Ecco che allora ho voluto sottopormi a una riflessione pubblica nella quale mi son permessa di raccontare qualche tratto della mia storia personale sotto il profilo del mio impegno letterario.
Mi scuso per la lunghezza, ma non avrei saputo argomentare in più breve spazio.
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Parecchie volte mi
sono posta la questione: può o non può l’impulso poetico – dunque il poeta - misurarsi
anche con la realtà sociale politica scientifica etica del mondo in cui vive ?
E, se sì, a quali condizioni?
Al primo troncone
del quesito rispondo sì. E lo testimoniano parecchie mie composizioni, alcune delle quali postate in questo blog.
Apro un inciso sul
mio percorso personale dentro la scrittura.
L’esigenza della scrittura sorse
precocemente per desiderio di riprodurre in proprio certe cadenze e ritmi di
cui ero destinataria ad opera degli adulti a casa, all’asilo e a scuola. La
propensione proseguì e si rafforzò nell’adolescenza e qui ebbero
peso le inquietudini personali, ma passate al setaccio di una letteratura
poetica antica, aulica, paludata che la scuola propinava come una medicina
indispensabile per l’apprendimento linguistico, ma che si guardava dal
contestualizzare storicamente e criticamente, offrendola come modello assoluto
sotto tutti i punti di vista. Poiché io ero una spugna e non avevo referenti
cosi credibili e importanti come la scuola, assorbivo senza criterio; e lascio
immaginare quale ibrida mostruosità fosse il risultato, di cui ero peraltro
inconsapevole.
Fu inaspettato e particolarmente
frustrante il modo con cui presi coscienza dell’ effetto, tra l’assurdo e il
ridicolo, che i miei testi fecero sull’unico lettore e giudice, per il quale provavo assoluta stima. Lo scotto da onorare non fu
solo la loro distruzione. Una sorta di nausea
mi bloccò ogni impulso e desiderio di scrivere, in versi o prosa, alcunché
riguardasse la mia vita emotiva e intima, provando però, per quella
impossibilità, un dolore così bruciante come se una parte vitale di me si fosse
annientata e mi avesse lasciato una cicatrice viva e sensibilmente molesta. Inoltre
cominciai ad avvertire una potente repulsione per tutti gli scritti in versi, anche di autori che avevo amato e
imparato a memoria, come se la cosa chiamata poesia mi avesse ingannato e
tradito o io, per stupidità, l’avessi coperta della mia vergogna.
Per fortuna
l’interesse e la capacità di discriminare emozioni e sentimenti si conservò nel
quotidiano consentendomi di rifarmi con la lettura della grande narrativa
contemporanea, ricca di poesia. Leggevo con avidità e mi trasferivo in quelle
storie. Contemporaneamente, per necessità professionale, leggevo e studiavo i testi narrativi e poetici
per l’infanzia (per esempio, Collodi, Rodari) dato che ero maestra, e poeti stranieri,
come Lee Masters, Nazim Hikmet, Sāndor Petöfi e
altri, i quali in traduzione, risultavano accessibili a e fruibili dagli
scolari delle classi finali della scuola Primaria. In quel contesto mi
allontanavo dallo smacco e dalle mie idiosincrasie letterarie.
Poiché non volevo
una scuola noiosa, facevo del mio meglio per immedesimarmi nei bambini tentando
di capire che cosa del linguaggio potesse attirarli e per quali vie fossero
motivati a impadronirsi di certi ritmi fino a ripeterli e a piegarli ai loro
usi giocosi, oppure a incantarsi al suono di una parola o di un catena di
parole, a essere attratti da un significato.
In breve, sono
tornata alla tecnica elementare del verso in questo modo , diciamo, traverso e ho
ricominciato a comporre con loro e per loro in loro presenza, filastrocche, canzoncine,
fiabette, senza provare alcuna frustrazione o senso di impotenza, senza
preoccuparmi troppo del senso, del risultato. Era rasserenante immergersi in quella
coralità di voci. Alcuni scolari, in una seconda elementare, addirittura mi
cantavano certe loro effusioni, come faceva mia figlia di quattro anni quando
viaggiavamo in auto fra i campi in primavera. Mi dimenticavo completamente di
me, della mia ferita di poetessa non nata.
Ecco che però ricominciavo
a leggere e a gustare in privato qualche composizione in calce alla tragica
vita di Silvia Plath, certe poesie di Emily Dickinson, ma con iniziali tremore
e paura: non c’erano i miei alunni a farmi da ciambella di salvataggio.
