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domenica 28 giugno 2015

Un "Jadie" della letteratura ? Considerazioni spicciole di B.Mannu

Una volta erano gli apparati della Critica ad attraversare la foresta letteraria e a decretare quali testi, il come e il perché potessero occupare il “luogo sublime dell’arte”. Era la Critica a segnare la demarcazione tra alberi  ed erba di sottobosco, come allora si diceva.
Ecco, coloro che a vario titolo, da dilettanti, da scrittori della domenica, da emergenti  in pectore, formavano questa prateria , erano visti in guisa di erbe spontanee, cultori di presunzioni impossibili.  Ma ogni tanto la stessa Critica o l’Editoria alta e lungimirante estraeva - a volte cogliendo bene, a volte sbagliando - una promettente singolarità che prendeva posto, o consentendo o polemizzando con l’universo dato, nel Parnaso dei grandi. Troneggiavano le grandi riviste di critica letteraria sopra una miriade di pubblicazioni  locali, talora molto agguerrite e vivaci. Si sviluppavano salutari polemiche a cui poteva  accedere il grande pubblico.
Giornali quotidiani, periodici dii cultura varia e soprattutto la TV, riecheggiavano notizie e idee, indicavano legami di riferimento tra diverse teorie sull’arte e non solo. La TV era allora animata da una certa verve pedagogica e volontà di acculturazione delle masse poco alfabetizzate; e dunque, sia pure afflitta  da blocchi moralistici e pulsioni conservatrici, favoriva il contatto diretto con poeti  e  scrittori di valore indiscusso e con le loro opere.
Il valore letterario non veniva rozzamente schiacciato sulla dimensione mercantile, caso mai questa pareva scaturire dal valore intrinseco e/o dalla risonanza che l’opera produceva  in virtù della sua qualità artistica, ossia nella sua capacità di farsi strada anche nell’immaginario comune, elevandolo. Insomma l’osmosi funzionava, o così pareva.
Detta così sembra che io descriva una condizione paradisiaca. Tutt’altro. Era un contesto attraversato da forti contrasti ideologici, oltre che politici, sociali e di costume. Ma nella dialettica delle differenze s’insinuavano istanze e scaturigini di accenti e modalità di discorsi, di attinenze più autentiche, in qualche modo contigue, ma non conformiste, alla vita delle persone così dette comuni. L’arte della parola si chinava sul mondo povero, ma ricco di tensioni e istanze positive, da descrivere e sviluppare creativamente.
Non c’è e non vuole esserci  nostalgia in questa troppo breve e iper-schematica rimemorazione, ma manifestare il senso dello scarto prodottosi allorchè il mercato è entrato di prepotenza, senza forti e razionali interposizioni, in tutti i gangli della vita nel nostro Paese e nel mondo, ovvero dal momento in cui anche in un’ Italia, fino ad allora recalcitrante e gelosa di una sua singolarità politico-culturale, ci si è  ridotti a dimensionare tutto secondo la logica mercantile, curvata sul più miope e becero interesse-godimento privato immediato, privo di ogni sana istanza sociale e performativo nei riguardi delle giovani generazioni, quelle anni ’80 e post. (Invito a leggere online il bell’articolo Gli anni dell’edonismo reganiano di Roberto D’Agostino su La stampa – opinoni )
È in tale contesto che non solo è morta la critica militante, lucida e “disinteressata” nei diversi settori della vita sociale e politica, ma anche nel settore delle arti e letteratura. Per cui , il “luogo sublime dell’arte” . come giustamente osserva S. Žižek risulta conteso e preso nei molteplici assalti dei sistemi di mercato. È  il mercato , sulla base del consumo godereccio e rapido a decidere lo statuto artistico, o meglio a decretare a quali oggetti competa l’occupazione del luogo sacro dell’arte. Questo luogo si identifica quasi totalmente con la diffusione mercantile del prodotto.
Lungo questa deriva è il potere sublimante della forma, della sua apparenza allusiva  a cedere rispetto a una sensibilità sempre più rastremata sull’elementare richiamo dell’oggetto materiale, sull’elemento immediatamente dirompente, che poi è il residuo, lo scarto, il vuoto, ossia ciò che resiste al consumo, che indica una saturazione dell’orrore, tale che la sublimazione tragica non può più avvenire, ma al più cambiarsi  in parodia e farsa, come sottolinea Žižek in La fragilità dell’assoluto.  
 In questo modo, tra l’altro, viene a cessare il senso dell’interna coerenza dell’opera rispetto agli impulsi intenzionali del suo autore, il quale viene “forzato”,”sedotto” a produrre in funzione della consumabilità mercantile e del pubblico, e quest’ultimo, culturalmente deprivato, non può che disporsi al livello di fruizione più basso e  banale, di modo che lo spazio simbolico naufraga piuttosto che nella mancanza di senso, nel senso spettrale riesumato e parodistico di una condizione inesistente o di condizioni che non sfociano se non in un rabbioso autocompianto.  
Ma che ne è del grande sottobosco letterario? Esso è quanto mai fiorente in senso quantitativo. In forza del fatto che ogni umano sarebbe per natura latore di una sensibilità estetica, di una istintiva propensione all’espressione emozionale mediata dal linguaggio, il godimento compositivo si apre a una mai vista democratica frequentazione. Il ciberspazio è una rete di fiumi che trascinano di tutto con relativa facilità e tutto vi coesiste o vi compare e scompare, impregiudicato.