domenica 30 agosto 2015

Abeit macht frei - Apologo inedito di Bianca Mannu

Preambolo -1) Avevo dichiarato nell'ultimo articolo DIARIO IN PUBBLICO di alcuni giorni fa che avrei postato alcune mie composizioni non liriche legate alla mia consapevolezza sociale, al mio modo di patirne gli effetti esteriori, ma specialmente interiori, tanto da non poterne prescindere nel fare versi. Se poi alcuni   o tanti eventuali lettori pensano che in queste righe non c'è poesia, beh, senza per forza assolvermi dal peccato di lesa poesia, a loro pre-dico che né i sensi degli umani poveri e impoveriti del mondo, né lo spirito poetico libresco e complice, sono in grado di specchiare cose diverse da quelle che inquietano e tormentano, a meno di non volerle censurare o coprire. 
2) Questo apologo ha un titolo che non vuole essere un memento per la Germania, ma per qualunque situazione di sfruttamento più o meno violenta, pratica di esproprio forzoso e causa dell'impoverimento delle popolazioni. Infatti il lavoro - necessario perché le cose in sé racchiuse negli scrigni della natura diventino cose per noi - renderebbe davvero liberi dalla necessità gli umani, se esso non fosse oggetto di rapina più o meno paludata.
3) L'apologo è molto lungo: sì voleva essere più descrittivo che ideologicamente dichiarativo. Lo proporrò 
in vari post.
Un saluto cordiale ad amici e lettori. B.M.

Arbeit macht frei  

Prologo

Tutte gemelle
come schizzate uguali
da una bocca di trancia
o forse dalla pancia cerebrale
d’un nipote di Prometeo: ore!
Bolle - vuote di fisica sostanza –
 impercettibili ai sensi  -
colme di cabale e segreti –
pretese monde da affetti
di chi per necesità le vende -
nette - come  se per loro natura
non nascessero infette
del palpito animale di viventi -
e tuttavia  costrette
a viaggiare con essi aggrovigliate
incalzate da imperiosi precetti
per consumarsi in noti effetti
percettibili sensibilmente
a vantaggio di prinzipales e acquirenti
molto interessati ma assenti -
vietate al sonno  e al sogno
di innumerevoli  e miseri gerenti
escluse dai naturali appetiti
di sventurate genti: ore! 

Ballata delle ore
I
Ore di lavoro a nascere
Ore di lavoro a crescere
Ore di lavoro a imparare 
a scampare gli scherzi
della cattiva sorte: non sentire
sul collo il fiato della morte
Ore di lavoro a vivere di avanzi
o con quel poco strappato
con molta fatica all’economia
dell’avarissima borghesia
Ore di lavoro a credere
alla “bontà” del Cielo
che troppo alto sale
e dell’uomo quasi orizzontale -
uomo formato capitale
Ore di lavoro a sperare di poter -
adesso o in futuro - lavorare
per vivere e magari conferire…
-squisitamente umano è il sogno
mai divino!-
…conferire segno di merito
alla turpe indigenza  spiovente
dall’a priori celeste seduto sopra i nembi
sul corpo nudo d’un maschio-femmina
d’uomo e sul suo misero contorno
cui si commisura unanime
e corale la caina sentenza:
colpevole presto  lo sarai!
Ore di lavoro eventuale
proroghe in bianco
di necessità impellenti
Ore di lavoro manuale
più simile allo sgobbo infernale
intriso di sudicio - bagnato di sudore
e dello stremo produrre l’orribile tremore
Ore di lavoro - detto intellettuale -
benvenuta  tardo-stimata technè! -
procedura e invenzione
di nuovi utensili e sistemi
per trasformare ogni cosa
ch’era vaga nel pensiero
 in cosa  fruibile ai sensi
e questa - insieme con ogni sbadiglio e fiato
 dei suoi geniali e diligenti facitori -
in piastre d’oro a colmare altri forzieri
Metallo! Insigne specie - cattivante luce -
che nata morta non arruginisce
che  però nemmeno partorisce -
compirà il prodigio di nobilitare
per la gioia del trafficante
tutte le cose che il lavoro ha fatte
e altre che per natura diresti
che han da restare fuori mercatura

venerdì 28 agosto 2015

Se meno che un sogno - inedita di Bianca Mannu

Se meno che un sogno -
forse vago indizio
o refolo
impigliato al rostro
d’una memoria immemore -
si sveglia in un adesso di schianto –
tu – col sangue che fugge – vai -
caparbiamente vai
dietro alla tua fame di vita –
come un gamete all’ovulo…
annusando nella rifa mortale
un profilo d’alba esangue
smentito dalla sorte
sbocciata dall’estro avaro
dei figli del dio maggiore.


