domenica 27 dicembre 2020

Il fiume vero da Quot dies di Bianca Mannu

Preambolo narrativo di Bianca
Quando nel mio libro di seconda classe leggevo di fiumi e barche, di fiumi dove l'acqua frusciava e mulinava, di ponti su quei fiumi sopra i quali viaggiavano anche i treni e le auto, la mia immaginazione si smarriva in qualche rara immagine e in cuor mio invidiavo coloro cui era possibile godere di simili esperienze. Mi guardavo intorno: non c'erano che strade assolate o fangose nel mio paese! Un fiume? Come poteva essere grande? Che colore poteva avere l'acqua? E c'erano le case lungo il greto? E i bambini che vi abitavano potevano liberamente giocare nell'acqua?
C'incamminammo verso la campagna noi scolari di seconda, con la maestra. Il sito era noto col nome di Sermenta e lì avremmo trovato un "fiume". Che delusione! Non era che un acquitrino! L'acqua bassissima stagnava in più punti. In qualche altro punto, intorno ai sassi e dove c'era un alvo più profondo, (l'acqua copriva i nostri piedi curiosi e poteva oltrepassare i malleoli) aveva un moto delicato, leggermente pulsante. Non c'erano vigne intorno, quindi il nome del luogo non si riferiva ai tralci della vite, ma ad altre piante come rovi, rose canine, sambuchi e una quantità di giunchi  che venivano mietuti per fare cesti. La maestra disse che era un torrente in magra. Ma per me non era fiume. Il "fiume vero", per così dire, lo scoprii due anni dopo, quando dovetti risiedere per un intero anno scolastico nel paese dei nonni.
E' ben vero che vi avevo risieduto per settimane, ma sempre d'estate. E d'estate non vedevo altro che una cunetta d'acqua marcia. E non mi facevo domande circa la funzione di un ponte che si diceva fosse romano, il quale scavalcava il dirupo sul cui fondo vedevo la stupida gora. Ma sopra di esso passavano carri mandrie e io stessa sul calesse del nonno che veniva a prelevarmi alla stazione dei treni situata sul pianoro a trecento metri sopra il paese. Ma quell'inverno, tra il 1949 e il 1950, io ebbi contatti ravvicinati con qualcosa che in certi tratti poteva rassomigliare un poco al classico fiume dei libri, avendolo seguito fisicamente in certe sue anse campestri e per i tempi delle sue evoluzioni stagionaliIn quell'esperienza e in quel ricordo si radicano le  impressioni che, nel testo poetico seguente, si organizzano a formare, piuttosto che le immagini realistiche del così detto fiume, la metafora del mio sentimento della vita in età ancora giovanile.  

                                    IL “FIUME VERO

 

Abbracciando rotondità

bianche di ciottoli,

andava il “fiume vero”.

Scioglieva, modestamente sommesso,

un chiacchierio d’acque basse

nella chiarità selenica

d’argini senza memoria d’erbe,

rassegnati alla falcidia metallica

della solarità incombente.

Soffriva con bonaccia sospetta

la seduzione bifida d’un ponte

rozzamente arcionato alle anche

per un connubio forzato,

da cui usciva indenne,

il fiume, rabbrividendo

di luci moltiplicate

nei cauti guizzi prospettici.

E fra gobbe si perdeva

di corrugamenti brulli

spatolati d’opunzie,

aggiogando l’occhio –

infantilmente aguzzato –

alla divinazione misterica

d’un canneto o d’un anfratto

ansioso di nozze clandestine

con l’umidore indocile

di vena assottigliata

saviamente rapita – consenziente –

all’aerea voracità

di bianca luce ventosa.

O forse la pupilla contratta

del mare auspicava

tranquillo l’agguato.

Ma il volo dei corvi

annunciava elicoidale

la ricorrenza imminente

della siccità deprecata;

e la prossimità del mare,

intuita nella melma

salmastra dei pozzi,

uno sfregio restava

d’inattingibile freschezza.

Vinta la frode, imposta

dal denotato libresco,

adesso il “mio fiume” esibiva

sopra il nome lo schiaffo:

l’esistenza ribelle di borro.

Se ora mostrava ad incanto

l’obliqua castità di mandorlo

in fioritura sterilmente precoce,

la sassaia calcinata del greto,

muta, narrava discontinua irruenza

di predaci piovaschi autunnali.

 

 





 

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