sabato 3 giugno 2017

Folklore: specchio ingannatore


Riflessioni sull' articolo di Silvano Tagliagambe 
 L’eredità preziosa di Placido Cherchi in www.sardegnasoprattutto.com

"La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna, secondo Placido Cherchi, segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli." (citazione)

NOTA
L’articolo è interessante dall’inizio alla fine, perché ripartendo dal lavoro critico di Cherchi sul  rapporto tra arte, oggetto e significato, costituisce un forte richiamo a considerare le conseguenze culturali del totale sganciamento delle sue (dell'arte) forme dal “senso dell’esperienza “ e dal “valore dei suoi contenuti”. Diventando scienza delle forme come tali, l’arte si chiude nel cerchio autoreferenziale di una propria precaria semiologia che mette in scena, senza connettersi con altro, i propri trionfi. Ed è così – dice Tagliagambe – che si giunge alla “cancellazione della memoria”, alla perdita “del proprio passato” e dunque al dissolvimento della propria identità. Citando di nuovo Cherchi e De Martino, Tagliagambe lascia intendere che il senso dell’identità della civiltà occidentale, perseguìta come riproduzione e assolutizzazione dell’uguale e come impermeabilità al senso della differenza, è causa dello smarrimento dell’identità stessa o, quanto meno, della sua banalizzazione.
Tagliagambe non si sofferma a dare una spiegazione ulteriore su che cosa si intenda per identità; la quale, al lume del mio naso profano,  non può che riferirsi, in questo caso, all’autoconfigurazione di una formazione sociale per mezzo di condivise categorie comportamentali e di pensiero: la lingua, per esempio, le divinità e i riti, la mitologia, ma ancor prima, i modi di procurarsi da vivere, i ruoli sociali che da essi derivano e come s’incarnano nelle psicologie individuali, insomma il suo sacro e il suo profano.  
Per far capire come si formi e in che consista l’identità, il Filosofo fa riferimento alla conquista dell’immagine di sé da parte del bambino nella “fase dello specchio”, durante la quale egli “riconosce sé e ciò che gli appartiene”. Sembrerebbe che un simile procedimento si verifichi in riferimento a una formazione sociale.
Però dall’esempio citato, riesce arduo compiere il salto logico nel “la fase di identificazione” di natura sociale - così credo di capire,  e non saprei dire se collettiva oppure no - in corso in Sardegna, la quale segnerebbe il “rovesciamento di questo processo di appropriazione” … Cioè il suo fallimento?
Come dire che lo specchio non è nelle mani dei sardi stessi e che essi per incapacità e insipienza lo abbiano ceduto ad altri? A chi? Agli stranieri italioti colonizzatori, come diceva il Poeta*, oppure a una non meglio identificata industria culturale e politica, forse nazionale, ma anche transnazionale, che ne ha alterato la curvatura a proprio vantaggio? E che, se ho bene inteso, sia indispensabile che i Sardi ricusino, rovescino come aliena l’immagine folklorizzata  in cui sono indotti a riconoscersi, per altro vergognandosene?  Essa, come il ritratto di Dorian Gray, sarebbe infatti divenuta  una sorta di documento identitario impresentabile e depressivo, dove si sarebbero depositate le tracce di tutti i nostri tratti negativi del passato e del presente, e pertanto inibirebbe il minimo slancio verso il futuro.  Occorrerebbe disfarsene e, con un atto di ribellione, trasformarla nel suo opposto ricuperando la dimensione costruttiva del futuro.
Resta da capire il come, con quali strutture istituzionali o libere e a quali soggetti affidare il progetto per un nuovo corso, e come coinvolgere la generalità dei sardi, dato che la pratica delle arti e la pur illuminata critica teorica, cosi come il punto di vista critico della filosofia, e tutto quanto vischiosamente si muove nel campo della cultura alta e di base (con i suoi ceppi granitici) non riesce a raggiungere le menti e le volontà individuali, tenuto conto della dilagante depressione economica e culturale, anche al livello di sapere strumentale. E si torna così al punto dolente della politica e di come le sue formazioni organizzate si dimostrino  incapaci di progettare un’economia sociale e alcunché su di essa possa trovare supporto e fondamento.
