La ragione del titolo e non solo
Prima ancora di
giungere alla fatidica p.435 - intanto che leggevo le 400 precedenti e attratta
mi lasciavo bagnare (ma senza restarne travolta) dalle cateratte verbali che l’Autore,
con assoluta fede nelle capacità rappresentative e seduttrici della sua prosa, sciorinava
davanti alla mia immaginazione - m’interrogavo
sul senso di “pastorale” in quanto sostantivo reggente l’aggettivo “americana”.
Quest’ultimo lemma
non può che riferirsi agli USA, in quanto rappresentante emblematico dello
schema di mondo a cui tutti e specialmente noi europei ci siamo
adeguati, e col quale raffiguriamo noi stessi credendoci, perciò, migliori.
Invece il sostantivo
“pastorale” mi incalzava verso un senso per nulla nuovo, benché all’apparenza proveniente
da oltre Atlantico. Subito la mia pur titubante memoria faceva affiorare le mie
sbiadite informazioni sulle Bucoliche virgiliane, sulle suggestioni campestri e
pastorali di Petrarca e giù discorrendo fino all’Arcadia e alla vena
naturalistica di Leopardi e dopo ancora fino
alle non pastorali opere della
grande narrativa europea, per esempio I
Buddenbrook e America,
onirico controcanto, quest’ultima, sul Nuovo Mondo.
Ma durante la
lettura, più forte d’ogni altro riferimento, s’è affacciata alla mia mente “La
Pastorale” di Beethoven, già antifona della prima grande lacerazione uomo/natura
in Europa (1^rivoluzione industriale avvenuta). La Pastorale beethoveniana
rappresenta l’auspicata ricongiunzione dell’umano con la natura di cui è parte.
In realtà quel ricongiungimento non ripristina affatto quello primigenio:
l’uomo in generale è divenuto un’astrazione rispetto alle sue contrastanti
funzioni sociali e la natura è stata variamente alterata in funzione dei
destini produttivi. Il possibile ricongiungimento avviene tramite la mediazione
dell’arte e della cultura, cioè la natura in scala ridotta rientra nella
categoria estetica e l’umano che si congiunge e si rispecchia in lei è
l’artista e il suo committente, cioè la classe padronale colta.
Probabilmente anche Roth
ha cercato di immaginare le possibili condizioni per prefigurare una nuova giuntura tra la natura
e l’uomo. Ma stavolta l’articolazione si presenta più che mai complessa. Nella
Pastorale di Beethoven resta invisibile l’oscenità infernale del mondo della
produzione senza apparente nocumento per la sintesi estetica, mentre Roth non
può farlo con la stessa facilità e buona coscienza. E non solo perché Roth è di
circa centocinquant’anni più giovane, ma perché con lo sviluppo del grande
capitale le categorie della natura e
quelle dell’umano, non solo si sono pluralizzate, ma è difficilissimo
articolarle, perché la meccanica produttiva capitalistica ha reso la natura
indisponibile per la fruizione estetica generalizzata e perché il lavoratore collettivo,
per un verso risulta deprivato della sensibilità estetica non finalizzata alla
produzione, per altro verso la sua sensibilità compressa nello stato grezzo
viene catturata in direzione di una bassa estetica, perché questa è incentivo a
consumare merci che recano profitto al produttore e non affinano il gusto e la
mente del loro consumatore. Ma il produttore stesso, o meglio colui che investe
il capitale, non si preoccupa delle sorti della natura, se non per quella
minima parte che ritiene di preservarsi per il proprio benessere, si preoccupa
invece tanto di riservare alla proprie attività le materie prime necessarie,
almeno finché non ne trova altre in sostituzione, se il mercato della domanda
resiste, oppure muta totalmente orientamento produttivo, anche in virtù dei
mutamenti tecnologici che sono un altro difficile e contrastante nodo del
nesso uomo-natura.
Per restare
nell’ambito di una sintesi elementare, Roth non può raccontarci una Pastorale
credibile, magari mitica, ma lo spettro desiderato di una pastorale il cui respiro
si fa rantolo.
Azzardo un’ipotesi
di segno storico letterario: chiamare pastorale
questo ambizioso intreccio narrativo è il segno di una petizione dell’Autore al
mondo: l’aver costruito un’opera così impegnativa, così densa e collegata al
cuore, alla mente e alle viscere della cultura dell’Occidente da entrare a buon
diritto nell’Olimpo della narrativa classica mondiale, come un solenne affresco
che vede protagonista la più grande potenza mondiale esistente.
Fin dalle pagine
iniziali l’autore si concede numerosissime divagazioni, prima di procedere all’intaglio
della figura centrale, entro uno sfondo caotico e ostico: una sequela di
passaggi sul gioco sportivo su cui sottilizza con tecnicismi da esperto, beandosi
e insistendovi come un tifoso autentico, quale forse è stato da buon americano!
E a mano a mano che dalla tela esce scontornata qualche figura, ecco
l’espandersi ulteriore, quasi ossessivo, del più immediato milieu del
protagonista, già baciato, lui così limpido, così alla mano, dalla gloria e dal
successo: già una star con tutta la
scia!
Scegliere una
prospettiva discosta, seguire ciò che emerge come capriccio della memoria, connettere situazioni apparentemente lontane
fa parte della tecnica compositiva del romanzo contemporaneo. La creazione si fa carico di conferire consistenza
oggettiva e insieme dinamismo ai protagonisti. Lavorando sugli sfondi l’Autore immette
aria e vento nelle sue trame, si libera del marmoreo e in qualche misura mette
i protagonisti al riparo dal pericolo del suo stesso amore. In ciò Roth
s’impegna da grande maestro con una discorsività scorrevole ed elastica. Eppure
la messa in moto di una tale circolazione sanguigna non sempre sortisce
l’atteso effetto. Perché?
Perché manca il vero
volano, quello dialettico. Tutto ciò che l’Autore involve per dare concretezza
d’anima agli esordi e agli sviluppi della vicenda centrale resta nell’ambito
della familiarità.
Molto godibile la
modulazione dei dialoghi nella rimpatriata degli ex liceali di Weequahic e di
Rimrock , in cui predomina con malinconica asprezza lo sguardo innamorato per
la propria e altrui giovinezza smentita dai corpi. Nel medesimo contesto, tra confidenza
e perfida franchezza, s’intreccia il dialogo con Jerry Levov, fratello di
Seymour, che snocciola all’inconsapevole Nathan Zuckerman, alias Skip (l’ombra
romanzesca di Philip Roth) i retroscena del clan Levov con tutte le sue
debolezze e vergogne. Che i due chiamino
merda la fanghiglia familiare fa
parte del narcisismo d’élite. Però lì Roth non solo tesse l’ordito del dramma,
ma inventa il più bel colpo di scena di tutto il libro: Seymour Levov è morto,
comunica seccamente Jerry a Skip. E quasi non hai tempo per prenderne atto ed
essere consapevole che tutto ciò che Roth sta scrivendo sarà il grande
monumento alla memoria.
Caratteri a parte -
sgorbiati in pietra, quasi megalitici – sei precipitato nel clan, sei in
famiglia. Nonostante la freschezza dei bozzetti, malgrado l’effervescenza e l’arditezza
dei dialoghi, avverti aria di chiuso. Senti che c’è un dietro che né il pensiero né la penna ha sfiorato o sfiorerà.
C’è un qualcosa che hai calpestato senza conoscerlo, e tu, Scrittore, non ti
sei domandato da che cosa dipende l’inciampo a varcare il chiuso. Jerry,
descrivendo l’abnegazione di Seymour verso la volontà paterna, allude alla “sua
attrazione fatale”: il lavoro. Il lavoro che rende bruti e lascia povere intere
popolazioni (anche questo, il non significato,
l’eluso) diventa su di lui, sul padre Lou, su Dawn, emblema. Ecco un’ingiustizia teoretica
trasformarsi in dato meritorio. Roth è
meritocratico e non spiega l’eziologia del presunto merito, se non restringendo
lo sguardo alla sfera essenzialmente privata. Ecco che i protagonisti, malgrado
errori, leggerezza e sostanziale cinismo, sono da sempre e per sempre “i
salvati”. Dei “sommersi” Roth non ha minima contezza che si tratti di umani. L’umano
illumina un tratto di qualche fedelissimo dipendente come prova provata della
magnanimità padronale. Solo quando Meredhit (Merry) condivide l’orrenda esistenza
dei vinti, dei sommersi, allora Roth suscita nella mente di Seymour la
moltitudine dei senza volto come liquame, i cui miasmi minacciano di appestare
i buoni come lui.
