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giovedì 27 agosto 2015

Diario in pubblico di Bianca Mannu

Durante  alcune mie letture pubbliche ho avvertito una sorta di insofferenza per le tematiche poco intimistiche e non liriche di certe mie composizioni in versi, quasi che potessero guastare,come una stonatura, il carattere festoso - tra godereccio e sentimentale - degli incontri poetici.
Ecco che allora ho voluto sottopormi a una riflessione pubblica nella quale mi son permessa di raccontare qualche tratto della mia storia personale sotto il profilo del mio impegno letterario.
Mi scuso per la lunghezza, ma non avrei saputo argomentare in più breve spazio.
*******

Parecchie volte mi sono posta la questione: può o non può l’impulso poetico – dunque il poeta - misurarsi anche con la realtà sociale politica scientifica etica del mondo in cui vive ? E, se sì, a quali condizioni?
Al primo troncone del quesito rispondo sì. E lo testimoniano parecchie mie composizioni, alcune delle quali postate in questo blog.
Apro un inciso sul mio percorso personale dentro la scrittura. 
L’esigenza della scrittura sorse precocemente per desiderio di riprodurre in proprio certe cadenze e ritmi di cui ero destinataria ad opera degli adulti a casa, all’asilo e a scuola. La propensione  proseguì  e si rafforzò nell’adolescenza e qui ebbero peso le inquietudini personali, ma passate al setaccio di una letteratura poetica antica, aulica, paludata che la scuola propinava come una medicina indispensabile per l’apprendimento linguistico, ma che si guardava dal contestualizzare storicamente e criticamente, offrendola come modello assoluto sotto tutti i punti di vista. Poiché io ero una spugna e non avevo referenti cosi credibili e importanti come la scuola, assorbivo senza criterio; e lascio immaginare quale ibrida mostruosità fosse il risultato, di cui ero peraltro inconsapevole.
Fu inaspettato e particolarmente frustrante il modo con cui presi coscienza dell’ effetto, tra l’assurdo e il ridicolo, che i miei testi fecero sull’unico lettore e giudice, per il quale provavo assoluta stima. Lo scotto da onorare non fu solo la loro distruzione. Una sorta di nausea  mi bloccò ogni impulso e desiderio di scrivere, in versi o prosa, alcunché riguardasse la mia vita emotiva e intima, provando però, per quella impossibilità, un dolore così bruciante come se una parte vitale di me si fosse annientata e mi avesse lasciato una cicatrice viva e sensibilmente molesta. Inoltre cominciai ad avvertire una potente repulsione per tutti gli scritti  in versi, anche di autori che avevo amato e imparato a memoria, come se la cosa chiamata poesia mi avesse ingannato e tradito o io, per stupidità, l’avessi coperta della mia vergogna.
Per fortuna l’interesse e la capacità di discriminare emozioni e sentimenti si conservò nel quotidiano consentendomi di rifarmi con la lettura della grande narrativa contemporanea, ricca di poesia. Leggevo con avidità e mi trasferivo in quelle storie. Contemporaneamente, per necessità professionale, leggevo e studiavo i testi narrativi e poetici per l’infanzia (per esempio, Collodi, Rodari) dato che ero maestra, e poeti stranieri, come Lee Masters, Nazim Hikmet, Sāndor Petöfi e  altri, i quali in traduzione, risultavano accessibili a e fruibili dagli scolari delle classi finali della scuola Primaria. In quel contesto mi allontanavo dallo smacco e dalle mie idiosincrasie letterarie. 
Poiché non volevo una scuola noiosa, facevo del mio meglio per immedesimarmi nei bambini tentando di capire che cosa del linguaggio potesse attirarli e per quali vie fossero motivati a impadronirsi di certi ritmi fino a ripeterli e a piegarli ai loro usi giocosi, oppure a incantarsi al suono di una parola o di un catena di parole, a essere attratti da un significato.
In breve, sono tornata alla tecnica elementare del verso  in questo modo , diciamo, traverso e ho ricominciato a comporre con loro e per loro in loro presenza, filastrocche, canzoncine, fiabette, senza provare alcuna frustrazione o senso di impotenza, senza preoccuparmi troppo del senso, del risultato. Era rasserenante immergersi in quella coralità di voci. Alcuni scolari, in una seconda elementare, addirittura mi cantavano certe loro effusioni, come faceva mia figlia di quattro anni quando viaggiavamo in auto fra i campi in primavera. Mi dimenticavo completamente di me, della mia ferita di poetessa non nata.
Ecco che però ricominciavo a leggere e a gustare in privato qualche composizione in calce alla tragica vita di Silvia Plath, certe poesie di Emily Dickinson, ma con iniziali tremore e paura: non c’erano i miei alunni a farmi da ciambella di salvataggio.
Per completezza di racconto dirò che un altro evento personale  molto doloroso e importante (quasi contemporaneo a quell’iniziale felice periodo professionale che altrettanto felicemente continuò), vissuto in una condizione di assoluta solitudine umana e accompagnato dalla mia convinzione di dovermene fare carico, a causa – dicevo - della mia umana inadeguatezza, diede una ulteriore sterzata anche alla mia relazione con la letteratura. Che non sempre i mali nuocciano soltanto? 
Ebbene fu quell'accadimento a generare una tale disperazione da resuscitare la mia voglia di scrivere di me, forse per concedermi qualche tiepida autoconsolazione. Dapprima, prosa: lettere, diari, resoconti  di sogni, racconti, progetti di altri racconti, inframmezzati a tesine di studio, esiti di ricerche, e scritti per la tesi. Intanto lentamente, a intervalli  lunghi e molto timidamente, ricominciavo a scrivere anche in versi liberi. Dapprima erano brevi canti lamentosi. Provavo un senso di noia a rileggerli. Ero arrabbiata e non trovavo la strada per dar voce alla mia rabbia con le parole che la raffigurassero davvero.  Allora mi fingevo altra persona, diversa da me, più vecchia o meno istruita, dislocata in geografie diverse. Rileggevo e, scontenta, rielaboravo più e più volte, tanto che a furia di rimaneggiamenti i testi cambiavano natura e poi li dissolvevo. Forse non esistono più neanche come documento. Ma la voglia di scrivere non mi ha più abbandonata e ne sono felice.
Con questo primo resoconto personale ho fatto riferimento alla prima fonte di stimolo del canto lirico: il narcisismo secondario che caratterizza l’adolescenza. Storicamente la sua configurazione culturale e letteraria si delinea e sviluppa specialmente nel movimento romantico tedesco, ma in Italia trova la sua massima e pressoché solitaria espressione nelle liriche leopardiane. Suoi corrispettivi in musica sono l’opera lirica italiana e i lieder in Germania.
Ma così come ciascuno di noi perviene alla maturità psicologica liberando energie libidiche per scopi diversi dal proprio io, anche storicamente i mutamenti sociali, l’emergere della questione operaia e la progressiva alfabetizzazione delle masse cittadine, nel primo e, ancor di più, nel secondo Dopoguerra, s’impongono alla sensibilità degli artisti e dei poeti. Costoro a causa della diversa natura delle esperienze culturali e sociali si sentono sollecitati a condividere problemi e aspetti dell’umano che la cultura anteriore aveva ignorato. Dunque le poetiche tendono a uscire dal ristretto ambito psicologico individuale per abbracciare temi di respiro più ampio che ricomprendono in chiave più distaccata e critica i problemi della soggettività e dei suoi contesti.
Perciò non si comprende la ragione di un sordo attardarsi di certi artisti oggi viventi  su temi lirici centrati su una individualità tutta risolta in sentimentalismi senza tempo, su suggestioni naturalistiche che sembrano uscite dai dipinti preindustriali, lanciati a riproporre  come inalterabili certe concezioni sociali e interpersonali invece obsolete.  
Adesso dovrei rispondere alla seconda parte del quesito, ma in parte credo di aver dato già una risposta che, naturalmente, non vale come regola generale. Però sono convinta di questo: bisogna uscire dal rash psicologico personale, il quale, come la mia prima difficile esperienza mi ha insegnato, è un filtro distorto e distorcente, che spesso riflette immagini in cui ci compiaciamo, ma che sono maschere di  qualcuno che non esiste o, se esiste, esiste diversamente. Insomma bisogna prendere le distanze dall’immediato e da ciò che appare subito bello, turgido, e che magari è una reminiscenza non riconosciuta e non controllata di un’altra cultura e di un altro tempo, che risulta incongrua come una voce prestata, di cui non conosciamo lo spessore e il prezzo. Occorre in qualche modo fare i conti con la verità che mai si dichiara come tale, che esige a volte il nostro tortuoso lavoro di inclusione di ambiti che ci chiamano in causa , che non è mai esaustiva, ma ambigua, parziale  eppure indispensabile anche per scrivere una fiaba, per esprimere una suggestione estetica,  un sentimento, un’idea, una dimensione della vita che la banalizzazione del senso comune o l’enfasi estatica proiettata  dal richiamo di modelli collaudati nascondono.
Fare versi o scrivere per narrare è esporsi a correre molti rischi. Quello che temiamo di più è di non riscuotere l’approvazione estetica immediata; ma ciò, a torto. 

