Una volta erano gli apparati della Critica ad attraversare la foresta
letteraria e a decretare quali testi, il come e il perché potessero occupare il
“luogo sublime dell’arte”. Era la Critica a segnare la demarcazione tra alberi ed erba di sottobosco, come allora si diceva.
Ecco, coloro che a vario titolo, da dilettanti, da scrittori della
domenica, da emergenti in pectore,
formavano questa prateria , erano visti in guisa di erbe spontanee, cultori di
presunzioni impossibili. Ma ogni tanto
la stessa Critica o l’Editoria alta e lungimirante estraeva - a volte cogliendo
bene, a volte sbagliando - una promettente singolarità che prendeva posto, o
consentendo o polemizzando con l’universo dato, nel Parnaso dei grandi. Troneggiavano
le grandi riviste di critica letteraria sopra una miriade di pubblicazioni locali, talora molto agguerrite e vivaci. Si
sviluppavano salutari polemiche a cui poteva
accedere il grande pubblico.
Giornali quotidiani, periodici dii cultura varia e soprattutto la TV,
riecheggiavano notizie e idee, indicavano legami di riferimento tra diverse
teorie sull’arte e non solo. La TV era allora animata da una certa verve
pedagogica e volontà di acculturazione delle masse poco alfabetizzate; e
dunque, sia pure afflitta da blocchi
moralistici e pulsioni conservatrici, favoriva il contatto diretto con
poeti e
scrittori di valore indiscusso e con le loro opere.
Il valore letterario non veniva rozzamente schiacciato sulla
dimensione mercantile, caso mai questa pareva scaturire dal valore intrinseco e/o
dalla risonanza che l’opera produceva in
virtù della sua qualità artistica, ossia nella sua capacità di farsi strada anche
nell’immaginario comune, elevandolo. Insomma l’osmosi funzionava, o così pareva.
Detta così sembra che io descriva una condizione paradisiaca.
Tutt’altro. Era un contesto attraversato da forti contrasti ideologici, oltre
che politici, sociali e di costume. Ma nella dialettica delle differenze
s’insinuavano istanze e scaturigini di accenti e modalità di discorsi, di
attinenze più autentiche, in qualche modo contigue, ma non conformiste, alla
vita delle persone così dette comuni. L’arte della parola si chinava sul mondo
povero, ma ricco di tensioni e istanze positive, da descrivere e sviluppare
creativamente.
Non c’è e non vuole esserci nostalgia
in questa troppo breve e iper-schematica rimemorazione, ma manifestare il senso
dello scarto prodottosi allorchè il mercato è entrato di prepotenza, senza
forti e razionali interposizioni, in tutti i gangli della vita nel nostro Paese
e nel mondo, ovvero dal momento in cui anche in un’ Italia, fino ad allora
recalcitrante e gelosa di una sua singolarità politico-culturale, ci si è ridotti a dimensionare tutto secondo la
logica mercantile, curvata sul più miope e becero interesse-godimento privato
immediato, privo di ogni sana istanza sociale e performativo nei riguardi delle
giovani generazioni, quelle anni ’80 e post. (Invito a leggere online il
bell’articolo Gli anni dell’edonismo reganiano di Roberto D’Agostino su La stampa – opinoni )
È in tale contesto che non solo è morta la critica militante, lucida e
“disinteressata” nei diversi settori della vita sociale e politica, ma anche nel
settore delle arti e letteratura. Per cui , il “luogo sublime dell’arte” . come
giustamente osserva S. Žižek risulta conteso e preso nei molteplici assalti dei
sistemi di mercato. È il mercato , sulla
base del consumo godereccio e rapido a decidere lo statuto artistico, o meglio a
decretare a quali oggetti competa l’occupazione del luogo sacro dell’arte. Questo
luogo si identifica quasi totalmente con la diffusione mercantile del prodotto.
Lungo questa deriva è il potere sublimante della forma, della sua
apparenza allusiva a cedere rispetto a
una sensibilità sempre più rastremata sull’elementare richiamo dell’oggetto
materiale, sull’elemento immediatamente dirompente, che poi è il residuo, lo
scarto, il vuoto, ossia ciò che resiste al consumo, che indica una saturazione
dell’orrore, tale che la sublimazione tragica non può più avvenire, ma al più
cambiarsi in parodia e farsa, come
sottolinea Žižek in La fragilità
dell’assoluto.
In questo modo, tra l’altro,
viene a cessare il senso dell’interna coerenza dell’opera rispetto agli impulsi
intenzionali del suo autore, il quale viene “forzato”,”sedotto” a produrre in
funzione della consumabilità mercantile e del pubblico, e quest’ultimo,
culturalmente deprivato, non può che disporsi al livello di fruizione più basso
e banale, di modo che lo spazio
simbolico naufraga piuttosto che nella mancanza di senso, nel senso spettrale riesumato
e parodistico di una condizione inesistente o di condizioni che non sfociano se
non in un rabbioso autocompianto.
Ma che ne è del grande sottobosco letterario? Esso è quanto mai
fiorente in senso quantitativo. In forza del fatto che ogni umano sarebbe per
natura latore di una sensibilità estetica, di una istintiva propensione
all’espressione emozionale mediata dal linguaggio, il godimento compositivo si
apre a una mai vista democratica frequentazione. Il ciberspazio è una rete di
fiumi che trascinano di tutto con relativa facilità e tutto vi coesiste o vi
compare e scompare, impregiudicato.
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