Un passaggio per il Nord-
infernale annerirsi dell’azzurro
in un sudario molle.
Infilare  fiato e sistoli
tra morte e morte
per arpionare il volto ghignoso
d’altre pretestuose croci.
Cortina buia – il futuro.
Pietra - il cuore umano
che chiede al ventre l’intelletto


Son convocati a complici gli dei
dai loro piccoli custodi 
armati fino ai denti 
per nuove strategie d’annientamento ?
Davanti gli altari  -
vuote le orbite di sguardo
sopra gli  olocausti -
stanno in attonito silenzio
come chi non sa perché
 il dio frequenti al momento altri distretti
Forse - semplicemente - non sono più
né mai sono esistiti – gli dei –
se non come dito -
troppo umano dito del potere -
puntato (e poi negato)
verso inferni già istituiti.


Sei solo  - uomo.
Tua eternità è la specie.
Tutte le briglie strapperà la specie
dalle mani del piccolo sciamano,
dalle mani del grande imperatore
dalle mani del soldato inferocito
dalle mani dell’avido borghese.
Ma sarà il solco praticato
nel ricordo  delle piccole vittime
a custodire il seme delle piante
più infestanti. 

 Noticina- Poesia già postata in aprile, il cui senso va correlato con quanto accade ai profughi.

Cara Europa, ti scrivo - Cartolina di Bianca Mannu

Cara Europa, ti scrivo
per dirti che così non va!
Non pianti né lamenti 
lancia il tuo chiaro impegno
per la vita delle genti !
                              Bianca Mannu

giovedì 27 agosto 2015

Diario in pubblico di Bianca Mannu

Durante  alcune mie letture pubbliche ho avvertito una sorta di insofferenza per le tematiche poco intimistiche e non liriche di certe mie composizioni in versi, quasi che potessero guastare,come una stonatura, il carattere festoso - tra godereccio e sentimentale - degli incontri poetici.
Ecco che allora ho voluto sottopormi a una riflessione pubblica nella quale mi son permessa di raccontare qualche tratto della mia storia personale sotto il profilo del mio impegno letterario.
Mi scuso per la lunghezza, ma non avrei saputo argomentare in più breve spazio.
*******