mercoledì 10 giugno 2015

Immagini e stimoli vagabondi

Mi sembra interessante riportare su questa pagina la discussione nata su Fb in due pagine diverse, a proposito di una bellissima foto edita dal Los Angeles Time tratta da uno dei film su Mme Bovary, che qui non mi è permesso riportare.
L'immagine era sovrastata  da un commento sul personaggio Emma Bovary, da cui è partita la discussione molto interessante. Cosa rara in un social.
Per discrezione indicherò con delle lettere colorate i partecipanti alla discussione.


A) Mme Bovary l'eterno femminino.L'eterno rinnovarsi del bisogno di amore che esclude analisi e ragione

B)  C'est pas vrai. Questa è l'immagine che si sono fatta la generalità dei nostri partners, Flaubert compreso con la sua grandissima arte, e la quasi totalità delle donne di una volta. Oggi un po' meno. Ma chiediamoci perché ci siamo specchiate in quelle immagini e ci siamo sentite esattamente rappresentate. Suggerisco di riconsiderare Gertrude, la monaca di Monza, per capire quanto è profonda e moderna l'analisi manzoniana. Il contesto specifico in cui Manzoni colloca e sviluppa la storia di Gertrude fa risaltare il procedimento educativo alienante ed efficacissimo. L'alienazione sottile, rinforzata dal contesto sociale, comprime, rende soggette al senso di colpa e perverte, crea senso di inadeguatezza, bisogno di protezione. L'eterno femminino è una costruzione storico-sociale eteronoma,omologa all'eterno mascolino più autonomo.

Avendo condiviso l' immagine in altra pagina è stato ripreso l'intervento precedente.

B) Ricopio il mio commento che nega la coincidenza tra il senso d'essere femminile e le immagini della femminilità come femminino inteso e voluto dal sistema patriarcale fallico storicamente prevalente.
Madame Bovary , annoiata signora di provincia. 
C'est pas vrai. Questa è l'immagine che si sono fatta la generalità dei nostri partners, Flaubert compreso con la sua grandissima arte, e la quasi totalità delle donne di un volta. