Preambolo narrativo di Bianca
Quando nel mio libro di seconda classe leggevo di fiumi e barche, di fiumi dove l'acqua frusciava e mulinava, di ponti su quei fiumi sopra i quali viaggiavano anche i treni e le auto, la mia immaginazione si smarriva in qualche rara immagine e in cuor mio invidiavo coloro cui era possibile godere di simili esperienze. Mi guardavo intorno: non c'erano che strade assolate o fangose nel mio paese! Un fiume? Come poteva essere grande? Che colore poteva avere l'acqua? E c'erano le case lungo il greto? E i bambini che vi abitavano potevano liberamente giocare nell'acqua?
C'incamminammo verso la campagna noi scolari di seconda, con la maestra. Il sito era noto col nome di Sermenta e lì avremmo trovato un "fiume". Che delusione! Non era che un acquitrino! L'acqua bassissima stagnava in più punti. In qualche altro punto, intorno ai sassi e dove c'era un alvo più profondo, (l'acqua copriva i nostri piedi curiosi e poteva oltrepassare i malleoli) aveva un moto delicato, leggermente pulsante. Non c'erano vigne intorno, quindi il nome del luogo non si riferiva ai tralci della vite, ma ad altre piante come rovi, rose canine, sambuchi e una quantità di giunchi che venivano mietuti per fare cesti. La maestra disse che era un torrente in magra. Ma per me non era fiume. Il "fiume vero", per così dire, lo scoprii due anni dopo, quando dovetti risiedere per un intero anno scolastico nel paese dei nonni.
E' ben vero che vi avevo risieduto per settimane, ma sempre d'estate. E d'estate non vedevo altro che una cunetta d'acqua marcia. E non mi facevo domande circa la funzione di un ponte che si diceva fosse romano, il quale scavalcava il dirupo sul cui fondo vedevo la stupida gora. Ma sopra di esso passavano carri mandrie e io stessa sul calesse del nonno che veniva a prelevarmi alla stazione dei treni situata sul pianoro a trecento metri sopra il paese. Ma quell'inverno, tra il 1949 e il 1950, io ebbi contatti ravvicinati con qualcosa che in certi tratti poteva rassomigliare un poco al classico fiume dei libri, avendolo seguito fisicamente in certe sue anse campestri e per i tempi delle sue evoluzioni stagionali.
In quell'esperienza e in quel ricordo si radicano le impressioni che, nel testo poetico seguente, si organizzano a formare, piuttosto che le immagini realistiche del così detto fiume, la metafora del mio sentimento della vita in età ancora giovanile. IL “FIUME VERO”
bianche di
ciottoli,
andava il
“fiume vero”.
Scioglieva,
modestamente sommesso,
un chiacchierio
d’acque basse
nella chiarità
selenica
d’argini senza
memoria d’erbe,
rassegnati alla
falcidia metallica
della solarità
incombente.
Soffriva con
bonaccia sospetta
la seduzione
bifida d’un ponte
rozzamente
arcionato alle anche
per un connubio
forzato,
da cui usciva
indenne,
il fiume,
rabbrividendo
di luci
moltiplicate
nei cauti
guizzi prospettici.
E fra gobbe si
perdeva
di corrugamenti
brulli
spatolati
d’opunzie,
aggiogando
l’occhio –
infantilmente
aguzzato –
alla
divinazione misterica
d’un canneto o
d’un anfratto
ansioso di
nozze clandestine
con l’umidore
indocile
di vena
assottigliata
saviamente
rapita – consenziente –
all’aerea
voracità
di bianca luce
ventosa.
O forse la
pupilla contratta
del mare
auspicava
tranquillo
l’agguato.
Ma il volo dei
corvi
annunciava
elicoidale
la ricorrenza
imminente
della siccità
deprecata;
e la prossimità
del mare,
intuita nella
melma
salmastra dei
pozzi,
uno sfregio
restava
d’inattingibile
freschezza.
Vinta la frode,
imposta
dal denotato
libresco,
adesso il “mio
fiume” esibiva
sopra il nome
lo schiaffo:
l’esistenza
ribelle di borro.
Se ora mostrava
ad incanto
l’obliqua
castità di mandorlo
in fioritura
sterilmente precoce,
la sassaia
calcinata del greto,
muta, narrava
discontinua irruenza
di predaci
piovaschi autunnali.
Nessun commento:
Posta un commento