Questa la tabe sulla
resa artistica di «Pastorale
americana».
Infatti l’insistente
autoreferenzialità e la sostanziale chiusura ideologica e sociale dei
protagonisti contrae la vicenda in dramma di dimensioni pressoché private.
L’occhio dello scrittore continua a muoversi in prossimità dei protagonisti, senza
indagare sulle diverse dinamiche sociali con l’occhio magari asciutto, ma
libero dalla glassa autoreferenziale. Come dire che Roth non riesce a mettere a
fuoco i nessi tra la storia dei Levov con gli operai bianchi e neri, gente che aveva
fatto e faceva la fortuna dei Levov e di molti altri, persone che al momento
erano inviate a uccidere e a morire in Vietnam. Persone segnate dalla guerra
che, deposta la divisa, non trovavano possibilità di reinserimento nel tessuto
sociale e produttivo, dato che l’industria di guerra non dava e non aveva dato
i risultati sperati. Fallita l’interconnessione con la problematica dei neri, indicati come più neghittosi, ma ancor
più carne da cannone, usati, sfruttati e anche segregati, i loro leader
assassinati; fallito il riferimento con gli Amerindi del Centro America e del Sudamerica, umanamente inesistenti per
i Levov, ma forse per Roth. Ma noi lettori li sappiamo espropriati di risorse e
repressi nelle loro istanze liberatrici tramite governi quisling
filostatunitensi. Manca in Roth la coscienza di questa immane responsabilità
da ascrivere alle classi di potere.
S’intuisce anche una
presunzione nascosta nel titolo, quasi a significare che l’impero americano
produce la sua “Pastorale” come l’impero
romano ha prodotto la sua Eneide: pace ed egemonia Yenky nel mondo globale come
Pax augustea a sanzione del dominio romano sul mondo antico.
Oscurate come
irrilevanti le realtà di cui sopra, il romanzo di Roth vuole entrare e forse
entra nella sfera mitica e mitologica, non dell’idilliaco, ma dell’idealizzazione
e celebrazione dell’ordine, o disordine, esistente. La borghesia
imprenditoriale formatasi nella congiuntura postbellica statunitense, divenuta
colonna portante della grande potenza mondiale, secondo la visione dell’Autore
e anche oggettivamente, si trova però inaspettatamente sotto scacco … Perché?
Per via della guerra
a baluardo del Vietnam del Sud, contro il Vietnam del Nord, voluta in
ottemperanza della volontà imperiale di garantirsi i mercati, le zone
d’influenza, gli ingenti profitti anche e sopra tutto sul mercato delle armi, anche
da usare come monito contro istanze politiche più inclusive. C’entrano con la
guerra i guantai? Roth sembra credere
all’innocenza di quella categoria e persino di tutta la classe imprenditrice
nella sua totalità, come chi confonde la non colpa personale col disimpegno o
col cinismo politico-sociale che ha
colpe e manca di responsabilità. Infatti per i personaggi il problema diventa
allarmante quando certi loro ben allevati rampolli provano a passare nella
trincea opposta.
Trincee? Dunque guerre, guerre in famiglia, magari guerre in
forma di conflitto di classe, che minaccia di scivolare verso la guerra civile.
Il lettore si
chiede: forse che i produttori di guanti d’America (tanto per dire il settore
più anodino sul quale Roth ha davvero forzato la pazienza del lettore) non
conoscono o non praticano i processi di riconversione produttiva che
puntualmente vanno a scaricarsi sul proletariato in forma di contrazione di
manodopera, di dismissione della medesima e drastica contrazione dei salari? Forse
che gli imprenditori dei più diversi settori non investono in borsa i loro
profitti, per esempio sulle quotazioni delle armi, nelle prospettiva di
acquisire ulteriori profitti, invece di investire in un’economia di pace e di
inclusione sociale? Forse che nel gioco di borsa non mettono a rischio e perdono
… perdono… il lavoro di chi non ha che quello per vivere da umani.
