giovedì 31 dicembre 2020

I miracoli di Bachisio - dalla silloge Dove trasvola il falco - Bianca Mannu

Capodanno 2001- 2002

Barbagia innevata. Un terzetto di amiche decidono di salutare il vecchio anno e di accogliere il nuovo sulla neve barbaricina. Fu così che il gestore dell'hotel le condusse in montagna dove sperimentarono gli effetti emotivi di una vera e propria tormenta. Parecchia adrenalina sul momento, ma l'esito fu relativamente felice. Il tono della composizione è da filastrocca. L'acrostico reca il nome non italianizzato della persona: Bachis. Molto diffuso nella zona.

 Miracoli di Bachisio

 E meno male che c’era Bachisio

che di - miracoli ne fa quanto Efisio.

Faceto raccontava questo e quello

ma non cedeva d'un solo capello!


 Bordeggiava i dirupi con la gip -  e …

A salti sgommando doppiava i tornanti

Chiamandosi in gara con la gravità e col vento …

Hi! Ohi, mamma! Ah!- noi vedevamo tutto il firmamento.

In quella trappola di ferri tonanti

Si ballava – noi - come baccanti!

  

E meno male che c’era Bachisio

Che - di miracoli - ne fa più d’Efisio.

 Da sopra il gippone antidiluviano

 ci ha franato verso il piano.

           

 


 



[1] Si allude a Sant’Efisio che, si racconta ,abbia salvato i cagliaritani dalla peste.


 

domenica 27 dicembre 2020

Il fiume vero da Quot dies di Bianca Mannu

Preambolo narrativo di Bianca
Quando nel mio libro di seconda classe leggevo di fiumi e barche, di fiumi dove l'acqua frusciava e mulinava, di ponti su quei fiumi sopra i quali viaggiavano anche i treni e le auto, la mia immaginazione si smarriva in qualche rara immagine e in cuor mio invidiavo coloro cui era possibile godere di simili esperienze. Mi guardavo intorno: non c'erano che strade assolate o fangose nel mio paese! Un fiume? Come poteva essere grande? Che colore poteva avere l'acqua? E c'erano le case lungo il greto? E i bambini che vi abitavano potevano liberamente giocare nell'acqua?
C'incamminammo verso la campagna noi scolari di seconda, con la maestra. Il sito era noto col nome di Sermenta e lì avremmo trovato un "fiume". Che delusione! Non era che un acquitrino! L'acqua bassissima stagnava in più punti. In qualche altro punto, intorno ai sassi e dove c'era un alvo più profondo, (l'acqua copriva i nostri piedi curiosi e poteva oltrepassare i malleoli) aveva un moto delicato, leggermente pulsante. Non c'erano vigne intorno, quindi il nome del luogo non si riferiva ai tralci della vite, ma ad altre piante come rovi, rose canine, sambuchi e una quantità di giunchi  che venivano mietuti per fare cesti. La maestra disse che era un torrente in magra. Ma per me non era fiume. Il "fiume vero", per così dire, lo scoprii due anni dopo, quando dovetti risiedere per un intero anno scolastico nel paese dei nonni.
E' ben vero che vi avevo risieduto per settimane, ma sempre d'estate. E d'estate non vedevo altro che una cunetta d'acqua marcia. E non mi facevo domande circa la funzione di un ponte che si diceva fosse romano, il quale scavalcava il dirupo sul cui fondo vedevo la stupida gora. Ma sopra di esso passavano carri mandrie e io stessa sul calesse del nonno che veniva a prelevarmi alla stazione dei treni situata sul pianoro a trecento metri sopra il paese. Ma quell'inverno, tra il 1949 e il 1950, io ebbi contatti ravvicinati con qualcosa che in certi tratti poteva rassomigliare un poco al classico fiume dei libri, avendolo seguito fisicamente in certe sue anse campestri e per i tempi delle sue evoluzioni stagionaliIn quell'esperienza e in quel ricordo si radicano le  impressioni che, nel testo poetico seguente, si organizzano a formare, piuttosto che le immagini realistiche del così detto fiume, la metafora del mio sentimento della vita in età ancora giovanile.  

                                    IL “FIUME VERO

 

Abbracciando rotondità

bianche di ciottoli,

andava il “fiume vero”.

Scioglieva, modestamente sommesso,

un chiacchierio d’acque basse

nella chiarità selenica

d’argini senza memoria d’erbe,

rassegnati alla falcidia metallica

della solarità incombente.

Soffriva con bonaccia sospetta

la seduzione bifida d’un ponte

rozzamente arcionato alle anche

per un connubio forzato,

da cui usciva indenne,

il fiume, rabbrividendo

di luci moltiplicate

nei cauti guizzi prospettici.

E fra gobbe si perdeva

di corrugamenti brulli

spatolati d’opunzie,

aggiogando l’occhio –

infantilmente aguzzato –

alla divinazione misterica

d’un canneto o d’un anfratto

ansioso di nozze clandestine

con l’umidore indocile

di vena assottigliata

saviamente rapita – consenziente –

all’aerea voracità

di bianca luce ventosa.

O forse la pupilla contratta

del mare auspicava

tranquillo l’agguato.

Ma il volo dei corvi

annunciava elicoidale

la ricorrenza imminente

della siccità deprecata;

e la prossimità del mare,

intuita nella melma

salmastra dei pozzi,

uno sfregio restava

d’inattingibile freschezza.

Vinta la frode, imposta

dal denotato libresco,

adesso il “mio fiume” esibiva

sopra il nome lo schiaffo:

l’esistenza ribelle di borro.

Se ora mostrava ad incanto

l’obliqua castità di mandorlo

in fioritura sterilmente precoce,

la sassaia calcinata del greto,

muta, narrava discontinua irruenza

di predaci piovaschi autunnali.

 

 





 

sabato 19 dicembre 2020

Il sogno di una cosa - Bianca Mannu

IL SOGNO D’UNA COSA

 

Troppo chiaro il giorno:

raffiche di luce

sulla fatica di fare

e sull’occhio torbido

di tinte abituali.

Di qua dal mare aperto

e dai deserti

i duri prodigi

del bisogno stringente

orchestrano usuali

gesti e suoni

nell’alterno fuggire

e tornare del sole.

 

Persino gli orrori,

impastati

con pane e saliva,

abitano la bonomia

familiare dei nomi

gridati nei vicoli,

e quelli, additando,

ancora concertano

eventi d’uomini e cose

sempre – già detti

e un poco già vissuti.

 

Ma la notte …

solo la notte

ha occhi di stelle!

Ma la notte,

notte del Sud,

nascendo vetrosa

dalla spenta luce,

s’ingravida di prodigi

orfani dei bagliori

accecanti del giorno;

e sosta in attesa

sulla soglia degli occhi,

davanti alla bocca

di miele inatteso …

E il sogno,

concrezione spettrale

di speranze tenaci,

insiste sul fondo scuro

della luce assente.

 











 

mercoledì 25 novembre 2020

- Foemina - inedita di Bianca Mannu


Foemina

                                                                       Senza  volerlo

                nacque

Nel nascere  bagnò

con l’urina 

il suo primo vagito

Padre e madre

si tennero avvertiti

ch’era – pazienza! - una bambina

dalla naia indenne

non dalle trappole bastarde …

 

Così padre e madre

si spartirono a quarti

mezza gioia acerba:

che lei potesse eludere

la sorte trepidante e obliqua

tesa a misura di lumi sospesi

come doni feroci

all’ala notturna della morte

 

Lei - esclusa la tiepida poppata  -

di gioia non ne ebbe alcuna –

solo il morso freddo d’un febbraio

di piombo e di mitraglia

E non s’avvide dell’ottuso gioco

dell’alternativa avara

 

Per una ed altre lei

scampate alla mattanza universale

la morte sarebbe arrivata

in mimesi – senza bagliori – in vita

e a poco a poco

 


 

Noticina - Un mio testo, di qualche anno fa, rielaborato al di fuori delle occasioni esterne. Benché i rituali abbiano la loro importanza, non li amo. Non amo nemmeno gli accenti vittimistici, perché sembrano attribuire fatalità e inamovibilità a condizioni diffuse, sottilissime, dall'apparenza psicologica anodina, ma ambiguamente costrittive perché si presentano come libere scelte. Esse sono iscritte in un clima generale, che trova nella sordità giuridica, politica, sociale e culturale la perpetuazione della più ancestrale demarcazione della perseguita e organizzata minorità femminile. 

Non ascoltarti, o donna, quando più rassomigli alle immagini che ti vengono proposte come autentiche, come  tue con l'approvazione generale. Usa il senso critico, anche quando ami.




Simbolo matematico di infinito, tanto simile al simbolo scelto per rappresentare la femminilità contemporanea. 

lunedì 9 novembre 2020

Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu

 

 Nel mio articolo precedente ho indicato nella nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.

Quale sarà mai stato il tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del percorso attuale,(fase due, morbida o durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo “spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.

Già se ne percepiscono i rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a conteggiare i propri utili (dato che non potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al sostegno verso i più diseredati). Vorrà  risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi margini di fronte alle persone che sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto paradisiache o, per così dire, niente affatto  umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza trasformatrice che inerisce  la massa degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata, vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale inutile, chiudiamo i ranghi!

Non vado oltre. Voglio andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio periferico. Com’era il loro “prima” ?

Esemplifico e semplifico, chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque, caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media, suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria del bisogno del “tu” solitario  si coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come moltitudine temibile.

Torno al «tu»: non hai un lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh,  adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando piove …  I tuoi familiari e tu stesso potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto.   Molto del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati “benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …   

 La povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla vista dei più, così  le crisi di coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.   

Evito di fare riferimento a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano  nella piccola illegalità, cioè quella ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di tutti (anche dei benestanti che non si ritengono mai tali) e lascia spazi (più presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.

Il demagogo è sempre pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze antropologiche ineguagliabili, purtroppo  decidue, precarie per causa e colpa di quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì, perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito, magari scientifico!)   

 

 Perché la precarietà è il denominatore comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica, come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da noi.  E se per il magnate il senso di precarietà  surclassa di parecchio il suo spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità del suo essere fisico … e molto prima  che  il dissesto esistenziale abbia compiuto il suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le leggi e la cultura pongono a suo subordine.

Tale il sentimento che anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di  arginare l’incombente senso di perdita che fa tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e generazionale.

La libertà è una spinta che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già dentro una classe, un ceto.  Ed è la società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli, a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.    

Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e doppia tragedia, sanitaria ed  economica in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale  (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica)  su cui rifondarsi per poter uscire dalla tempesta con danni contenuti.

Da qui si zompa sul problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè  sulla necessità di formare adeguatamente le teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti esistenti.

Costoro esprimono il ceto politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.   

Tanto per dirla tutta, come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti, per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili nelle categorie più immediate del profitto privato.    

L’attuale compagine di governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere  una parziale responsabilità nell’aver colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei confronti della sua storia e del suo antico elettorato.    

martedì 3 novembre 2020

Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu

 

Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci  sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.

Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.

 Allorché un evento inatteso, macroscopico e pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di conflitti malsani  e con tentativi più o meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise disposizioni.

È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso: prima e dopo.

 Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del “prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche tratto  che simboleggia e ricopre il tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.

L’altro senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.

Questo tempo  è come quello che lo scrittore Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito circa settant’anni  or sono, ma vivo come fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale. 

Noi siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo,  la sua specifica temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del “prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece  procede per cinquanta e più sfumature di grigio.  

 Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di accettare  le politiche di solidarietà sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.

Detto ciò, andrebbe sottolineata  l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà, le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle terapie. Diversi studi condotti  negli Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.

Il nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte

Sul persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e al crescere di economie distorcenti. 

Poiché le possibilità di altre pandemie (già questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo profitto.

Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di  organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale  più matura e responsabile, governeranno meglio  i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.

