giovedì 27 agosto 2015

Diario in pubblico di Bianca Mannu

Durante  alcune mie letture pubbliche ho avvertito una sorta di insofferenza per le tematiche poco intimistiche e non liriche di certe mie composizioni in versi, quasi che potessero guastare,come una stonatura, il carattere festoso - tra godereccio e sentimentale - degli incontri poetici.
Ecco che allora ho voluto sottopormi a una riflessione pubblica nella quale mi son permessa di raccontare qualche tratto della mia storia personale sotto il profilo del mio impegno letterario.
Mi scuso per la lunghezza, ma non avrei saputo argomentare in più breve spazio.
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Parecchie volte mi sono posta la questione: può o non può l’impulso poetico – dunque il poeta - misurarsi anche con la realtà sociale politica scientifica etica del mondo in cui vive ? E, se sì, a quali condizioni?
Al primo troncone del quesito rispondo sì. E lo testimoniano parecchie mie composizioni, alcune delle quali postate in questo blog.
Apro un inciso sul mio percorso personale dentro la scrittura. 
L’esigenza della scrittura sorse precocemente per desiderio di riprodurre in proprio certe cadenze e ritmi di cui ero destinataria ad opera degli adulti a casa, all’asilo e a scuola. La propensione  proseguì  e si rafforzò nell’adolescenza e qui ebbero peso le inquietudini personali, ma passate al setaccio di una letteratura poetica antica, aulica, paludata che la scuola propinava come una medicina indispensabile per l’apprendimento linguistico, ma che si guardava dal contestualizzare storicamente e criticamente, offrendola come modello assoluto sotto tutti i punti di vista. Poiché io ero una spugna e non avevo referenti cosi credibili e importanti come la scuola, assorbivo senza criterio; e lascio immaginare quale ibrida mostruosità fosse il risultato, di cui ero peraltro inconsapevole.
Fu inaspettato e particolarmente frustrante il modo con cui presi coscienza dell’ effetto, tra l’assurdo e il ridicolo, che i miei testi fecero sull’unico lettore e giudice, per il quale provavo assoluta stima. Lo scotto da onorare non fu solo la loro distruzione. Una sorta di nausea  mi bloccò ogni impulso e desiderio di scrivere, in versi o prosa, alcunché riguardasse la mia vita emotiva e intima, provando però, per quella impossibilità, un dolore così bruciante come se una parte vitale di me si fosse annientata e mi avesse lasciato una cicatrice viva e sensibilmente molesta. Inoltre cominciai ad avvertire una potente repulsione per tutti gli scritti  in versi, anche di autori che avevo amato e imparato a memoria, come se la cosa chiamata poesia mi avesse ingannato e tradito o io, per stupidità, l’avessi coperta della mia vergogna.
Per fortuna l’interesse e la capacità di discriminare emozioni e sentimenti si conservò nel quotidiano consentendomi di rifarmi con la lettura della grande narrativa contemporanea, ricca di poesia. Leggevo con avidità e mi trasferivo in quelle storie. Contemporaneamente, per necessità professionale, leggevo e studiavo i testi narrativi e poetici per l’infanzia (per esempio, Collodi, Rodari) dato che ero maestra, e poeti stranieri, come Lee Masters, Nazim Hikmet, Sāndor Petöfi e  altri, i quali in traduzione, risultavano accessibili a e fruibili dagli scolari delle classi finali della scuola Primaria. In quel contesto mi allontanavo dallo smacco e dalle mie idiosincrasie letterarie. 
Poiché non volevo una scuola noiosa, facevo del mio meglio per immedesimarmi nei bambini tentando di capire che cosa del linguaggio potesse attirarli e per quali vie fossero motivati a impadronirsi di certi ritmi fino a ripeterli e a piegarli ai loro usi giocosi, oppure a incantarsi al suono di una parola o di un catena di parole, a essere attratti da un significato.
In breve, sono tornata alla tecnica elementare del verso  in questo modo , diciamo, traverso e ho ricominciato a comporre con loro e per loro in loro presenza, filastrocche, canzoncine, fiabette, senza provare alcuna frustrazione o senso di impotenza, senza preoccuparmi troppo del senso, del risultato. Era rasserenante immergersi in quella coralità di voci. Alcuni scolari, in una seconda elementare, addirittura mi cantavano certe loro effusioni, come faceva mia figlia di quattro anni quando viaggiavamo in auto fra i campi in primavera. Mi dimenticavo completamente di me, della mia ferita di poetessa non nata.
Ecco che però ricominciavo a leggere e a gustare in privato qualche composizione in calce alla tragica vita di Silvia Plath, certe poesie di Emily Dickinson, ma con iniziali tremore e paura: non c’erano i miei alunni a farmi da ciambella di salvataggio.
