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martedì 18 settembre 2018

GLI ADOLESCENTI (ma non solo) E LA RETE - di Bianca Mannu


Che differenza c’è tra i recenti fatti clamorosi e tragici avvenuti in riferimento alla Rete e altri giovanili ugualmente clamorosi e tragici, non immediatamente collegabili ad essa?
Nessuna che sia fondamentale, secondo me, se ci si colloca a debita distanza dei pur facili psicologismi. La motivazione sottesa ai comportamenti con esiti luttuosi sembra quella determinata dall’impulso a imitare un gesto inusuale, proibitivo (espressione di una sorta di volontà di potenza), unita alla pressante attrazione per la visibilità connotante(narcisismo secondario), la più ampia possibile, agli occhi del gruppo di riferimento (social, gruppi locali)  e a quello più vasto dei coetanei affacciati sui vari portali (Rete). 
 Inserirei in questo contesto anche le più inquietanti e deleterie attività delle baby gang che sono mosse da intenti di stampo mafioso, ma ben più pericolosamente collegate con le attività delinquenziali omologhe di gruppi adulti.
Nel caso di queste ultime la società reagisce in modo autoritario, valuta la possibilità educativa o rieducativa coercitiva, si appella al volontariato (insegnanti di strada, associazioni sportive, ecc.), considera  problematicamente precoci trapianti familiari, poi dimentica il problema, in quanto eclissato da altri e tale che l’organizzazione politico-sociale esistente risulta, rispetto ad esso, del tutto impotente, come se quei criminali in erba fossero “i vuoti a perdere”, posti tacitamente nel conto delle spese ascrivibili al meccanico processo di riproduzione sociale.
Apparentemente diversa è la risposta, diciamo, collettiva, verso i casi singoli indicati nei media (il ragazzo che si soffoca, l’altro che s’è giocato la vita per un selfie, altri che hanno voluto provare altre orribili gioie) … Casi che, a mio avviso,hanno qualche caratteristica comune anche con il più diffuso bullismo adolescenziale.
Questo, com’è noto, prospera anche fra soggetti “di buona famiglia”. Già: è questo tratto che ci sconvolge tutti: com’è possibile che fanciulli ben allevati e ben educati in case confortevoli creino situazioni di grave complicazione per sé e per altri, con conseguenze spesso irreversibili? Che ne è dei nostri “valori”?
Nell’urgenza dell’emozione, nel desiderio apotropaico di scongiurare  ulteriori imitazioni e contagi, nel bisogno di dare un nome alle presunte o probabili cause, ci interroghiamo e sollecitiamo responsi dagli esperti.
È colpa della Rete? La Rete è un mezzo, si dice. Essa è, come tale, un mezzo pressoché neutro rispetto alle nostre scelte. Da ciò deriva che servirsi di essa in modo accettabile implica un lavoro educativo a monte sui soggetti che ne fanno maggior uso. E qui si va a scoprire un’ampia platea di adulti  che, una volta superati gli scogli tecnici iniziali, resta completamente irretita dalle suggestioni della Rete e dimostra una straordinaria debolezza nei confronti di ciò che vi scorre, al punto che troppi padri e madri si smarriscono volentieri nei suoi vicoli, vi istituiscono relazioni fasulle e vi “guadagnano” incautamente insperati revival adolescenziali e persino esiti di sconcertante puerilità e pericolosità, ivi compreso il bullismo adulto, pedagogicamente produttivo, appunto.   
Salta fuori che l’insopprimibile problematicità della fase adolescenziale, col suo
corredo di incertezze dell’io,  trova sponda in uno spaesamento più generale.
Ne nasce uno sciame di inchieste, tavole rotonde, trasmissioni e discussioni, anche in Rete, che immancabilmente sfociano nel richiamo a un “dover essere” opinabile, debole.  
I primi agenti della socializzazione e inculturazione  richiamati al loro ruolo sono i genitori e la scuola rappresentata per lo più nella persona dei suoi docenti. Queste figure sono riproposte e vissute come l’origine dei problemi, in quanto depositari incapaci o renitenti al loro impegno educativo etico e forse sociale: sono colpevolmente superficiali, sono impreparati, sono egoisticamente presi dalle loro difficoltà personali e perciò non credibili come modelli di riferimento.
Analogamente, dei giovani si dice che sono al contempo soli (e vogliono essere tali rispetto agli agenti educativi visti come limitanti) e troppo subalterni ai giudizi e alle “ratio” dei gruppi di appartenenza diretta o in Rete, che sono dominati (come forse è normale che sia) dagli effetti ormonali (compreso il desiderio di essere considerati come pari agli adulti e forse di sopravanzarli in audacia), eccetera     
Nello sconcerto del momento si vanno a esaminare qua e ora gli stati evidenti delle relazioni interpersonali,quelle “calde” in abbandono,  e quelle “fredde”, telematiche, in progressiva diffusione, anche a causa del relativo isolamento individuale prodotto dal dislocamento territoriale dei cittadini dei grandi centri urbani e dalla rarefazione dei centri associativi giovanili gratuiti.
Molti sono i richiami etici ed educativi attivati in margine a tali fatti. Richiami certo
importanti  per acuire verso tali problemi la sensibilità sociale. E forse per circoscritte aree sociali funzionano, ma sono destinati a restare lettera morta per la generalità delle situazioni che li provocano. Perché la generalità (parola astratta che indica il sistema concreto di vivere e  di dividersi di una formazione sociale al proprio interno e verso altre) funziona in modo diverso da quanto dichiarano, per esempio, i sistemi valoriali conclamati dagli altari giuridici ed etico-politici, spesso richiamati e più spesso disattesi dai loro sacerdoti.
Si parla, per esempio, di ricupero educativo del valore della vita, quella vita propria o altrui facilmente posta in gioco da desideri di “godimento senza limiti” … Soffermiamoci un momento su questo lemma che ne richiama altri del tipo “emozioni senza eguali”…
Sono lemmi, eppure sono parole d’ordine interpretate in modi credibili da divi/e, scritte a mo’ di didascalie allusive di senso, come sottolineatura di rapidi ed eloquenti film apologetici che visivamente illustrano il godimento emotivo della libertà di lanciarsi a velocità fantastiche e spericolate, ma gioiose e fondate sulla certezza che il mezzo del lancio decide al nostro posto della nostra e altrui incolumità.
Sullo stesso piano di senso (demenziale!) viaggia la parola l’ordine per cui ci  si può connettere “senza limiti” con una platea imprecisata di persone , come se il tempo della vita propria e altrui fosse dissipabile in un “bavardage” infinito. E potrei continuare con infiniti esempi, dove la parola libertà viene imbastardita e ripetuta come sinonimo di poter fare ciò che si vuole in ogni momento, senza alcun riferimento al limite.
Provate a conteggiare quante volte il ragazzino, mollato sul divano di casa o affidato al rassicurante iphone, registrerà e connetterà in modo subliminale simili stupidaggini all’indeterminatezza dei propri desideri e fantasie gratuite, magari suggerite dalla noia infinita prodotta da tali comunicazioni.
Come potrà quello stesso ragazzino innamorarsi di una faticosa pagina scritta in una scalcagnata aula scolastica affollata di ragazzini altrettanto spiazzati dall’idea tutta nuova che non ci si può realmente appropriare di niente senza che si sia disposti a impegni ripetuti e pazienti?
- Ecco, direte voi, un esempio di genitore inadeguato!
Ben detto. Ma vi siete chiesti dove sia e che cosa faccia al momento quello stesso genitore? Forse frequenta un cantiere fantasma o una casa signorile da pulire o un magazzeno (se va bene!) per uno pseudo salario. E inoltre, c’è da chiedersi, si è mai impegnato il libero ordine sociale a far sì che quello stesso genitore possa contare sul supporto educativo perenne e diretto da parte di un’affidabile agenzia educativa gratuita per la propria prole? E ancora, vi siete chiesti se quel genitore poté fruire  di una formazione scolastica che abbia sviluppato in lui lo spirito di attenzione critica verso il senso di un’emissione  comunicativa o anche dell’emittente, tale da metterne in guardia i propri figli e abituarli a decodificare e distinguere?
Procedendo anche solo in direzione del senso di valore della vita , possiamo esimerci dall’interrogare i Gestori delle risorse  nelle vesti di privati, di gruppi padronali, persino di istituzioni deputate al controllo: che ne è di quel valore assoluto della vita di fronte al loro presupposto indicato come primario e assoluto: il perseguimento di profitto ad ogni costo?