Parecchie volte mi sono posta la questione: può o non può l’impulso poetico – dunque il poeta - misurarsi anche con la realtà sociale politica scientifica etica del mondo in cui vive ? E, se sì, a quali condizioni?
Al primo troncone del quesito rispondo sì. E lo testimoniano parecchie mie composizioni, alcune delle quali postate in questo blog.
Apro un inciso sul mio percorso personale dentro la scrittura. 
L’esigenza della scrittura sorse precocemente per desiderio di riprodurre in proprio certe cadenze e ritmi di cui ero destinataria ad opera degli adulti a casa, all’asilo e a scuola. La propensione  proseguì  e si rafforzò nell’adolescenza e qui ebbero peso le inquietudini personali, ma passate al setaccio di una letteratura poetica antica, aulica, paludata che la scuola propinava come una medicina indispensabile per l’apprendimento linguistico, ma che si guardava dal contestualizzare storicamente e criticamente, offrendola come modello assoluto sotto tutti i punti di vista. Poiché io ero una spugna e non avevo referenti cosi credibili e importanti come la scuola, assorbivo senza criterio; e lascio immaginare quale ibrida mostruosità fosse il risultato, di cui ero peraltro inconsapevole.
Fu inaspettato e particolarmente frustrante il modo con cui presi coscienza dell’ effetto, tra l’assurdo e il ridicolo, che i miei testi fecero sull’unico lettore e giudice, per il quale provavo assoluta stima. Lo scotto da onorare non fu solo la loro distruzione. Una sorta di nausea  mi bloccò ogni impulso e desiderio di scrivere, in versi o prosa, alcunché riguardasse la mia vita emotiva e intima, provando però, per quella impossibilità, un dolore così bruciante come se una parte vitale di me si fosse annientata e mi avesse lasciato una cicatrice viva e sensibilmente molesta. Inoltre cominciai ad avvertire una potente repulsione per tutti gli scritti  in versi, anche di autori che avevo amato e imparato a memoria, come se la cosa chiamata poesia mi avesse ingannato e tradito o io, per stupidità, l’avessi coperta della mia vergogna.
Per fortuna l’interesse e la capacità di discriminare emozioni e sentimenti si conservò nel quotidiano consentendomi di rifarmi con la lettura della grande narrativa contemporanea, ricca di poesia. Leggevo con avidità e mi trasferivo in quelle storie. Contemporaneamente, per necessità professionale, leggevo e studiavo i testi narrativi e poetici per l’infanzia (per esempio, Collodi, Rodari) dato che ero maestra, e poeti stranieri, come Lee Masters, Nazim Hikmet, Sāndor Petöfi e  altri, i quali in traduzione, risultavano accessibili a e fruibili dagli scolari delle classi finali della scuola Primaria. In quel contesto mi allontanavo dallo smacco e dalle mie idiosincrasie letterarie. 
Poiché non volevo una scuola noiosa, facevo del mio meglio per immedesimarmi nei bambini tentando di capire che cosa del linguaggio potesse attirarli e per quali vie fossero motivati a impadronirsi di certi ritmi fino a ripeterli e a piegarli ai loro usi giocosi, oppure a incantarsi al suono di una parola o di un catena di parole, a essere attratti da un significato.
In breve, sono tornata alla tecnica elementare del verso  in questo modo , diciamo, traverso e ho ricominciato a comporre con loro e per loro in loro presenza, filastrocche, canzoncine, fiabette, senza provare alcuna frustrazione o senso di impotenza, senza preoccuparmi troppo del senso, del risultato. Era rasserenante immergersi in quella coralità di voci. Alcuni scolari, in una seconda elementare, addirittura mi cantavano certe loro effusioni, come faceva mia figlia di quattro anni quando viaggiavamo in auto fra i campi in primavera. Mi dimenticavo completamente di me, della mia ferita di poetessa non nata.
Ecco che però ricominciavo a leggere e a gustare in privato qualche composizione in calce alla tragica vita di Silvia Plath, certe poesie di Emily Dickinson, ma con iniziali tremore e paura: non c’erano i miei alunni a farmi da ciambella di salvataggio.
Per completezza di racconto dirò che un altro evento personale  molto doloroso e importante (quasi contemporaneo a quell’iniziale felice periodo professionale che altrettanto felicemente continuò), vissuto in una condizione di assoluta solitudine umana e accompagnato dalla mia convinzione di dovermene fare carico, a causa – dicevo - della mia umana inadeguatezza, diede una ulteriore sterzata anche alla mia relazione con la letteratura. Che non sempre i mali nuocciano soltanto? 
Ebbene fu quell'accadimento a generare una tale disperazione da resuscitare la mia voglia di scrivere di me, forse per concedermi qualche tiepida autoconsolazione. Dapprima, prosa: lettere, diari, resoconti  di sogni, racconti, progetti di altri racconti, inframmezzati a tesine di studio, esiti di ricerche, e scritti per la tesi. Intanto lentamente, a intervalli  lunghi e molto timidamente, ricominciavo a scrivere anche in versi liberi. Dapprima erano brevi canti lamentosi. Provavo un senso di noia a rileggerli. Ero arrabbiata e non trovavo la strada per dar voce alla mia rabbia con le parole che la raffigurassero davvero.  Allora mi fingevo altra persona, diversa da me, più vecchia o meno istruita, dislocata in geografie diverse. Rileggevo e, scontenta, rielaboravo più e più volte, tanto che a furia di rimaneggiamenti i testi cambiavano natura e poi li dissolvevo. Forse non esistono più neanche come documento. Ma la voglia di scrivere non mi ha più abbandonata e ne sono felice.
Con questo primo resoconto personale ho fatto riferimento alla prima fonte di stimolo del canto lirico: il narcisismo secondario che caratterizza l’adolescenza. Storicamente la sua configurazione culturale e letteraria si delinea e sviluppa specialmente nel movimento romantico tedesco, ma in Italia trova la sua massima e pressoché solitaria espressione nelle liriche leopardiane. Suoi corrispettivi in musica sono l’opera lirica italiana e i lieder in Germania.
Ma così come ciascuno di noi perviene alla maturità psicologica liberando energie libidiche per scopi diversi dal proprio io, anche storicamente i mutamenti sociali, l’emergere della questione operaia e la progressiva alfabetizzazione delle masse cittadine, nel primo e, ancor di più, nel secondo Dopoguerra, s’impongono alla sensibilità degli artisti e dei poeti. Costoro a causa della diversa natura delle esperienze culturali e sociali si sentono sollecitati a condividere problemi e aspetti dell’umano che la cultura anteriore aveva ignorato. Dunque le poetiche tendono a uscire dal ristretto ambito psicologico individuale per abbracciare temi di respiro più ampio che ricomprendono in chiave più distaccata e critica i problemi della soggettività e dei suoi contesti.
Perciò non si comprende la ragione di un sordo attardarsi di certi artisti oggi viventi  su temi lirici centrati su una individualità tutta risolta in sentimentalismi senza tempo, su suggestioni naturalistiche che sembrano uscite dai dipinti preindustriali, lanciati a riproporre  come inalterabili certe concezioni sociali e interpersonali invece obsolete.  
Adesso dovrei rispondere alla seconda parte del quesito, ma in parte credo di aver dato già una risposta che, naturalmente, non vale come regola generale. Però sono convinta di questo: bisogna uscire dal rash psicologico personale, il quale, come la mia prima difficile esperienza mi ha insegnato, è un filtro distorto e distorcente, che spesso riflette immagini in cui ci compiaciamo, ma che sono maschere di  qualcuno che non esiste o, se esiste, esiste diversamente. Insomma bisogna prendere le distanze dall’immediato e da ciò che appare subito bello, turgido, e che magari è una reminiscenza non riconosciuta e non controllata di un’altra cultura e di un altro tempo, che risulta incongrua come una voce prestata, di cui non conosciamo lo spessore e il prezzo. Occorre in qualche modo fare i conti con la verità che mai si dichiara come tale, che esige a volte il nostro tortuoso lavoro di inclusione di ambiti che ci chiamano in causa , che non è mai esaustiva, ma ambigua, parziale  eppure indispensabile anche per scrivere una fiaba, per esprimere una suggestione estetica,  un sentimento, un’idea, una dimensione della vita che la banalizzazione del senso comune o l’enfasi estatica proiettata  dal richiamo di modelli collaudati nascondono.
Fare versi o scrivere per narrare è esporsi a correre molti rischi. Quello che temiamo di più è di non riscuotere l’approvazione estetica immediata; ma ciò, a torto. 