Ma occorre  cominciare ora e non riaprire le vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione (non premiale) dell’evasione fiscale. Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione, avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro debito.

 

 

lunedì 21 settembre 2020

Lei - da "Camilla" racconto edito di B.Mannu

 

Lei

 Fu in tale turbine di pensieri che “lei” entrò, visibilmente claudicante, scortata dal notaio, in quella stanza piena di scaffali antichi e di retaggi professionali. Mi diede l’impressione di una piccola falena entrata lì per inganno, tanto mi parve incolore e impacciata. Timidamente mi mise a fuoco dentro quei suoi grandi occhi iridescenti come prati al trapasso di stagione, poi chinò lo sguardo sulle proprie scarpe.  Per successivi attimi ciascuno, sollevando di nascosto le palpebre sul volto altrui, cercò  i segni visibili del proprio, senza riuscirvi. E quando, cioè quasi subito, il legale con gesto formale ripeté i nostri rispettivi nomi, ci sparammo l’un l’altra una seconda occhiata e, tendendoci reciprocamente la destra, accompagnammo il suono dei nomi con certi scotimenti del capo, come per l’azione di un cordino che un’entità impalpabile avesse strattonato dietro ciascuno. Preso posto su certi scranni di stile indefinibile, espletate alcune formalità annunciate, scambiati i ringraziamenti e stabilito un colloquio a tre a esequie concluse, il notaio, nel dirci che potevamo fraternizzare in tutta tranquillità nel luogo occupato, guadagnò l’ambiente attiguo chiudendo l’uscio alle sue  spalle.

Fummo ghermiti da un silenzio atroce. Ciascuno a fissare le proprie mani abbandonate sul grembo. Di colpo una pendola monumentale seminascosta tra un armadio e uno scaffale ci tolse dall’imbarazzo prorompendo in uno scampanio del tutto inatteso. Sussultammo all’unisono. E lì ci vinse una specie di riso irrefrenabile e insensato che ci obbligò seduta stante a rifugiarci in una curiosa quanto gratuita complicità. Lei poi avvampò, si levò e disse “devo andare”. Io, automaticamente, le andai dietro.


Nota - E da quel punto intuire l'improponibilità e l'impossibilità di tornare indietro. (B.M.)

giovedì 3 settembre 2020

UN GIORNO ... buono - inedita di Bianca Mannu

 

Un giorno … buono

 

Oggi – alba qualunque di questa strana estate

uscita cionca dagli assalti covid –

tu beatamente indenne – il tuo pacchetto

d’anni sulle spalle – leggère per non sgradita solitudine –

tu – signora delle tue chiavi e del tuo tempo

salvato alla beatitudine d’un tempo ritrovato …

Tu forse il richiamo hai colto della prima luce: eccola

sfiorare la caligine del mare semiaddormentato

 

Non suono di voci sulla spiaggia – palpebra dorata

e fremiti di ciglia ancor bagnate di notturno …

Non so se hai titubato – se un languore strano

ha fatto molle o ha affrettato il tuo cammino –

certo col respiro dell’onda hai respirato

la sua cadenza murmure d‘incanto

Succede ai solitari con molta vita alle spalle

di aderire a richiami  insoliti e segreti

 

Hai respirato con l’aria – quasi ti fosse poco –

la rete di luce che il sole nell’acqua cristallina disegnava

e di nuovo il tuo petto s’è prestato

all’invito imperativo del mattino

E tu – non si sa come né con quale decisione –

certo ebbra d’assoluto – sei andata dietro

al tuo respiro in fuga verso l’infinito

Così smaniosa e unica bagnante l’hai rincorso …

 

T’ha abbracciato l’acqua sostenendo il tuo corpo

abbandonarsi cullante alla sua nenia

Come una bagnante appassionata e assorta

sei apparsa all’occhio interrogante

dei solitari sopraggiunti e incerti

 

Dopo : mistero inquietante sotto un drappo bianco

all’ombra di un parasole di spettanza

 

Son certa – per quanto poco ti conosca – che hai colto

intera – forse con una fitta al cuore – questa ricchezza

che sapendo hai voluto - che più non sai.  

