, o sorelle, ma nessuna festa.
Quanto è antico - mi chiedo - il seme del “femminismo”? C’è stata una sorta di “paleofemminismo”?- insisto.
Forse s’era formato di nascosto un seme storico, ma nessuno sapeva se esistesse davvero, se potesse dare frutti e riprodursi; tanto meno se si potesse attribuirgli un nome. Eppure, a leggere le tracce trasfuse nei racconti degli aedi, esperti frequentatori degli antichi clan di Aristoi greci e asiatici, qualcosa di paragonabile a un seme s’era forse formato e dormiva sonni pesanti da cui forse sarà schizzato per brevi e strani segnali sonnambolici. Gli indovini avranno certo preconizzato i suoi casuali episodi luttuosi per attribuirli all’ira d’una qualche deità scontenta. 
 
Ma il nome di questo  fantomatico seme dovette attendere forse più di tremila anni per catapultarsi, con varie piroette, dal dialetto medico, alle ironiche e sprezzanti battute scritte a stampa da un Autore, stimato grande penna, per andare a deporre qualche spora sul più fertile e inquieto universo storico-sociale dell’evo contemporaneo, quello che iniziava con l’assalto alla Bastiglia il 14 luglio del 1789.
Chi in quel momento occupava quel ribollente universo?
Nobili e alto clero, certamente e, si sa, i rappresentanti del Terzo e anche del Quarto Stato: Girondini, Giacobini, Foglianti e una miriade  di partiti anche in lotta acerrima fra loro, perché in quell’ombelico di mondo, che era la Francia, sembravano scaturite con urgenza vitale le condizioni per il sovvertimento dell’ordine cosmico.
Sì, c’erano tutti loro coi loro tragici compiti, nei quali si trovarono variamente implicate, e non meno arrabbiate, le cittadine francesi del Terzo e Quarto stato, les femmes.
Gli altri, les philosophes, gli illuministi già passati a miglior vita, antesignani del catastrofico mutamento,  avevano lavorato così bene il terreno per la Rivoluzione giuridica sociale e politica, ma avevano speso pochissimi pensieri e ancor meno inchiostro per la sorte del quinto stato, les femmes.
Invece lei, Marie, alias Olympe De Gouges, nel 1791 – in piena Rivoluzione pubblicò La dichiarazione dei  diritti della donna e della cittadina come prosecuzione della smemorata Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, rimasta muta sulla componente femminile. Ritenuta girondina, Olympe fu ghigliottinata nel 1793.
Com’è noto, i movimenti giovani sono gracili e devono mordere molta polvere prima di divenire passabilmente maturi. Nei momenti di stanca scompaiono dalle superfici e tornano al nutrimento placentare.

Ma noi, ora viventi, che siamo il loro non proprio felice futuro, ancora sentiamo sul collo il fiato pesante del padre despota, sia pure ammorbidito, perché costretto periodicamente ad allentare le maglie del castello.
Eh, sì, la guerra di Troia ritorna di continuo all’ordine del giorno, come brutalmente  siamo appena stati informati. E allora, alt!, maschi alle armi, femmine alla più difficile cura di tutti, e a sostituirli nelle officine, nei campi, negli uffici. Chi pagherà il salatissimo conto, comunque vada? 
Per via della poca luce che lo sguardo riesce a posare sul buio dell’antico, si può credere di captare sporadici sentori di Paleofemminismo. (Ecco mi sono presa questa libertà!) Paleofemminismmo recessivo e cortigiano nelle vicende mitiche dell’arcaismo greco, arrivate a noi tramite l’epopea omerica e il teatro tragico antico. E mi sembra che il cordone ombelicale, tra quello e l'attuale oligarca,  resista.
Ancora adesso che il patriarcato globale è dovuto scendere a patti con frange meno timide di femminismo,  oscilliamo tra lealtà semiconscia per l’usato e volontà di rivolta contro, tra acquiescenza e insofferenza verso l’ambiguità insistente e immanente del potere patriarcale.

Non sappiamo, (io di certo non lo so) come sia avvenuto che il gruppo maschile della parentela arcaica abbia strappato per sé tutto il privilegio concepibile allora, inventato e volto a suo favore la pratica esoterica dell’accumulare, escludere custodire e usare memoria collettiva e  beni, amministrare sacro e profano secondo  criteri, ambiti e false garanzie  con cui le donne furono di sicuro raggirate e presto  immolate alla loro (e ancora nostra)  pochezza, gabellata come  nativa e insormontabile. Così il loro corpo (cioè nostro), solerte macchina umana di produzione di beni e di prole per via della potente e temibile fertilità, segnata da mestrui doglie e puerperi,  è stato violato e costretto a una gestione subordinata. Persino il pensiero femminile – umiliato alla stregua di neghittoso e mendace artifizio - fu sempre inquisito e abitato da altra voce, voce d’uomo o di deità misteriose. Così mi figuro sia stato stabilito lo statuto sacrificale dall’ordine maschile sul femminile.
E allora oggi penso a come sia stato agevole, nel chiuso dei piccoli clan, insinuare confini interni, regole diseguali e castighi, gerarchie di ruoli segreti, fingendoli  emanazioni di un “sotto” o di un “sopra” insondabile, deificato
Di sicuro le femmine parteggiavano, spesso  le une avverse alle altre, secondo la regola divide et impera del pater; ed altre ancora - malgrado i timori – stringere congiura per mandare ad effetto rivolte o delitti risolutori, talora sventati e soppressi nel sangue, “dimenticati.”
Il Paleofemminismo? Si può appena ipotizzarlo come episodica valvola  di sfogo.
Ma  continuo a domandarmi: « Perché  le donne si sono convinte di essere costituzionalmente minori, pur avendo sperimentato resistenza e prove di tante loro capacità? »
Mi rispondo: «Ammesso che ci sia stato un inizio, esso avrà avuto le stigmate della particolarità legata al gioco contestuale dei tempi e delle geografie…  Sappiamo oggi, “esperti ed esperte” di ruoli razziali e di classi, che il potere organizzato organizza a sua volta, servendosi dello stillicidio educativo precoce, della casualità favorevole  e della dissuasione violenta. 
E la dissuasione violenta si accompagna alla pregiudiziale magica, unita a importanti contrappesi di persuasione premiale verso le componenti alleate. L’elemento femminile con l’avanzare dell’età e la scomparsa del mestruo risulta alleabile all’uomo del potere. Il conseguimento di briciole di autorità  in sottordine, da parte di componenti escluse per casta dal potere apicale, diventa realizzazione del massimo grado di ruolo personale possibile: quello di comandare, controllare  e distribuire benefici e castighi in posizione vicaria sopra la servitù e gli immaturi. E a colmare la motivazione può configurarsi la possibilità di influenzare l’apice dell’autorità costituita.» (Non vi pare che tutto ciò accada sotto il nostro naso? Lo sguardo mi cade sullo specchio che il nostro Parlamento ci ha offerto la settimana scorsa !)
Leggendo gli antichi miti desumo briciole di vero: «La valvola di sfogo del dissenso femminile  – certamente parziale e sottoposta al pericolo di delazione – era attivabile, e forse più usata di quanto si racconta, mediante la disubbidienza delittuosa, l’inganno sentimentale, l’orditura complice di vendette e omicidi contro i capi del clan indeboliti. Ma a causa dell'inesperienza e per necessità di forze, si promuoveva la combutta coi maschi cadetti, e quindi ci si rassegnava all’immancabile ritorno del potere personale maschile».

Questa mia parabolica corsa retroattiva (facile!, per la verità) me la consente Omero e i tragici greci. Ripenso alla condizione di Penelope, sotto lo scacco dei pretendenti accaniti sulle sue sostanze. Lei che arzigogola l’inganno della tela e organizza la reggenza  clandestina del maschio Telemaco, inviato a sostenere 
l'esame di maturità e di attitudine al comando da parte di quelli che contavano al momento: di un Saggio e di due re sul trono. Paragoniamola con la situazione di Clitennestra decisa a vendicare l’immolazione fraudolenta di sua figlia Ifigenìa per mano di Agamennone, marito e padre della fanciulla, generale in capo della spedizione verso Troia. E costui, tornato troppo sicuro di sé, pensa a godere il possesso delle sue schiave favorite … L'azione politica non si presenta disunita da relazioni di ordine sessuale ...  Oreste farà strage della famiglia allargata e, unico, sopravvivrà.
Continuo la mia corsa. Di nuovo a Itaca. Ecco Odisseo, reduce di guerra e clandestino in patria. Con quale circospezione si maschera, e solo con grandissima cautela si rivela alla sua stessa moglie! Col figlio promosso all’esame di maturità governativa (nell’incontro segreto con i personaggi di spicco, tra cui Nestore/Atena) e  i servi più fidi ordisce le sequenze  d’avvio al tentativo di riprendersi il potere e sbarazzarsi dei Proci.

«Però - ribadisco fra me - la battaglia delle femmine era pur cominciata. Magari l’arte letteraria l’avrà rielaborata sul profilo del mito e della tensione narrativa, magari avrà enfatizzato la possibilità delle sue  sconfitte, ma quell’arte stessa ci racconta con spirito di verità che la determinazione battagliera delle donne era già germinata».

Però non riesco a gioire del presente o a sperare sul tempo prossimo: molte guerre di Troia sono in corso; e altre, che sembrano finite, continuano oltre la  procurata sordità da Primo Mondo. L’ultimo attacco, con i favori della pandemia, irrompe a scena aperta nel nostro centralissimo proscenio globale … Attivi e insolventi, diversi patriarchi di molto ambigue patrie ripetono antichi e minacciosi detti. Le madri costrette nei caveaux, le donne si ritrovano coriste di  piazza: unisono indistinguibile …Vorrei, credo che vorremmo celebrare quel famoso memoriale festivo che abbiamo pagato e ripagato con ripetute sofferenze e rovine … Memoriale, sì, dobbiamo sottolinearlo. Ma festa, no; non possiamo!  

 




giovedì 18 marzo 2021

Il fascino discreto della “competenza” da By Infosannio per B. Mannu

Nota - Ripropongo lo stralcio desunto dal detto articolo. L'ho trovato sommamente lucido, "pensato" e dissonante nello schiamazzo o nel refrain, ripetuto dal periodo postbellico a oggi, a mitologica conferma e lode del potere comunque gradito a "lor signori". Imperturbabili costoro a rivestirne e a rivestirsene, nonostante i registri delle P2 e tutte le menzogne e omissioni molto interessate dei poteri in auge, escludendo Giuseppe Conte e i pentastellati, che non erano dell'èlite, e a cui nulla è stato risparmiato. Il neolaureato potere tuttavia vacilla rispetto alle esagerate capacità, di cui è stato investito dai soliti noti, davanti al primo problema capace di inquietare le moltitudini e di disporsi come grido: il re è nudo! Non a caso la testata ha ritenuto di sottolineare la sua analisi riferendosi al film di Buñuel. 
Non pochi di noi, cittadini con peso specifico incerto, pensano alla razza di "competenti" che, dai posti di comando, ha riempito i registri della P2 e del malaffare, ha deciso il clima Paese e l'entità organizzata dei suoi lutti. (BM)

Il fascino discreto della “competenza”

  Ora, il problema che viene lasciato sotto traccia adottando questo criterio di “competenza” è che i soggetti che provengono da queste grandi istituzioni sono fatalmente degli insider, sono cioè soggetti che hanno potuto fare la carriera che hanno fatto perché hanno accettato il sistema esattamente per come si presentava loro, ne hanno onorato le regole, hanno mostrato affidabilità nell’incarnarle e implementarle, hanno obbedito agli indirizzi egemonici nell’impianto ideologico, si sono anche indebitati moralmente con altri membri del medesimo establishment, che ora sanno di poter contare su di loro.

Lodare i “competenti” in grazia della loro “eccellenza” e “rappresentatività” alla guida del paese significa in concreto incoronare non qualcosa di neutro e tecnico come la conoscenza pratica, ma qualcosa di ideologicamente ben definito, cioè l’appartenenza organica al sistema capitalistico internazionale e alle sue oligarchie finanziarie.

Lodare i “competenti” in grazia della loro “eccellenza” e “rappresentatività” alla guida del paese significa in concreto incoronare non qualcosa di neutro e tecnico come la conoscenza pratica, ma qualcosa di ideologicamente ben definito, cioè l’appartenenza organica al sistema capitalistico internazionale e alle sue oligarchie finanziarie.

Che l’alta borghesia italiana … sia di ciò entusiasta e ci tenga a farvelo sapere è nell’ordine delle cose … è sincero entusiasmo il loro … Che di ciò si entusiasmi la media e piccola borghesia, o addirittura la vasta maggioritaria distesa di chi lotta per tenere la testa sopra l’onda ogni giorno, beh, questo è un triste fraintendimento.  

 

sabato 13 febbraio 2021

Pandemia, recessione economica, questione climatica e ambientale e riposizionamento dei poteri tradizionali nel conflitto sociale - Bianca Mannu

 

Si attribuisce, sbagliando clamorosamente, lo sfacelo del Socialismo reale alle teorie Marxiane. Così ci si liberò in un colpo solo del dovere di fare analisi politico sociologiche sui socialismi reali, né si analizzò come e perché perdurò e si acutizzò in esse il contrasto di classe fino a produrre slittamenti delle nomenclature di potere verso forme di fascismo (fascismo rosso fu l’espressione di P.P. Pasolini). Bastò per dichiarare improponibile anche solo lo studio e la discussione pubblica sulle ricerche di K. Marx. Attualmente ci si sbarazza dei pochi strumenti teorici (peraltro rimasti obsoleti) capaci di riattivare lo studio e la comprensione dei meccanismi e delle forme in cui si struttura il modo di produzione  capitalistico e la lotta delle classi in diverse contingenze storiche ed economico-sociali.

Ebbene, con buona o cattiva pace dei soggetti politici che si sono variamente presentati come aperti a prendersi carico di problematiche di riequilibrio socio economico in condizione di pandemia e di imminente recessione economica congiunta al collasso climatico e naturale, tutto il cicaleccio mediatico e i tetragoni silenzi dei "padri salvatori" stanno parati a oscurare un fatto di madornale evidenza: la durissima lotta di classe in corso, in qualche modo  tenuta a freno dal morso della pandemia e dalle iniezioni di liquidità predisposte dal governo appena caduto.  Ciò che è peraltro il motivo determinante del suo affossamento, sub specie di assistenzialismo.

 Il credito enorme di liquidità ottenuto dalla UE con le trattative di Conte è in fase di erogazione e costituisce la posta di questa lotta feroce (lotta in parte paludata e parzialmente assorbita  oltre le soglie dei piani alti). L’esito conclamato e (si spera) temporaneo di questo conflitto si annuncia come ritorno al passato e come volontà di continuare nelle vecchie logiche di sfruttamento dell’umano e della natura, e di accollare all’ afasia del semplice comportamento politico-tecnocratico il fare.

Ancora una volta proprio le classi di potere, responsabili nel tempo di
scelte politiche e
 tecniche disastrose difficilmente superabili, ghermiscono in proprio la destinazione della liquidità del debito sociale contratto in pandemia,  e se ne avocano l’uso politico a ulteriore


rafforzamento del loro potere secondo logiche già sperimentate e lucrative, mentre il suo risarcimento comunitario andrà a carico dei soliti noti, figli di coloro che furono e sono per sempre incompetenti, incapaci, macchine da lavoro miserabile, indotti a rappresentare sé stessi come stupidamente nostalgici del bicchierino da bar e del tifo sportivo.