Profitto realizzato anche col gioco alle scommesse sulla vita delle imprese, (leggi: Borsa Valori). Gioco che decide non che  la condizione sana della vita umana divenga termine primario, bensì che le pratiche produttive dannose alla vita della comunità umana hanno opzioni di favore perché lucrose. Gli esempi sono innumerevoli, ma filtrati dall’Informazione mondiale con pelosa cautela.
Cosa vado sostenendo, dunque? Non che la pubblicità o che l’imprenditoria in quanto tali siano da ritenere responsabili dei problemi …
Vado sostenendo che l’adolescente, bene educato o niente o male educato, intuisce la logica truffaldina che soggiace alle conclamate buone intenzioni valoriali, ma poi si butta nelle condizioni trovate nella vita e agisce a caso e sul momento, come ogni individuo forzato a disinteressarsi dell’altro, a porre se stesso, il proprio interesse immediato o il proprio non meditato piacere avanti a tutto, purtroppo nella maniera meno pensata che l’organizzazione sociale imprime in termini di anonimità fattuale, come un destino.       









sabato 3 giugno 2017

Folklore: specchio ingannatore


Riflessioni sull' articolo di Silvano Tagliagambe 
 L’eredità preziosa di Placido Cherchi in www.sardegnasoprattutto.com

"La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna, secondo Placido Cherchi, segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli." (citazione)

NOTA
L’articolo è interessante dall’inizio alla fine, perché ripartendo dal lavoro critico di Cherchi sul  rapporto tra arte, oggetto e significato, costituisce un forte richiamo a considerare le conseguenze culturali del totale sganciamento delle sue (dell'arte) forme dal “senso dell’esperienza “ e dal “valore dei suoi contenuti”. Diventando scienza delle forme come tali, l’arte si chiude nel cerchio autoreferenziale di una propria precaria semiologia che mette in scena, senza connettersi con altro, i propri trionfi. Ed è così – dice Tagliagambe – che si giunge alla “cancellazione della memoria”, alla perdita “del proprio passato” e dunque al dissolvimento della propria identità. Citando di nuovo Cherchi e De Martino, Tagliagambe lascia intendere che il senso dell’identità della civiltà occidentale, perseguìta come riproduzione e assolutizzazione dell’uguale e come impermeabilità al senso della differenza, è causa dello smarrimento dell’identità stessa o, quanto meno, della sua banalizzazione.
Tagliagambe non si sofferma a dare una spiegazione ulteriore su che cosa si intenda per identità; la quale, al lume del mio naso profano,  non può che riferirsi, in questo caso, all’autoconfigurazione di una formazione sociale per mezzo di condivise categorie comportamentali e di pensiero: la lingua, per esempio, le divinità e i riti, la mitologia, ma ancor prima, i modi di procurarsi da vivere, i ruoli sociali che da essi derivano e come s’incarnano nelle psicologie individuali, insomma il suo sacro e il suo profano.  
Per far capire come si formi e in che consista l’identità, il Filosofo fa riferimento alla conquista dell’immagine di sé da parte del bambino nella “fase dello specchio”, durante la quale egli “riconosce sé e ciò che gli appartiene”. Sembrerebbe che un simile procedimento si verifichi in riferimento a una formazione sociale.
Però dall’esempio citato, riesce arduo compiere il salto logico nel “la fase di identificazione” di natura sociale - così credo di capire,  e non saprei dire se collettiva oppure no - in corso in Sardegna, la quale segnerebbe il “rovesciamento di questo processo di appropriazione” … Cioè il suo fallimento?
Come dire che lo specchio non è nelle mani dei sardi stessi e che essi per incapacità e insipienza lo abbiano ceduto ad altri? A chi? Agli stranieri italioti colonizzatori, come diceva il Poeta*, oppure a una non meglio identificata industria culturale e politica, forse nazionale, ma anche transnazionale, che ne ha alterato la curvatura a proprio vantaggio? E che, se ho bene inteso, sia indispensabile che i Sardi ricusino, rovescino come aliena l’immagine folklorizzata  in cui sono indotti a riconoscersi, per altro vergognandosene?  Essa, come il ritratto di Dorian Gray, sarebbe infatti divenuta  una sorta di documento identitario impresentabile e depressivo, dove si sarebbero depositate le tracce di tutti i nostri tratti negativi del passato e del presente, e pertanto inibirebbe il minimo slancio verso il futuro.  Occorrerebbe disfarsene e, con un atto di ribellione, trasformarla nel suo opposto ricuperando la dimensione costruttiva del futuro.
Resta da capire il come, con quali strutture istituzionali o libere e a quali soggetti affidare il progetto per un nuovo corso, e come coinvolgere la generalità dei sardi, dato che la pratica delle arti e la pur illuminata critica teorica, cosi come il punto di vista critico della filosofia, e tutto quanto vischiosamente si muove nel campo della cultura alta e di base (con i suoi ceppi granitici) non riesce a raggiungere le menti e le volontà individuali, tenuto conto della dilagante depressione economica e culturale, anche al livello di sapere strumentale. E si torna così al punto dolente della politica e di come le sue formazioni organizzate si dimostrino  incapaci di progettare un’economia sociale e alcunché su di essa possa trovare supporto e fondamento.
Ma se una cittadina qualunque, quale io sono, ritrosamente sarda, scavalcando i buoni consigli della timidezza e della modestia, si è arrogata il compito di ripercorrere, a modo proprio, e correndo il rischio di fraintendere clamorosamente un articolo così denso di riferimenti, è perché il problema ivi delineato lo riconosce come sintomo dolente del proprio vissuto, ma  non può assumerne il ragionamento con piena adesione.
Mi spiego. Le mie frequentazioni abituali si svolgono in un milieu socioculturale di medio livello tra Cagliari e il suo immediato retroterra, sia nella forma diretta che tramite la rete informatica dei social e dei blog. Ebbene, io noto in questi miei conterranei una duplicità schizofrenica: nel normale ménage quotidiano somigliano a tutti gli altri di classe media italiana meridionale, scontenta, accidiosa, che arranca per sbarcare il lunario, con i figli che non vogliono studiare perché non serve a niente, con i figli titolati che non trovano lavoro, con la droga in famiglia, covando una rabbia impotente contro i politici che pensano al proprio tornaconto, eccetera. 
Ma appena si profila un evento festivo religioso o civile, una commemorazione, una partita, un convegno o un semplice reading di letteratura locale, e persino il mercatino periodico a km zero, ecco che il sardo si traveste da sardo, secerne la melassa insopportabile  della sua autoreferenzialità: si sente, più che diverso, speciale. E non c’è nessuna vergogna, ma persino una smaccata autoesaltazione, talora condita di chiusure razziali e di ferocia mercantile. Ma un piglio consimile lo ritrovi nelle classi ex-operaie, quelle che hanno lottato fino allo stremo contro lo smantellamento delle industrie e dei posti di lavoro. Il loro livello di istruzione, certo più elementare rispetto alla classe media, si faceva ricco di un’esperienza lavorativa, umana e sociale più aperta. Oggi questo gruppo registra ricadute tremende  nei pregiudizi e nei cortocircuiti mentali dai quali per un certo tempo (e col favore di una più efficace scolarizzazione) credevamo si fossero e ci fossimo liberati.
E allora, non più all’improvviso, ma in regime consuetudinario, si entra in una uniformità obsoleta, come sottratta alle tarme, che non distingue tra mito e storia, e nella storia, spesso richiamata all’ingrosso come fonte di verità incontestabili, si fa poltiglia di classi e conflitti sociali, si perdono i nessi tra la nostra insularità e i complessi intrecci col resto del mondo, si stenta a intuire la differenza tra passato e presente, perché al primo si attribuiscono tratti e categorie dell’attualità e per il presente si ripropongono atteggiamenti ancestrali, ritenuti razionali e rassicuranti, anzi l’essenza stessa della “sardità”. 
A fronte di queste esperienze, per altro personali, non suffragate da studi sociologici, e le non peregrine sollecitazioni dell’articolo citato, viene da domandarsi: quale fase di identificazione stiamo percorrendo? Quella in cui ci si vergogna o quella in cui ci si esalta? E in ogni caso a chi o a che cosa stiamo cercando di corrispondere?  E se altri da noi sta manovrando e rendendo inautentico il processo di identificazione, come attrezzare le persone a riconoscere l’impostura e rovesciarla? Quali categorie conoscitive e quali atteggiamenti assumere per avviare un nuovo gioco dialettico?
Infatti, se è vero, come è vero  che i Sardi si sono vergognati nel passato di quella loro immagine negativa, cui si riferisce Placido Cherchi per la penna di Tagliagambe,(vigeva, allora l’effetto residuale di una postura politica e culturale che scoraggiava i localismi perché intendeva rafforzare la dimensione nazionalistica interna a profitto di scopi di tipo coloniale nelle propaggini dello stato e all’esterno)   tale lettura oggi non sembra più né calzante, né esaustiva, se si considera anche la polarità gaudiosa.
Il fatto è che le così dette identità locali, anche perché ancorate al familismo amorale, diventano, a un certo stadio, pedine variamente utilizzabili da poteri esterni, centrali e periferici : sia che tu ti vergogni o che tu goda per l’immagine che ti viene affibbiata, nello scacchiere politico sarai destinato a fare da supporto a interessi che tu non controlli. E allora non  devi fermarti all’immagine che questo o quello specchio ti rimanda, ma devi rendere perspicui i meccanismi  che vi operano  e capire a chi giovano e perché. E allora devi poter operare lo spostamento tra specchi diversi e relativizzarlo, come faceva Einstein nell’esperimento mentale che spiegava la sua teoria della relatività.
L’identità localistica e nazionalistica, come l’abbiamo subita e come sta avvenendo mediante curiose retrocessioni, equivale, in piccolo, all’operazione storicamente mastodontica che è stata compiuta sulle donne dall’ordine patriarcale, con la sua rete di complicità capillari, con gli intrecci  non districabili di obblighi, con proibizioni, punizioni e ambigui compensi. Essa ha potuto spingersi ad ampiezze e profondità tali da inibire alla conoscenza immense aree di esistenza e di realtà, rendendole compresse e distorte; è potuta penetrare così profondamente nella formazione del sé personale femminile (e sollecitare in senso opposto il sé maschile) da rendere un’infinità di donne estranee a se stesse  per secoli e millenni e ancora oggi.
Comunque è indubbio, quali che siano i sentimenti coinvolti, che la questione dell’identità e del suo rovesciamento segni l’apertura di una faglia. E siccome in un società complessa i processi di identificazione sono tanti e  si intersecano, le faglie aperte sono plurali. E si dà il caso  che anche a livello individuale  vi è chi, in questa e altre faglie, tenti, con i mezzi che ha, di prendere posizione a occhi aperti.
 Ora, allorché si parli di identità in cui vada a riconoscersi un’intera popolazione, si fa io credo un’operazione  fortemente ideologica: si esercita una pressione verso la riduzione ad unum di particolarità specifiche, le quali, se giustamente evidenziate, sono invece elementi costitutivi di forze motrici di cambiamento.
La faglia aperta, di cui accennavo, sembra anche funzionare da serbatoio mitico in cui nativi e allogeni, turisti e ospiti si precipitano per tempi brevi come in un lunapark  onirico, dove è lecito e gradevole l’inganno vicendevole. Lo specchio, in cui molti sardi, dall’esordio della televisione in poi,  credono di ravvisarsi, risulta, secondo le teste fredde e pensanti che ben pochi leggono o ascoltano, deformato dalla spettacolarizzazione di alcuni tratti specifici, riproposti come condizioni statiche e assolute, liberate da ogni problematicità e persino dai collegamenti imprescindibili con le attività produttive, come invece avveniva quando le popolazioni dei centri abitati, in periodi di temporanea stasi produttiva dell’anno (agricola, pastorale, artigianale)) creavano le loro rappresentazioni, i loro riti sacri piuttosto  paganeggianti e vi partecipavano nello stesso tempo come creatori, interpreti e spettatori.  
Oggi, un oggi nato in un’alba del dopoguerra,  i Sardi sono divenuti spettatori di un teatrino che parla di morti e morte cose.  Le occasioni una volta deputate dalle comunità sociali (e di comunità si trattava in quanto si conosceva l’uso comunitario delle terre del demanio) sono arbitrarie, slegate dalla pratica di vita, moltiplicabili a volontà secondo i principi della domanda e dell’offerta in contesto ampiamente capitalistico, in cui qualunque cosa diventa merce, e in quanto merce passa da una mano all’altra, oggetto di possesso e dunque suscettibile di alterazioni conformi agli interessi del possessore.
Ecco, molti sardi credono che quelle figurazioni “farloche” siano l’immagine della loro essenza; certuni ingenuamente, altri con furbizia, si rappresentano così: miticamente selvaggi, eticamente ineccepibili, religiosi, solidali, festaioli, puliti e addobbati nei loro costumi addosso ai figuranti, le donne, figuranti anch’esse, ingioiellate come regine, con la pelle levigata come le modelle dell’alta moda. Penso che si azioni un meccanismo per cui la vuota tetraggine del presente facilita la fuga nel sogno commercialmente confezionato. Il desiderio si sposta all’indietro; e tacitamente, siccome gode nel riferire a sé quell’immagine, essa diventa vera. A tal punto che, in fretta e furia e con i criteri più strani, vari villaggi sono stati allestiti e anche rabberciati come piccoli musei domenicali per il turismo interno. Per il medesimo motivo si inventano ab ovo tornei in costume, sbandierate con sbandieratori di professione, corse allo stendardo … E molti sardi sono nostalgicamente convinti che il loro passato fiammeggiava così di ori e colori, di modo che  le immagini si trasformano nel sogno palpabile, e la fede, nutrita dal piacere della ripetizione, si rafforza. E conviene anche ai turisti forestieri che lo spettacolo sia la copia realistica di un’esistenza sospesa tra passato e presente, in virtù della facile proiezione del primo sul secondo; perché essi pagano per poter assistere di persona alla persistenza di un passato con i crismi dell’autenticità, della bontà, della spontaneità, della genuinità e persino della selvatichezza. Tutto quello che nel mondo reale sembra destinato a sparire in spaventose alterazioni. Dunque la loro presenza sul suolo isolano è per i Sardi la prova dell’indiscutibile conferma di quella mitica dimensione che idealmente  sembra unirli tutti, mercanti, compratori, imprenditori di spettacoli, speculatori, fruitori, figuranti, abitanti anonimi, lavoratori interinali e vittime.
Questo è stato il dono della politica dell’ultimo trentennio.
Nel mio caso,( siamo ridotti a pensarci come “casi”, casi clinici?) pur essendo sarda fino alle midolla e attaccata a questo scoglio più che una patella, non mi sento presa nella rete ancestrale delle parlate locali, né mi riconosco nel revival dilagante dei rituali folcloristici, né tampoco in questa sorta di patriottismo dell’autenticità parolaia isolana,  che non riesce a sognare ciò che avviene sotto il sole e praticamente sotto gli occhi di tutti: per esempio, il decollo di bombardieri mortiferi dai nostri aeroporti militari. Silenzio-assenso.
Ecco che allora la mia identità culturale (e credo di altri)  è questa mia incredulità, questa mia solitudine, che mi designa - fra coloro che credono o si sentono enfaticamente a casa propria, con lingua ripristinata e “sentimentalizzata”(come ben poco lo fu per l’addietro), con l’ abbigliamento festoso e fastoso del sogno, col canto del sogno, con la morale del sogno, col familismo buono del sogno, la  religione, la mitologia, le costumanze del sogno, le nenie e i balli del sogno, gli ornamenti del sogno, il patriarcato del sogno e il matriarcato di risulta dicevo mi designa, come una straniera o, peggio, un’apolide. Perché in definitiva neppure mi sento a pieno titolo cittadina del modo europeo di concepire il resto del mondo e le sue plaghe interne, né di concepire l’assoluta bontà dei suoi valori, perché pure questi stanno rischiando di diventare gusci vuoti.
Dove sta,dunque, la mia identità se non fuori,  in un non-paese, nello sdegno degli inquietanti, nell’odore detestabile degli invisibili.  Sdegno represso, spostato, ammutolito, calpestato, talora sublimato in parole faticose, perché non c’è lingua che non trovi nei suoi recessi o nel bric à brac del suo quotidiano i suoni e i segni per riscontri possibili di verità scomode, quelle che gli specchi ben organizzati non riescono ad assemblare e restituire alla mente e al cuore dubbiosi
Su tutto questo e sull’eco minacciosa del suo moto tettonico, non pochi si concedono il paradiso di parole autoconsolatorie, in sardo, in italiano e così via.
Ribellione proattiva? Chi è così credibile oggi da farsene vessillifero e promuovere seguiti? Bisogna costruire i caratteri e il carattere collettivo? Forse, sì. Ma questa istanza non pare avere ancora padri e madri o, chi sa, virgulti o scuole.

Quella “buona” non pare così buona! 
                                                                                        Bianca Mannu
..........................................................*Francesco Masala

martedì 10 marzo 2015

Tra lingua, storia e politica

Considero che a marzo i temi della “questione femminile” tornano per qualche giorno alla ribalta mediatica, dove sembra stancamente ripetersi il rito della donna tuttofare, santificata a parole e perciò meglio ingannata. Questo rito festivo, ora molto banalizzato e commercializzato, serve anche a far calare un siparietto attivatore e complice della distrazione sonnambolica sulla condizione femminile, ponendo l’accento sulle macroscopiche discrasie che affliggono i paesi, diciamo culturalmente non occidentalizzati. Come se da noi, nell’Occidente, detto democratico e super industrializzato, avessimo conquistato davvero la parità di genere.
Riprendiamo i riferimenti extralinguistici di una parola: MASCHILISMO, entrata ormai nel vocabolaro quotidiano.
Mica è sempre esistita questa parola!  Anche se l’effetto linguistico è proprio quello risultante  dalla sua codifica.
Incardinata nel sistema dei suoni, dei segni, della morfologia, della sintassi, dei significati e delle loro relazioni, dei riferimenti e delle pratiche attinenti -  è come vi fosse da sempre inscritta e, come tale, suscettibile di usi retroattivi, fattuali e ipotetici, la parola «MASCHILISMO» è invece figlia della storia recente, anzi attuale e già misconosciuta o dimenticata.
Compare assai tardi rispetto alla nozione di «FEMMINISMO», a torto ritenuta di significato opposto e quasi da esso derivata.
Andiamo per gradi.
Una prima definizione riguarda il FEMMINISMO come movimento politico, culturale e sociale, che pone in discussione gli esistenti rapporti di potere tra i sessi.
La nascita di tale movimento conosce alcuni antefatti durante la Rivoluzione Francese, ma vede il proprio sviluppo teorico e pratico durante l’800 in Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia.
In realtà sarebbe corretto parlare di «femminismi»  tenendo conto della variegatura delle posizioni assunte nei diversi contesti e tempi dalle sue maggiori rappresentanti.
Cito testualmente da Wichipedia:
“Le origini del termine “femminismo” si possono rintracciare in due ambiti diversi:
·        all’interno della letteratura medica francese, in cui veniva usato per riferirsi a un indebolimento del corpo maschile;
·        nel contesto delle mobilitazioni per il diritto di voto in Francia.”
Hubertine Auclert lo utilizzò nella sua rivista <La Citoyenne> il 13 febbraio del 1881.
Nel citato sito Internet potete trovare un’ampia documentazione storico teorica del movimento femminista  in Europa e nel mondo, nelle sue diverse fasi di sviluppo, espansione, riflusso e intrecci con altre battaglie civili e politiche.
Che ne è dell’accezione «MASCHILISMO»?
Di certo non è un movimento, né un partito politico, né un’associazione o un’entità che si sia data un nome o un simbolo per contestare o  realizzare alcunché.
Allora bisogna ragionarci un po’ su.
Intanto il suffisso «ismo» indica che il termine non fa riferimento a una condizione naturale, ma a una posizione ideologica, culturale, politica. E, sotto questo riguardo, sembra omologo a «FEMMINISMO».
Ma come abbiamo accertato, quest’ultimo termine fa riferimento a eventi e atteggiamenti storicamente inediti che hanno dato vita a veri e propri sommovimenti organizzati di persone,  volti a denunciare la crisi e/o a scuotere certi assetti sociali consolidati mediante lotte molto concrete, talvolta drammatiche e sanguinose.
Perché questa differenza nei riferimenti fattuali?
L’origine  o passaggio dalle culture matriarcali alle culture androcentriche o patriarcali si perde nella notte dei tempi. E su tale tema la parola specifica spetta alle scienze antropologiche,  capaci forse  di dar voce a tracce molto ambigue e obsolete.
Noi, civiltà del simbolo, abbiamo conosciuto  solamente ordinamenti sociali economici e giuridici fondati sulla centralità del patriarca, sulla subordinazione ad esso della soggettività femminile, fino alla perdita di ogni forma di auto percezione indipendente.
La civiltà androcentrica non si è definita come tale, si è ritenuta, anzi si è posta e imposta come «la civiltà» tout court, senza limitazioni e aggettivazioni.
Agli albori della divisione sociale del lavoro, le donne costituivano il gruppo sociale già discriminato e privato dell’immagine autoctona della propria soggettività. Così parrebbe. 
La società patriarcale si rappresentava e ha continuato a rappresentarsi come olistica fino allo sviluppo del Capitalismo, allorché, per impulso coercitivo a liberare le forze produttive cristallizzate nel vecchio ordinamento feudale, ha scoperchiato il vaso di Pandora, che ora, a singhiozzi, tenta di richiudere o di controllare.