venerdì 14 agosto 2015

Sconvolgimenti - inedita di Bianca Mannu



Prima ancora che salga
sulla cima dello Zenit
il sole equivoca trascina
la sua luce - oscura madre d’ombra –
da un meridiano all’altro
incrociando la lama
dei paralleli …perfidi.
Gli sfiati irraggia curvi a suo capriccio
ma cadono incessanti
in mano agli oligarchi  come ore
con mani piedi corpo e mente
da impiegare in proprio
vantaggiosamente.

E il vento - che forse la terra
generò in copula col cielo
e lo inviò in legazione d’atomi
di polveri e di pollini vitali -
ora si avvita sopra luoghi
di malsana negligenza
repentino di nembi e di procelle
spinge i precipiti succhielli
delle borse  sul loro nihil -
quale “cosa del niente”-
venduto e stivato
come massimo valore
in autoproduzione
dentro i campanili-madie
della credenza universale.

E l’acqua all’ indietro si solleva
come in una fisica invertita
a maledire furiosa  i malcostrutti
d’ una genia avida e maligna
che al colmo del possesso
ne sciupa l’abbondanza - ne abusa
senza amarla - la costringe chiusa
prigioniera sotto le cantine
o la devia dentro le chiuse
a ruggire in precipizi male calcolati -
ne fa laghi privati e la nega
alle terre e ai popoli assetati
la fa sua complice in latenti
conflitti di tipo coloniale.
A quella di mare comanda di fare
da baluardo contro chi sconfina
e -in caso d’’evenienza-  di giustiziare
in modo anonimo e pulito
intere ciurme di poveri felloni
che per alcuni nostri patrioti
solo reclusi o morti sono buoni.  
Misera acqua - più che sorella – putta -
la più rotta alle faccende sporche
di questa civiltà barbina
che la destina – certo non a caso-
a stemperare - silenti - maligni sversamenti
lungo le sterrate pendici dei monti
a lavaggi frequenti e docce maniacali
di magnati di boss e di vari pescicane
nei vasti bagni di uso personale.
Misera acqua! sembra destinata -
 nel presente - a  liberare
ogni schifezza
da presunti germi
di autentica nettezza.