Ma se una cittadina qualunque, quale io sono, ritrosamente sarda, scavalcando i buoni consigli della timidezza e della modestia, si è arrogata il compito di ripercorrere, a modo proprio, e correndo il rischio di fraintendere clamorosamente un articolo così denso di riferimenti, è perché il problema ivi delineato lo riconosce come sintomo dolente del proprio vissuto, ma  non può assumerne il ragionamento con piena adesione.
Mi spiego. Le mie frequentazioni abituali si svolgono in un milieu socioculturale di medio livello tra Cagliari e il suo immediato retroterra, sia nella forma diretta che tramite la rete informatica dei social e dei blog. Ebbene, io noto in questi miei conterranei una duplicità schizofrenica: nel normale ménage quotidiano somigliano a tutti gli altri di classe media italiana meridionale, scontenta, accidiosa, che arranca per sbarcare il lunario, con i figli che non vogliono studiare perché non serve a niente, con i figli titolati che non trovano lavoro, con la droga in famiglia, covando una rabbia impotente contro i politici che pensano al proprio tornaconto, eccetera. 
Ma appena si profila un evento festivo religioso o civile, una commemorazione, una partita, un convegno o un semplice reading di letteratura locale, e persino il mercatino periodico a km zero, ecco che il sardo si traveste da sardo, secerne la melassa insopportabile  della sua autoreferenzialità: si sente, più che diverso, speciale. E non c’è nessuna vergogna, ma persino una smaccata autoesaltazione, talora condita di chiusure razziali e di ferocia mercantile. Ma un piglio consimile lo ritrovi nelle classi ex-operaie, quelle che hanno lottato fino allo stremo contro lo smantellamento delle industrie e dei posti di lavoro. Il loro livello di istruzione, certo più elementare rispetto alla classe media, si faceva ricco di un’esperienza lavorativa, umana e sociale più aperta. Oggi questo gruppo registra ricadute tremende  nei pregiudizi e nei cortocircuiti mentali dai quali per un certo tempo (e col favore di una più efficace scolarizzazione) credevamo si fossero e ci fossimo liberati.
E allora, non più all’improvviso, ma in regime consuetudinario, si entra in una uniformità obsoleta, come sottratta alle tarme, che non distingue tra mito e storia, e nella storia, spesso richiamata all’ingrosso come fonte di verità incontestabili, si fa poltiglia di classi e conflitti sociali, si perdono i nessi tra la nostra insularità e i complessi intrecci col resto del mondo, si stenta a intuire la differenza tra passato e presente, perché al primo si attribuiscono tratti e categorie dell’attualità e per il presente si ripropongono atteggiamenti ancestrali, ritenuti razionali e rassicuranti, anzi l’essenza stessa della “sardità”. 
A fronte di queste esperienze, per altro personali, non suffragate da studi sociologici, e le non peregrine sollecitazioni dell’articolo citato, viene da domandarsi: quale fase di identificazione stiamo percorrendo? Quella in cui ci si vergogna o quella in cui ci si esalta? E in ogni caso a chi o a che cosa stiamo cercando di corrispondere?  E se altri da noi sta manovrando e rendendo inautentico il processo di identificazione, come attrezzare le persone a riconoscere l’impostura e rovesciarla? Quali categorie conoscitive e quali atteggiamenti assumere per avviare un nuovo gioco dialettico?
Infatti, se è vero, come è vero  che i Sardi si sono vergognati nel passato di quella loro immagine negativa, cui si riferisce Placido Cherchi per la penna di Tagliagambe,(vigeva, allora l’effetto residuale di una postura politica e culturale che scoraggiava i localismi perché intendeva rafforzare la dimensione nazionalistica interna a profitto di scopi di tipo coloniale nelle propaggini dello stato e all’esterno)   tale lettura oggi non sembra più né calzante, né esaustiva, se si considera anche la polarità gaudiosa.
Il fatto è che le così dette identità locali, anche perché ancorate al familismo amorale, diventano, a un certo stadio, pedine variamente utilizzabili da poteri esterni, centrali e periferici : sia che tu ti vergogni o che tu goda per l’immagine che ti viene affibbiata, nello scacchiere politico sarai destinato a fare da supporto a interessi che tu non controlli. E allora non  devi fermarti all’immagine che questo o quello specchio ti rimanda, ma devi rendere perspicui i meccanismi  che vi operano  e capire a chi giovano e perché. E allora devi poter operare lo spostamento tra specchi diversi e relativizzarlo, come faceva Einstein nell’esperimento mentale che spiegava la sua teoria della relatività.
L’identità localistica e nazionalistica, come l’abbiamo subita e come sta avvenendo mediante curiose retrocessioni, equivale, in piccolo, all’operazione storicamente mastodontica che è stata compiuta sulle donne dall’ordine patriarcale, con la sua rete di complicità capillari, con gli intrecci  non districabili di obblighi, con proibizioni, punizioni e ambigui compensi. Essa ha potuto spingersi ad ampiezze e profondità tali da inibire alla conoscenza immense aree di esistenza e di realtà, rendendole compresse e distorte; è potuta penetrare così profondamente nella formazione del sé personale femminile (e sollecitare in senso opposto il sé maschile) da rendere un’infinità di donne estranee a se stesse  per secoli e millenni e ancora oggi.
Comunque è indubbio, quali che siano i sentimenti coinvolti, che la questione dell’identità e del suo rovesciamento segni l’apertura di una faglia. E siccome in un società complessa i processi di identificazione sono tanti e  si intersecano, le faglie aperte sono plurali. E si dà il caso  che anche a livello individuale  vi è chi, in questa e altre faglie, tenti, con i mezzi che ha, di prendere posizione a occhi aperti.
 Ora, allorché si parli di identità in cui vada a riconoscersi un’intera popolazione, si fa io credo un’operazione  fortemente ideologica: si esercita una pressione verso la riduzione ad unum di particolarità specifiche, le quali, se giustamente evidenziate, sono invece elementi costitutivi di forze motrici di cambiamento.
La faglia aperta, di cui accennavo, sembra anche funzionare da serbatoio mitico in cui nativi e allogeni, turisti e ospiti si precipitano per tempi brevi come in un lunapark  onirico, dove è lecito e gradevole l’inganno vicendevole. Lo specchio, in cui molti sardi, dall’esordio della televisione in poi,  credono di ravvisarsi, risulta, secondo le teste fredde e pensanti che ben pochi leggono o ascoltano, deformato dalla spettacolarizzazione di alcuni tratti specifici, riproposti come condizioni statiche e assolute, liberate da ogni problematicità e persino dai collegamenti imprescindibili con le attività produttive, come invece avveniva quando le popolazioni dei centri abitati, in periodi di temporanea stasi produttiva dell’anno (agricola, pastorale, artigianale)) creavano le loro rappresentazioni, i loro riti sacri piuttosto  paganeggianti e vi partecipavano nello stesso tempo come creatori, interpreti e spettatori.  
Oggi, un oggi nato in un’alba del dopoguerra,  i Sardi sono divenuti spettatori di un teatrino che parla di morti e morte cose.  Le occasioni una volta deputate dalle comunità sociali (e di comunità si trattava in quanto si conosceva l’uso comunitario delle terre del demanio) sono arbitrarie, slegate dalla pratica di vita, moltiplicabili a volontà secondo i principi della domanda e dell’offerta in contesto ampiamente capitalistico, in cui qualunque cosa diventa merce, e in quanto merce passa da una mano all’altra, oggetto di possesso e dunque suscettibile di alterazioni conformi agli interessi del possessore.