Dove sta almeno l’eco di questo intreccio
complesso e conflittuale nella Pastorale
di Roth?
L’ evento centrale della narrazione si
contorce nella sua esilità: Merry, l’adorata figlia di Seymour Levov, detto lo
Svedese, e di Dawn Dwyer, agiata coppia di imprenditori di rilievo economico e
sociale non più progressivo come per l’addietro, manifesta difficoltà linguistiche e
psicologiche, entra in conflitto con i familiari, fugge da casa per abbracciare
la militanza socio-politica radicale diventando “bombarola” e assassina.
Come
si sviluppa l’educazione politica, per dir così, di Merry, a quel punto della
narrazione? In quale contesto? Un autore può rispondere in termini narrativi a
tale quesito. Ci sarà una realtà sensibile, descrivibile che invera teorie e
punti di vista?
La famiglia Levov,
com’è naturale, nell’apprendere ciò che la figlia verosimilmente ha compiuto,
cade nel più profondo sconforto. Ma, mentre Dawn, la madre, si limita a cadere
in una grave forma di depressione, Seymour è il solo a chiedersi che cosa nei rapporti familiari, nelle
relazioni amicali, nei rapporti della figlia con gli insegnanti e con la scuola,
abbia innescato, dapprima la feroce balbuzie di Merry, e poi il suo progressivo
ipercriticismo verso la madre, con cui intrattiene un rapporto-raffronto ambivalente,
forse oggetto di pesante rimozione, intanto che nella bimba cresceva la donna.
Una situazione che sembra spingere la ragazza verso una caratterizzazione
fisica e psichica di segno opposto rispetto alla madre; il che però accentua il
suo disagio e dunque la tensione critica e l’inclinazione verso la prassi
distruttiva. Ma Merry critica, con la stessa ferocia immatura dell’adolescente,
anche suo padre, benché mantenga con lui un certo dialogo, almeno fino alla
decisione della fuga. Lo critica per la
sua indifferenza verso coloro che la guerra corrompe, impoverisce, uccide
rincalzando il conflitto a un livello più ravvicinato. Merry non riesce a
mettere insieme l’integrità personale del padre, la sua gentilezza d’animo, di
cui lei ha fatto gratificante esperienza, con il fariseismo sociale che a lui
blocca la diretta e totale scelta di campo: una scelta etica mancata. Nella sua
frettolosa ingenuità politica, Merry intuisce la relazione perversa tra status
socioeconomico eminente e sospensione del senso della responsabilità politica e
sociale.
E il padre, solo a
posteriori, ricostruisce il percorso autoformativo intellettuale di Merry
scoprendo una quantità di testi teorici (in Italia gli autori sarebbero stati indicati
come “cattivi maestri”) che lei avrebbe letto e studiato con foga immatura e
senza prefigurarsi mediazioni.
Queste mie
considerazioni saltano fuori dalla lettura in negativo del romanzo: da ciò che
viene eluso da parte dell’Autore. Il testo della narrazione, appare molto
diluito e insistito nell’inseguimento coscienziale di Seymour a caccia delle
minuzie relazionali con la figlia. Anzi l’Autore sembra cadere nell’incredibile
ingenuità di stabilire una relazione di causa/effetto tra il disagio affettivo
e psicologico di Merry e il suo diretto coinvolgimento nelle azioni di
eversione delittuosa. E davvero non si capisce bene se un tale atteggiamento corrisponda
all’esigenza narrativa di evidenziare la postura protettiva di Seymour verso
sua figlia nel raccontarsi la fondamentale incolpevolezza di lei (troppo
intelligente, troppo giudiziosa) attribuendo ad altri il reato di averla usata
come strumento semiconsapevole, oppure se l’Autore voglia sottolineare
l’efficacia pervertitrice della tabe psicologica, allorché vi siano condizioni
esterne e teorie ausiliatrici (la cui
descrizione analitica è, come già detto, logorroica e insieme lacunosa) che ne
sussumano la dirompenza.