Per completezza di
racconto dirò che un altro evento personale molto doloroso e importante (quasi
contemporaneo a quell’iniziale felice periodo professionale che altrettanto
felicemente continuò), vissuto in una condizione di assoluta solitudine umana e
accompagnato dalla mia convinzione di dovermene fare carico, a causa – dicevo -
della mia umana inadeguatezza, diede una ulteriore sterzata anche alla mia
relazione con la letteratura. Che non sempre i mali nuocciano soltanto?
Ebbene
fu quell'accadimento a generare una tale disperazione da resuscitare la mia voglia di
scrivere di me, forse per concedermi qualche tiepida autoconsolazione. Dapprima,
prosa: lettere, diari, resoconti di
sogni, racconti, progetti di altri racconti, inframmezzati a tesine di studio,
esiti di ricerche, e scritti per la tesi. Intanto lentamente, a intervalli lunghi e molto timidamente, ricominciavo a
scrivere anche in versi liberi. Dapprima erano brevi canti lamentosi. Provavo
un senso di noia a rileggerli. Ero arrabbiata e non trovavo la strada per dar
voce alla mia rabbia con le parole che la raffigurassero davvero. Allora mi fingevo altra persona, diversa da
me, più vecchia o meno istruita, dislocata in geografie diverse. Rileggevo e, scontenta,
rielaboravo più e più volte, tanto che a furia di rimaneggiamenti i testi
cambiavano natura e poi li dissolvevo. Forse non esistono più neanche come
documento. Ma la voglia di scrivere non mi ha più abbandonata e ne sono felice.
Con questo primo
resoconto personale ho fatto riferimento alla prima fonte di stimolo del canto
lirico: il narcisismo secondario che caratterizza l’adolescenza. Storicamente
la sua configurazione culturale e letteraria si delinea e sviluppa specialmente
nel movimento romantico tedesco, ma in Italia trova la sua massima e pressoché
solitaria espressione nelle liriche leopardiane. Suoi corrispettivi in musica
sono l’opera lirica italiana e i lieder in Germania.
Ma
così come ciascuno di noi perviene alla maturità psicologica liberando energie
libidiche per scopi diversi dal proprio io, anche storicamente i mutamenti sociali, l’emergere
della questione operaia e la progressiva alfabetizzazione delle masse cittadine,
nel primo e, ancor di più, nel secondo Dopoguerra, s’impongono alla sensibilità
degli artisti e dei poeti. Costoro a causa della diversa natura delle
esperienze culturali e sociali si sentono sollecitati a condividere problemi e
aspetti dell’umano che la cultura anteriore aveva ignorato. Dunque le poetiche tendono
a uscire dal ristretto ambito psicologico individuale per abbracciare temi di
respiro più ampio che ricomprendono in
chiave più distaccata e critica i problemi della soggettività e dei suoi
contesti.
Perciò non si
comprende la ragione di un sordo attardarsi di certi artisti oggi viventi su temi
lirici centrati su una individualità tutta risolta in sentimentalismi senza
tempo, su suggestioni naturalistiche che sembrano uscite dai dipinti
preindustriali, lanciati a riproporre come inalterabili certe concezioni sociali e interpersonali invece obsolete.
Adesso dovrei rispondere
alla seconda parte del quesito, ma in parte credo di aver dato già una risposta
che, naturalmente, non vale come regola generale. Però sono convinta di questo:
bisogna uscire dal rash psicologico personale, il quale, come la mia
prima difficile esperienza mi ha insegnato, è un filtro distorto e distorcente,
che spesso riflette immagini in cui ci compiaciamo, ma che sono maschere
di qualcuno che non esiste o, se esiste,
esiste diversamente. Insomma bisogna prendere le distanze dall’immediato e da
ciò che appare subito bello, turgido, e che magari è una reminiscenza non
riconosciuta e non controllata di un’altra cultura e di un altro tempo, che
risulta incongrua come una voce prestata, di cui non conosciamo lo spessore e
il prezzo. Occorre in qualche modo fare i conti con la verità che mai si
dichiara come tale, che esige a volte il nostro tortuoso lavoro di inclusione di
ambiti che ci chiamano in causa , che non è mai esaustiva, ma ambigua, parziale eppure indispensabile anche per scrivere una
fiaba, per esprimere una suggestione estetica,
un sentimento, un’idea, una dimensione della vita che la banalizzazione
del senso comune o l’enfasi estatica proiettata
dal richiamo di modelli collaudati nascondono.
Fare versi o
scrivere per narrare è esporsi a correre molti rischi. Quello che temiamo di
più è di non riscuotere l’approvazione estetica immediata; ma ciò, a torto.
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