mercoledì 25 novembre 2020

- Foemina - inedita di Bianca Mannu


Foemina

                                                                       Senza  volerlo

                nacque

Nel nascere  bagnò

con l’urina 

il suo primo vagito

Padre e madre

si tennero avvertiti

ch’era – pazienza! - una bambina

dalla naia indenne

non dalle trappole bastarde …

 

Così padre e madre

si spartirono a quarti

mezza gioia acerba:

che lei potesse eludere

la sorte trepidante e obliqua

tesa a misura di lumi sospesi

come doni feroci

all’ala notturna della morte

 

Lei - esclusa la tiepida poppata  -

di gioia non ne ebbe alcuna –

solo il morso freddo d’un febbraio

di piombo e di mitraglia

E non s’avvide dell’ottuso gioco

dell’alternativa avara

 

Per una ed altre lei

scampate alla mattanza universale

la morte sarebbe arrivata

in mimesi – senza bagliori – in vita

e a poco a poco

 


 

Noticina - Un mio testo, di qualche anno fa, rielaborato al di fuori delle occasioni esterne. Benché i rituali abbiano la loro importanza, non li amo. Non amo nemmeno gli accenti vittimistici, perché sembrano attribuire fatalità e inamovibilità a condizioni diffuse, sottilissime, dall'apparenza psicologica anodina, ma ambiguamente costrittive perché si presentano come libere scelte. Esse sono iscritte in un clima generale, che trova nella sordità giuridica, politica, sociale e culturale la perpetuazione della più ancestrale demarcazione della perseguita e organizzata minorità femminile. 

Non ascoltarti, o donna, quando più rassomigli alle immagini che ti vengono proposte come autentiche, come  tue con l'approvazione generale. Usa il senso critico, anche quando ami.




Simbolo matematico di infinito, tanto simile al simbolo scelto per rappresentare la femminilità contemporanea. 

lunedì 9 novembre 2020

Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu

 

 Nel mio articolo precedente ho indicato nella nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.

Quale sarà mai stato il tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del percorso attuale,(fase due, morbida o durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo “spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.

Già se ne percepiscono i rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a conteggiare i propri utili (dato che non potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al sostegno verso i più diseredati). Vorrà  risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi margini di fronte alle persone che sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto paradisiache o, per così dire, niente affatto  umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza trasformatrice che inerisce  la massa degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata, vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale inutile, chiudiamo i ranghi!

Non vado oltre. Voglio andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio periferico. Com’era il loro “prima” ?

Esemplifico e semplifico, chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque, caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media, suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria del bisogno del “tu” solitario  si coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come moltitudine temibile.

Torno al «tu»: non hai un lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh,  adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando piove …  I tuoi familiari e tu stesso potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto.   Molto del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati “benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …   

 La povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla vista dei più, così  le crisi di coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.   

Evito di fare riferimento a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano  nella piccola illegalità, cioè quella ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di tutti (anche dei benestanti che non si ritengono mai tali) e lascia spazi (più presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.

Il demagogo è sempre pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze antropologiche ineguagliabili, purtroppo  decidue, precarie per causa e colpa di quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì, perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito, magari scientifico!)   

 

 Perché la precarietà è il denominatore comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica, come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da noi.  E se per il magnate il senso di precarietà  surclassa di parecchio il suo spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità del suo essere fisico … e molto prima  che  il dissesto esistenziale abbia compiuto il suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le leggi e la cultura pongono a suo subordine.

Tale il sentimento che anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di  arginare l’incombente senso di perdita che fa tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e generazionale.

La libertà è una spinta che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già dentro una classe, un ceto.  Ed è la società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli, a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.    

Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e doppia tragedia, sanitaria ed  economica in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale  (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica)  su cui rifondarsi per poter uscire dalla tempesta con danni contenuti.

Da qui si zompa sul problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè  sulla necessità di formare adeguatamente le teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti esistenti.

Costoro esprimono il ceto politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.   

Tanto per dirla tutta, come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti, per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili nelle categorie più immediate del profitto privato.    

L’attuale compagine di governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere  una parziale responsabilità nell’aver colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei confronti della sua storia e del suo antico elettorato.    

martedì 3 novembre 2020

Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu

 

Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci  sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.

Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.

 Allorché un evento inatteso, macroscopico e pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di conflitti malsani  e con tentativi più o meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise disposizioni.

È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso: prima e dopo.

 Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del “prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche tratto  che simboleggia e ricopre il tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.

L’altro senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.

Questo tempo  è come quello che lo scrittore Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito circa settant’anni  or sono, ma vivo come fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale. 

Noi siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo,  la sua specifica temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del “prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece  procede per cinquanta e più sfumature di grigio.  

 Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di accettare  le politiche di solidarietà sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.

Detto ciò, andrebbe sottolineata  l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà, le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle terapie. Diversi studi condotti  negli Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.

Il nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte

Sul persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e al crescere di economie distorcenti. 

Poiché le possibilità di altre pandemie (già questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo profitto.

Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di  organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale  più matura e responsabile, governeranno meglio  i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.

Ma occorre  cominciare ora e non riaprire le vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione (non premiale) dell’evasione fiscale. Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione, avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro debito.