Ma un romanzo è un
romanzo, cioè un lavoro dell’immaginario e, per quanto il materiale ideativo peschi
nei vissuti profondi e si valga di
documenti che formano nodo
nell’esperienza e nella visione complessiva di un Autore certamente dotato,
può accadere che esso non acchiappi gli elementi di contraddizione e di scontro
provenienti dal gioco degli interessi sociopolitici emergenti e contrapposti nel
caratterizzare i personaggi; e perciò fallisca la condensazione figurativa e
psicologica forzandoli entro la linearità di una prospettiva troppo soggettiva
(in questo caso il punto di vista di una classe borghese imprenditoriale che
incarna un modello economico fondato sul profitto la cui fonte è sì il lavoro umano,
ma nella condizione di merce).
“Pastorale americana” si rivela favola triste
di un incubo ideologico. La nuvola ideologica invade tutte le prospettive,
oscura il parossismo della competizione che irrigidisce l’immigrato artigiano nella
sua voglia di farcela a tutti i costi (Levov padre), contro un altro immigrato
con la stessa voglia (colleghi, competitori), contro i neri poveri, troppo repressi
e depressi per cadere al laccio della medesima spinta rampante, contro l’erede dell’antico avventuriero, magari
schiavista territorializzato, reso altezzoso dal censo più “old” e nobilitato
dalla pratica del potere istituzionale divenuto dinastico (Orcutt), contro
l’intellettuale critico di cui invidia la presunta libertà, l’immeritato
benessere e l’impunità ideologica e
morale( Shelly Salzman, Marcia, Sheila).
L’Autore appare
affascinato da quella voglia aggressiva, e al momento imbelle, del magnate che riferisce
a sé ogni altro valore, però oscilla se sanzionare il personaggio dominato da
quell’assillo della salvezza del capitale con pennellate di graffiante ironia
sottolineandone il ghignoso compiacimento egotistico (Lou Levov e lo stesso
Jerry in altra categoria), o se, all’opposto, parteggiare per chi nasce
predestinato a divenire magnate, come Seymour, che trova il solco segnato e lì
generosamente spende le sue energie e raccoglie frutti senza farsi troppe
domande, forse anche senza capire bene
la cifra del mondo, o forse anche leggendola, ma raccontandosi la fiaba
che lui ha fatto e fa del suo meglio e che sono gli altri a tradire: i bianchi,
i poliziotti, i neri, quasi tutti casseurs. E nella sfera familiare e di clan
la moglie Dawn tradisce, ma tradiscono anche
gli amici, mentre lui, vittima, incassa
i colpi. Anche Merry forse vittima lo è, rispetto ai soci di eversione. Ma il
tradito deve riconoscersi a sua volta traditore e simile nella perfidia,
facilmente sottovalutata ed elusa.
Infine c’è il nostro
inconscio e l’autoassoluzione preventiva: questo Roth lo rappresenta. Seymour consegna
sua figlia alla furia vendicatrice di suo fratello, Jerry. L’Autore a questo
punto trova la soluzione psicologica più
sottile ed efficace nella resa artistica:
le torsioni di Seymour per scuotersi il peso insostenibile, tanto della Merry
attentatrice, quanto della non redimibile Merry giaina, contaminata e veicolo
di più orrenda polluzione dal mondo dei dannati alla discarica umana in cui si
è gettata, e infine scuotersi l’enormità delle sue perdite perdendo la vita.
Dunque tutto si è sfaldato
e decaduto rapidissimamente nella banalità più triviale intorno e dentro i protagonisti
di questa storia.
E tuttavia Roth
sembra sostenere che se un mondo, creativo, volitivo, regolato, produttivo e
persino virtuoso e candido, è esistito, sono i Lou, i Seymour, le Dawn ad avere
la palma come coraggiosi creatori di progresso e di benessere. Un’esigua parte
sociale pensa di essere la totalità, ma poi si comporta come la sonnambula
scossa nel bel mezzo dell’incubo. Solo che l’incubo è una realtà in esplosione,
non dominabile con ordini di servizio ed esibizioni di titoli di merito inesistenti
Ma se eviti di
essere sommerso da certe deviazioni verbalistiche dell’Autore, vedi gente
incantata sull’ipostasi dell’accumulazione, del successo, dell’espansione
illimitata; gente che non ha avuto né altri occhi né altra religione se non il
proprio profitto, così assorbita nel celebrare i propri feticci da non
accorgersi neppure di nutrire nel proprio seno la loro smentita più clamorosa.