venerdì 12 giugno 2020

Nel buio di Dio - testo inedito di Bianca Mannu



Noticina – Una fiaba triste a memoria di questo triste evento che ne replica altri, inenarrabili.  Com’è possibile credere alla menzogna  secondo la quale, qualora tu venga preso e ucciso dalla legge nella persona  di una pattuglia di poliziotti, la colpa è solo tua e l’esito te lo sei cercato? Conta niente se quasi il 50% di una popolazione mista è considerato fonte di criminalità? E com’è che quella di pelle nera  è formata dai più poveri ammassati nei ghetti?

Nel buio di Dio

O vecchio Dio - chi glauco e canuto
ti dipinse il volto - la tua deità
restrinse in un modello ambiguo
e me – come Nonhomo - rinchiuse
in questa scorza  corvina
a indelebile marchio di ferino
A prova riluce ancora sulla pelle
l’ancestrale obbligo allo stento

Non più celato  –  ma sempre delittuoso –
il pur nero capriccio insiste ostinato
a uscire dalla negazione
per conseguire l’umano nelle sue pendici -
spoglia perduta nell’inganno d’inizio
Mai l’esule schiatta degli Albini –
smemorati e alieni di loro tristi eventi –
tanto ha deriso ed è ferocemente avversa
a così paradossale sogno!

In un giorno come tanti - negligenza
e pandemico squallore segnano
d’un assurdo più assurdo
l’esistenza dei molti bipedi destinati
alle ripetute scazzottate di “no”
disposti dai poteri in repliche
 di controlli e scremature …

Un acquario d’ombre - la città -
Stomaci vuoti febbri solitudini
medicina esosa e tanta morte …
velocemente ratificata …  in prosa
È già stampato nei cervelli omologati
lo stereotipo più comune e fastidioso
inconfondibile per ceto ed etnia:
a sciolti drappelli sciama scazzato
“in bambola” dagli slum delle periferie

Frizza l’aria ferma delle brulle strade
armate di sbirri macchinati
esperti di caccia - celeri a spiccare
dai soggetti più smarriti e offesi
 inconfutabili indizi e “prove”
per possibili incriminazioni

Eccola!Una lava si getta su me inerte 
che un po’ sono strippato – vuote le mani
e molli – ché un po’ paio allupato  …
… una  lava! d’un lento insopportabile –
più nera del mio nero umore
più nera dell’improvviso mio terrore
dietro la coda mozza del mio …carrr… burrr…atorrreee

Spietatamente rauco il risucchio
costretto a conficcarsi nella strozza
 e a spaccare le ghirbe – subito pazze - del corpo …
 Morire – Dio! – Dura a lungo  morire
 perché il cervello non ci crede –
non vuole ubbidire al comando
d’un ginocchio sul collo - e “conosce” …
Conosce? - Dio! Cos’è “conoscere”?

Non passa luce - nessuna nobiltà
scintilla nello sgranare una per una
l’infinita sequela distruttiva
di cellule di sangue e d’organi inquieti
in un corpo repentinamente  ai ceppi
- indocile resiste perché vivo -
mentre vorresti già da morto
esser passato oltre la dogana

Adesso - a forza privato di respiro -
sono al Tuo Buio giunto – arriva a me
dal mondo il mio nerume in suono
come un sole che grida nascendo
nuovo e virulento dalla bruna terra
Piangerei – se potessi – la sventura
di non essere presente di persona

Simile in nulla è l’opulento
Ufficio in terra consacrata
alla mia sporca vita! 
Stava in quest’ultimo esproprio
forse celato dei miei vuoti giorni
il senso - che mi chiama in causa
senza riguardarmi?

E qui - nel tuo Altrove di nulla - sparisce
come di ragione – il me Altro di niente
con l’io Primo che ancora si consuma bianco …
Tutto qui torna uguale all’indicibile
- né hai tu viso mani barba ed età 
     (così la cosa inscatolata sotto il mio nome!)
di cui si possa da questa Buia Soglia
ad alcuno - per vero - raccontare.