Per completezza di racconto dirò che un altro evento personale  molto doloroso e importante (quasi contemporaneo a quell’iniziale felice periodo professionale che altrettanto felicemente continuò), vissuto in una condizione di assoluta solitudine umana e accompagnato dalla mia convinzione di dovermene fare carico, a causa – dicevo - della mia umana inadeguatezza, diede una ulteriore sterzata anche alla mia relazione con la letteratura. Che non sempre i mali nuocciano soltanto? 
Ebbene fu quell'accadimento a generare una tale disperazione da resuscitare la mia voglia di scrivere di me, forse per concedermi qualche tiepida autoconsolazione. Dapprima, prosa: lettere, diari, resoconti  di sogni, racconti, progetti di altri racconti, inframmezzati a tesine di studio, esiti di ricerche, e scritti per la tesi. Intanto lentamente, a intervalli  lunghi e molto timidamente, ricominciavo a scrivere anche in versi liberi. Dapprima erano brevi canti lamentosi. Provavo un senso di noia a rileggerli. Ero arrabbiata e non trovavo la strada per dar voce alla mia rabbia con le parole che la raffigurassero davvero.  Allora mi fingevo altra persona, diversa da me, più vecchia o meno istruita, dislocata in geografie diverse. Rileggevo e, scontenta, rielaboravo più e più volte, tanto che a furia di rimaneggiamenti i testi cambiavano natura e poi li dissolvevo. Forse non esistono più neanche come documento. Ma la voglia di scrivere non mi ha più abbandonata e ne sono felice.
Con questo primo resoconto personale ho fatto riferimento alla prima fonte di stimolo del canto lirico: il narcisismo secondario che caratterizza l’adolescenza. Storicamente la sua configurazione culturale e letteraria si delinea e sviluppa specialmente nel movimento romantico tedesco, ma in Italia trova la sua massima e pressoché solitaria espressione nelle liriche leopardiane. Suoi corrispettivi in musica sono l’opera lirica italiana e i lieder in Germania.
Ma così come ciascuno di noi perviene alla maturità psicologica liberando energie libidiche per scopi diversi dal proprio io, anche storicamente i mutamenti sociali, l’emergere della questione operaia e la progressiva alfabetizzazione delle masse cittadine, nel primo e, ancor di più, nel secondo Dopoguerra, s’impongono alla sensibilità degli artisti e dei poeti. Costoro a causa della diversa natura delle esperienze culturali e sociali si sentono sollecitati a condividere problemi e aspetti dell’umano che la cultura anteriore aveva ignorato. Dunque le poetiche tendono a uscire dal ristretto ambito psicologico individuale per abbracciare temi di respiro più ampio che ricomprendono in chiave più distaccata e critica i problemi della soggettività e dei suoi contesti.
Perciò non si comprende la ragione di un sordo attardarsi di certi artisti oggi viventi  su temi lirici centrati su una individualità tutta risolta in sentimentalismi senza tempo, su suggestioni naturalistiche che sembrano uscite dai dipinti preindustriali, lanciati a riproporre  come inalterabili certe concezioni sociali e interpersonali invece obsolete.  
Adesso dovrei rispondere alla seconda parte del quesito, ma in parte credo di aver dato già una risposta che, naturalmente, non vale come regola generale. Però sono convinta di questo: bisogna uscire dal rash psicologico personale, il quale, come la mia prima difficile esperienza mi ha insegnato, è un filtro distorto e distorcente, che spesso riflette immagini in cui ci compiaciamo, ma che sono maschere di  qualcuno che non esiste o, se esiste, esiste diversamente. Insomma bisogna prendere le distanze dall’immediato e da ciò che appare subito bello, turgido, e che magari è una reminiscenza non riconosciuta e non controllata di un’altra cultura e di un altro tempo, che risulta incongrua come una voce prestata, di cui non conosciamo lo spessore e il prezzo. Occorre in qualche modo fare i conti con la verità che mai si dichiara come tale, che esige a volte il nostro tortuoso lavoro di inclusione di ambiti che ci chiamano in causa , che non è mai esaustiva, ma ambigua, parziale  eppure indispensabile anche per scrivere una fiaba, per esprimere una suggestione estetica,  un sentimento, un’idea, una dimensione della vita che la banalizzazione del senso comune o l’enfasi estatica proiettata  dal richiamo di modelli collaudati nascondono.
Fare versi o scrivere per narrare è esporsi a correre molti rischi. Quello che temiamo di più è di non riscuotere l’approvazione estetica immediata; ma ciò, a torto. 

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