Ecco, molti sardi credono che quelle figurazioni “farloche” siano l’immagine della loro essenza; certuni ingenuamente, altri con furbizia, si rappresentano così: miticamente selvaggi, eticamente ineccepibili, religiosi, solidali, festaioli, puliti e addobbati nei loro costumi addosso ai figuranti, le donne, figuranti anch’esse, ingioiellate come regine, con la pelle levigata come le modelle dell’alta moda. Penso che si azioni un meccanismo per cui la vuota tetraggine del presente facilita la fuga nel sogno commercialmente confezionato. Il desiderio si sposta all’indietro; e tacitamente, siccome gode nel riferire a sé quell’immagine, essa diventa vera. A tal punto che, in fretta e furia e con i criteri più strani, vari villaggi sono stati allestiti e anche rabberciati come piccoli musei domenicali per il turismo interno. Per il medesimo motivo si inventano ab ovo tornei in costume, sbandierate con sbandieratori di professione, corse allo stendardo … E molti sardi sono nostalgicamente convinti che il loro passato fiammeggiava così di ori e colori, di modo che  le immagini si trasformano nel sogno palpabile, e la fede, nutrita dal piacere della ripetizione, si rafforza. E conviene anche ai turisti forestieri che lo spettacolo sia la copia realistica di un’esistenza sospesa tra passato e presente, in virtù della facile proiezione del primo sul secondo; perché essi pagano per poter assistere di persona alla persistenza di un passato con i crismi dell’autenticità, della bontà, della spontaneità, della genuinità e persino della selvatichezza. Tutto quello che nel mondo reale sembra destinato a sparire in spaventose alterazioni. Dunque la loro presenza sul suolo isolano è per i Sardi la prova dell’indiscutibile conferma di quella mitica dimensione che idealmente  sembra unirli tutti, mercanti, compratori, imprenditori di spettacoli, speculatori, fruitori, figuranti, abitanti anonimi, lavoratori interinali e vittime.
Questo è stato il dono della politica dell’ultimo trentennio.
Nel mio caso,( siamo ridotti a pensarci come “casi”, casi clinici?) pur essendo sarda fino alle midolla e attaccata a questo scoglio più che una patella, non mi sento presa nella rete ancestrale delle parlate locali, né mi riconosco nel revival dilagante dei rituali folcloristici, né tampoco in questa sorta di patriottismo dell’autenticità parolaia isolana,  che non riesce a sognare ciò che avviene sotto il sole e praticamente sotto gli occhi di tutti: per esempio, il decollo di bombardieri mortiferi dai nostri aeroporti militari. Silenzio-assenso.
Ecco che allora la mia identità culturale (e credo di altri)  è questa mia incredulità, questa mia solitudine, che mi designa - fra coloro che credono o si sentono enfaticamente a casa propria, con lingua ripristinata e “sentimentalizzata”(come ben poco lo fu per l’addietro), con l’ abbigliamento festoso e fastoso del sogno, col canto del sogno, con la morale del sogno, col familismo buono del sogno, la  religione, la mitologia, le costumanze del sogno, le nenie e i balli del sogno, gli ornamenti del sogno, il patriarcato del sogno e il matriarcato di risulta dicevo mi designa, come una straniera o, peggio, un’apolide. Perché in definitiva neppure mi sento a pieno titolo cittadina del modo europeo di concepire il resto del mondo e le sue plaghe interne, né di concepire l’assoluta bontà dei suoi valori, perché pure questi stanno rischiando di diventare gusci vuoti.
Dove sta,dunque, la mia identità se non fuori,  in un non-paese, nello sdegno degli inquietanti, nell’odore detestabile degli invisibili.  Sdegno represso, spostato, ammutolito, calpestato, talora sublimato in parole faticose, perché non c’è lingua che non trovi nei suoi recessi o nel bric à brac del suo quotidiano i suoni e i segni per riscontri possibili di verità scomode, quelle che gli specchi ben organizzati non riescono ad assemblare e restituire alla mente e al cuore dubbiosi
Su tutto questo e sull’eco minacciosa del suo moto tettonico, non pochi si concedono il paradiso di parole autoconsolatorie, in sardo, in italiano e così via.
Ribellione proattiva? Chi è così credibile oggi da farsene vessillifero e promuovere seguiti? Bisogna costruire i caratteri e il carattere collettivo? Forse, sì. Ma questa istanza non pare avere ancora padri e madri o, chi sa, virgulti o scuole.

Quella “buona” non pare così buona! 
                                                                                        Bianca Mannu
..........................................................*Francesco Masala

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