I protagonisti ex
magnati cadono preda di farneticazioni, fughe verbali e insulsi battibecchi. Sia
che comprendano o no le ragioni vere delle convulsioni sociali che li
impauriscono, tendono a occuparsi del loro ancora dorato perimetro o si voltano
indietro come se la nostalgia della frontiera
e del sogno americano sia di nuovo
disponibile per il poi.
È in questa mancanza di presa che si
avverte la debolezza dei molti indugi allo specchio della propria immagine di
classe, di cui Roth elabora curiose sfaccettature senza stare a sufficienza nel
segno.
E sta forse in ciò la tabe della sua stessa
grandezza: averci regalato la rappresentazione palpabile (errore o obiettivo
raggiunto?) dell’idealizzazione narcisistica di classe, condizione della cecità
sociale e storica ritratta in personaggi che non sembrano avere la minima idea,
fuori dalle quotazioni di borsa, di come le
interrelazioni planetarie irrompano a cambiare gli assetti del più
solido quotidiano. In tale ambito spicca l’ottusità psicologica dei
protagonisti, per esempio di Seymour, che si ostina a credere
all’inconsapevolezza di Merry, alle dichiarazioni truffaldine di una Rita Cohen viepiù associata ad Angela Davis
come sua perfida sosia, di Dawn che pretende risolvere la lacerazione affettiva
materna e di ruolo sociale con un lifting e una nuova villa con amante.
Una considerazione speciale merita il
colloquio, o piuttosto l’apparizione di
Angela Davis nella cucina di Seymour. Qui siamo ai limiti dell’incredibile, se
non del farsesco. E qui si può cogliere la farragine piuttosto veloce e un po’
liquidatoria di Roth nei confronti di quegli eventi e delle idee che li
interpretavano e motivavano, come se volesse equipararli agli isterismi dei
visionari più folli. Perciò risulta davvero difficile distinguere il pensiero
analitico dell’Autore dalle reazioni confuse e altalenanti dei protagonisti e
di certo capitalismo.
Per questi motivi viene spontaneo concludere
che la Pastorale Americana sia un canto per voce sola, quella ancestrale dei
fuoriusciti e deportati europei che divenivano coloni e non avevano ancora
iniziato il confinamento e il massacro dei nativi. Fu Lincoln nel 1863 a
proclamare la celebrazione del Ringraziamento come festa di pace civile
inaugurata invece duecento anni prima dai Padri Pellegrini come festa religiosa
Infatti alla pagina 435 del romanzo in oggetto,
dopo lo stucchevole amarcord del colloquio di Dawn con Lou sulla eventuale
scelta religiosa per gli eventuali figli di Dawn e Seymour, da cui
risulterebbe un triste vaticinio sulla vita di Merry, si indica in che cosa
consista la Pastorale americana: nel momento fugace della festa del
Ringraziamento della durata di un giorno, allorché tutti mangiano lo stesso
immenso tacchino, rendono volutamente omaggio all’istituzione suprema che si
eleva incrollabile sopra ogni conflitto. Insomma un’epifania di pace puntiforme.
E qui ancora una volta è evidente la
distopia visiva di Roth che si limita testardamente a considerare solo la
discriminante religiosa tra ebrei e cristiani, come se tutta l’America del Nord
non conoscesse altre specificità umane religiose o razziali, cozzando col fatto
che almeno una macroscopica questione razziale c’era e c’è tuttora, quella con
gli ex schiavi neri e quella non meno lacerante dei pochi nativi sopravvissuti alle
stragi e confinati nelle riserve.
In tal modo la Pastorale americana
di Roth si chiude ideologicamente entro una cortina fumogena per non fare i
conti (artistici) con le istanze di liberazione e inclusione umana, riproponendo
in sostanza la griffe rassicurante e conservatrice del mito yenkee del self-made
man.
Nessun commento:
Posta un commento