In quelli e in  questi moti di rinnovata lotta delle classi, di emergenza di nuove soggettività variamente organizzate, il movimento delle donne non poteva non trovare la via per emergere e intessere con l’assetto preesistente rapporti assai  articolati e ambivalenti e anche lottare duramente contro di esso e contro i suoi   ordinamenti.
Come sempre le lotte si sviluppano a vari livelli: dall’astrazione teorica alla concretezza corporea e viceversa, in faticosi intrecci, nei quali i corpi dei singoli soggetti/persona sono coinvolti, attraversati e feriti non solo dalle tensioni liberatorie e/o assoggettanti, ma dalle insidie, anche fisiche, che i lottanti mettono in campo.
Le parole in uso assumono allora una valenza importante, altre vengono forgiate sul campo, perché siano incisive o pregne del significato e della tensione del momento. I movimenti progressisti hanno bisogno specialmente di parole rivelatrici di verità trascurate … 
Andando alla ricerca di documentazioni sulla parola  «MASCHILISMO», mi riesce solo di puntare la piccola luce della mia debole pila su vapori di lotta ancora caldi e fumanti, benché col fiato corto del riflusso … 
Inequivocabilmente avverto il tono del dispregio che incrocia quello dell’arroganza per quanto ha la pretesa di voler sopravvivere alla propria già decretata morte storica e per quanto spinge per dare fiato alla propria esigenza vitale …
La parola «MASCHILISMO» pare esser nata nel fuoco della battaglia nella quale molte donne, armate della scoperta di una soggettività possibile, si sono rivoltate ai loro antichi focolari … vogliose d’un’umanità meno schiacciata sul disegno di un’ insormontabile impronta animalesca … ancorché dipinta di sacro per meglio incutere la fissità panica dell’assoluto.
Scoperta di una soggettività che attende la sua ripresa, la sua riattivazione;  perché le cose della storia non sono mai assodate per sempre.
Modestamente, com’è giusto che sia, mi sono piegata sul dizionario dell’uso, quello formato da vari e pesanti volumi …
Accanto alle sue notazioni terminologiche vedo un (CO) come comune e una data: 1937… Data del conio? C’entrano in qualche modo i futuristi? 
E dopo la parola capofila, ecco una piccola teoria di termini derivati e  contratti, con «ista»,  «ismo», «istico» in coda, e quasi tutti accompagnati da numeri che sembrano date della nostra era cristiana … Sono quelle date che scendono sui piedi del secolo passato e che ci hanno conosciuto  già adulti?
Sì, credo proprio che la parola «MASCHILISTA» e i suoi derivati siano il segno di una lotta, tutt’altro che relegata alla lingua, la quale attende ancora di svilupparsi e portarsi a compimento.
In questo vespro della democrazia italiana, in cui il vecchio e il becero si spaccia per nuovo, e il buono non ha avuto abbastanza vita da produrre i suoi frutti, tutti i gatti sembrano bigi e impegnati a strapparsi i bocconi reciprocamente, e che non sia dato niente altro alla platea degli italiani viventi se non di assistere a questo desolante spettacolo...  Ebbene, su questo palcoscenico, femminismo e maschilismo  sembrano potersi disporre in semplice funzione oppositiva, come due astrazioni prive d’anima e confuse dalla nebbia esalante dalla  palude dell’esistente … che appare, ma non è affatto, neutra.
Più d’uno, capitano o centurione, con facile “benaltrismo”, continua a ingannarsi, specialmente  a ingannare, inducendo l’idea che i diritti civili siano inconciliabilmente alternativi rispetto a quelli economici e viceversa. Non diamogli credito: non è disinteressato. Ricordiamoci che nel frattempo i cesari  distruggono i presupposti materiali  e umani per gli uni e per gli altri.
Che fare?
Dovremmo rammentarci anche che il cesare di turno ha solo  il fiato che gli diamo. E ha nessuna importanza se il suo cognome inizi con R o B o X,  mentre importa che si dichiarino FEMMINISTI (e di quale femminismo!) uomini di potere che si circondano di figure femminili ancillari,  le quali tornano buone per rappresentare invece la presunta, culturalmente imposta e psicologicamente introiettata minorità costitutiva intellettuale e sociale del genere femminile.