giovedì 31 dicembre 2020

I miracoli di Bachisio - dalla silloge Dove trasvola il falco - Bianca Mannu

Capodanno 2001- 2002

Barbagia innevata. Un terzetto di amiche decidono di salutare il vecchio anno e di accogliere il nuovo sulla neve barbaricina. Fu così che il gestore dell'hotel le condusse in montagna dove sperimentarono gli effetti emotivi di una vera e propria tormenta. Parecchia adrenalina sul momento, ma l'esito fu relativamente felice. Il tono della composizione è da filastrocca. L'acrostico reca il nome non italianizzato della persona: Bachis. Molto diffuso nella zona.

 Miracoli di Bachisio

 E meno male che c’era Bachisio

che di - miracoli ne fa quanto Efisio.

Faceto raccontava questo e quello

ma non cedeva d'un solo capello!


 Bordeggiava i dirupi con la gip -  e …

A salti sgommando doppiava i tornanti

Chiamandosi in gara con la gravità e col vento …

Hi! Ohi, mamma! Ah!- noi vedevamo tutto il firmamento.

In quella trappola di ferri tonanti

Si ballava – noi - come baccanti!

  

E meno male che c’era Bachisio

Che - di miracoli - ne fa più d’Efisio.

 Da sopra il gippone antidiluviano

 ci ha franato verso il piano.

           

 


 



[1] Si allude a Sant’Efisio che, si racconta ,abbia salvato i cagliaritani dalla peste.


 

domenica 27 dicembre 2020

Il fiume vero da Quot dies di Bianca Mannu

Preambolo narrativo di Bianca
Quando nel mio libro di seconda classe leggevo di fiumi e barche, di fiumi dove l'acqua frusciava e mulinava, di ponti su quei fiumi sopra i quali viaggiavano anche i treni e le auto, la mia immaginazione si smarriva in qualche rara immagine e in cuor mio invidiavo coloro cui era possibile godere di simili esperienze. Mi guardavo intorno: non c'erano che strade assolate o fangose nel mio paese! Un fiume? Come poteva essere grande? Che colore poteva avere l'acqua? E c'erano le case lungo il greto? E i bambini che vi abitavano potevano liberamente giocare nell'acqua?
C'incamminammo verso la campagna noi scolari di seconda, con la maestra. Il sito era noto col nome di Sermenta e lì avremmo trovato un "fiume". Che delusione! Non era che un acquitrino! L'acqua bassissima stagnava in più punti. In qualche altro punto, intorno ai sassi e dove c'era un alvo più profondo, (l'acqua copriva i nostri piedi curiosi e poteva oltrepassare i malleoli) aveva un moto delicato, leggermente pulsante. Non c'erano vigne intorno, quindi il nome del luogo non si riferiva ai tralci della vite, ma ad altre piante come rovi, rose canine, sambuchi e una quantità di giunchi  che venivano mietuti per fare cesti. La maestra disse che era un torrente in magra. Ma per me non era fiume. Il "fiume vero", per così dire, lo scoprii due anni dopo, quando dovetti risiedere per un intero anno scolastico nel paese dei nonni.
E' ben vero che vi avevo risieduto per settimane, ma sempre d'estate. E d'estate non vedevo altro che una cunetta d'acqua marcia. E non mi facevo domande circa la funzione di un ponte che si diceva fosse romano, il quale scavalcava il dirupo sul cui fondo vedevo la stupida gora. Ma sopra di esso passavano carri mandrie e io stessa sul calesse del nonno che veniva a prelevarmi alla stazione dei treni situata sul pianoro a trecento metri sopra il paese. Ma quell'inverno, tra il 1949 e il 1950, io ebbi contatti ravvicinati con qualcosa che in certi tratti poteva rassomigliare un poco al classico fiume dei libri, avendolo seguito fisicamente in certe sue anse campestri e per i tempi delle sue evoluzioni stagionaliIn quell'esperienza e in quel ricordo si radicano le  impressioni che, nel testo poetico seguente, si organizzano a formare, piuttosto che le immagini realistiche del così detto fiume, la metafora del mio sentimento della vita in età ancora giovanile.  

                                    IL “FIUME VERO

 

Abbracciando rotondità

bianche di ciottoli,

andava il “fiume vero”.

Scioglieva, modestamente sommesso,

un chiacchierio d’acque basse

nella chiarità selenica

d’argini senza memoria d’erbe,

rassegnati alla falcidia metallica

della solarità incombente.

Soffriva con bonaccia sospetta

la seduzione bifida d’un ponte

rozzamente arcionato alle anche

per un connubio forzato,

da cui usciva indenne,

il fiume, rabbrividendo

di luci moltiplicate

nei cauti guizzi prospettici.

E fra gobbe si perdeva

di corrugamenti brulli

spatolati d’opunzie,

aggiogando l’occhio –

infantilmente aguzzato –

alla divinazione misterica

d’un canneto o d’un anfratto

ansioso di nozze clandestine

con l’umidore indocile

di vena assottigliata

saviamente rapita – consenziente –

all’aerea voracità

di bianca luce ventosa.

O forse la pupilla contratta

del mare auspicava

tranquillo l’agguato.

Ma il volo dei corvi

annunciava elicoidale

la ricorrenza imminente

della siccità deprecata;

e la prossimità del mare,

intuita nella melma

salmastra dei pozzi,

uno sfregio restava

d’inattingibile freschezza.

Vinta la frode, imposta

dal denotato libresco,

adesso il “mio fiume” esibiva

sopra il nome lo schiaffo:

l’esistenza ribelle di borro.

Se ora mostrava ad incanto

l’obliqua castità di mandorlo

in fioritura sterilmente precoce,

la sassaia calcinata del greto,

muta, narrava discontinua irruenza

di predaci piovaschi autunnali.

 

 





 

sabato 19 dicembre 2020

Il sogno di una cosa - Bianca Mannu

IL SOGNO D’UNA COSA

 

Troppo chiaro il giorno:

raffiche di luce

sulla fatica di fare

e sull’occhio torbido

di tinte abituali.

Di qua dal mare aperto

e dai deserti

i duri prodigi

del bisogno stringente

orchestrano usuali

gesti e suoni

nell’alterno fuggire

e tornare del sole.

 

Persino gli orrori,

impastati

con pane e saliva,

abitano la bonomia

familiare dei nomi

gridati nei vicoli,

e quelli, additando,

ancora concertano

eventi d’uomini e cose

sempre – già detti

e un poco già vissuti.

 

Ma la notte …

solo la notte

ha occhi di stelle!

Ma la notte,

notte del Sud,

nascendo vetrosa

dalla spenta luce,

s’ingravida di prodigi

orfani dei bagliori

accecanti del giorno;

e sosta in attesa

sulla soglia degli occhi,

davanti alla bocca

di miele inatteso …

E il sogno,

concrezione spettrale

di speranze tenaci,

insiste sul fondo scuro

della luce assente.