Ma è in ogni me che sole vento e acqua
formano una miscela ancor più … micidiale
È dentro me che il cielo maledice
la sporca zolla
che mi morde il tempo
e l’umore della vita
E dell’umano dentro me
germina il pavore
 prospera l’infelice acquiescenza
al quotidiano orrore.


martedì 11 agosto 2015

Nostra Donna de Caput'e susu ( stralcio) nel Logudorese di Antonio Altana

NotazioneAntonio scrive "Tropu bella pro non la fagher in sardu logudoresu"... 
                   Me lo appunto qui sulla fronte come un emblema! E per quei sardi che si trovino a 
                   incrociare questo testo.


In rughe peri muros de sa manca 
l'apo giuta tra chizos e dimandas.
Tratare•nde crispas est che pasare
in pedriscia de giannile iscanzidu.

Nde alenat sulu de rica pobertade
aunidu a sensos de ruzas bonesas
nudas de s'evidentzia de su risu.
Ma nde cumparit giovania cumprida
che iscaza dorada intro sa roca.

Non b'at atera mustra chi li lugat.
E pro chi - siat ritagliu a mesa petza -
nd'istupat dae pabiru cale bia.
A mirare•li anneu. Non sessat 
ne acabbat de acisare.

E sende muda sighede mudine -
sa sua mudesa tramat irrugadas
de arrejonos cun sa laras istrinta
in unu narrer chi paret nostranu.
Ma su sensu - chi tucat tra su bider
e s'unfiore presu tra sa buca -
fuet a sa rete de sas traduissiones.

In logu de aùras asulinas
abisu a sas madonnas cun su fizu
issa mustrat trastos de betzas faturas
de dea pagana e zenia terranza -
femina nostra de Cabu 'e Susu...

Ch'ischit 
de tancas isperdidas tra sos montes
cun frinas trabentadas tra suerzos
brincat pelcias semidas de porcrabos.
Compudat putos de abba inchejada
e bida e morte - chentza onnipotentzia.

giovedì 6 agosto 2015

Da Nostra Donna de Caput‘e Susu - Stralcio - di Bianca Mannu

Da qualche tempo - intanto che spennello -
tengo per compagna un’ insciallata scura
in un brandello di vecchio quotidiano
ripescato dal cesto dei rifiuti.
«Quest’impronta da strega m’invaghisce!»
Così …
l’ ho crocifissa al muro di sinistra
a portata d’occhi e di consultazione.
Frequentarne il piglio è come sostare
sulla soglia d’un uscio appena schiuso.

Ne spira un flusso di nobiltà plebea
unito a un senso di ruvida beltà
spoglia dell’evidenza del sorriso.
Ma ne traluce gioventù matura
come una mica d’oro nella roccia.

Nessun altro fregio brilla addosso a lei.
E - benché tagliata a mezzo busto -
emerge dalla carta come viva.
A fissarla inquieta. Ma non cessa
d’incantare.

E mentre tace e insiste nel tacere-
il suo silenzio intesse incroci
di discorso tenuti a bocca chiusa
in un idioma che sembra familiare.
Ma il senso – viaggiando tra lo sguardo
e il turgore castigato della bocca -
sfugge alla rete delle traduzioni.

In luogo di certa aura celestiale
comune alle Madonne col Bambino
lei mostra tratti di più antica fattura-
dea pagana d’ ascendenza terragna -
una Nostra Donna de Caput ‘e susu …

Che sa
di tanche sperse in mezzo ai monti
avversa i venti nelle sugherete
varca dirupi e piste di cinghiali.
Governa i pozzi dell’acqua lustrale
e vita e morte - senza onnipotenza.


Noticina - Fa parte di un lungo poemetto di circa 260 versi, scritto intorno al 2006 e facente parte di un'intera raccolta di poemetti che mi auguro di pubblicare a breve. Sono anche l'esito del mio ambivalente rapporto con la mia gente, la mia terra e specialmente il mio prendere le distanze da un folclore ingombrante, perché reso inautentico dal "mercato culturale".B.M.