 Dunque, al pari delle femmine di sempre (quelle più carinamente disposte a servire, commentare, omaggiare la mutria dell’androgino vincente ) a tutti noi, gente di niente, tocca far silenzio e sperare. A noi, maschi presuntuosi e di poco concetto, e  a noi, femmine compresse e subalterne alla presunzione maschile, a tutti noi, gregari e non meritevoli, gregge incapace di distinguere un cavallo da un caprone, tocca  sperare, sperare, sperare … in un  S. Giorgio o in un  drago.

 

lunedì 9 novembre 2020

Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu

 

 Nel mio articolo precedente ho indicato nella nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.

Quale sarà mai stato il tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del percorso attuale,(fase due, morbida o durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo “spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.

Già se ne percepiscono i rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a conteggiare i propri utili (dato che non potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al sostegno verso i più diseredati). Vorrà  risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi margini di fronte alle persone che sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto paradisiache o, per così dire, niente affatto  umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza trasformatrice che inerisce  la massa degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata, vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale inutile, chiudiamo i ranghi!

Non vado oltre. Voglio andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio periferico. Com’era il loro “prima” ?

Esemplifico e semplifico, chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque, caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media, suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria del bisogno del “tu” solitario  si coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come moltitudine temibile.

Torno al «tu»: non hai un lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh,  adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando piove …  I tuoi familiari e tu stesso potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto.   Molto del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati “benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …   

 La povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla vista dei più, così  le crisi di coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.   

Evito di fare riferimento a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano  nella piccola illegalità, cioè quella ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di tutti (anche dei benestanti che non si ritengono mai tali) e lascia spazi (più presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.

Il demagogo è sempre pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze antropologiche ineguagliabili, purtroppo  decidue, precarie per causa e colpa di quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì, perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito, magari scientifico!)   

 

 Perché la precarietà è il denominatore comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica, come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da noi.  E se per il magnate il senso di precarietà  surclassa di parecchio il suo spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità del suo essere fisico … e molto prima  che  il dissesto esistenziale abbia compiuto il suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le leggi e la cultura pongono a suo subordine.

Tale il sentimento che anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di  arginare l’incombente senso di perdita che fa tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e generazionale.

La libertà è una spinta che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già dentro una classe, un ceto.  Ed è la società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli, a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.    

Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e doppia tragedia, sanitaria ed  economica in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale  (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica)  su cui rifondarsi per poter uscire dalla tempesta con danni contenuti.

Da qui si zompa sul problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè  sulla necessità di formare adeguatamente le teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti esistenti.

Costoro esprimono il ceto politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.   

Tanto per dirla tutta, come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti, per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili nelle categorie più immediate del profitto privato.    

L’attuale compagine di governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere  una parziale responsabilità nell’aver colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei confronti della sua storia e del suo antico elettorato.    

martedì 3 novembre 2020

Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu

 

Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci  sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.

Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.

 Allorché un evento inatteso, macroscopico e pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di conflitti malsani  e con tentativi più o meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise disposizioni.

È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso: prima e dopo.

 Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del “prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche tratto  che simboleggia e ricopre il tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.

L’altro senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.

Questo tempo  è come quello che lo scrittore Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito circa settant’anni  or sono, ma vivo come fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale. 

Noi siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo,  la sua specifica temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del “prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece  procede per cinquanta e più sfumature di grigio.  

 Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di accettare  le politiche di solidarietà sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.

Detto ciò, andrebbe sottolineata  l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà, le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle terapie. Diversi studi condotti  negli Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.

Il nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte

Sul persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e al crescere di economie distorcenti. 

Poiché le possibilità di altre pandemie (già questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo profitto.

Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di  organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale  più matura e responsabile, governeranno meglio  i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.

Ma occorre  cominciare ora e non riaprire le vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione (non premiale) dell’evasione fiscale. Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione, avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro debito.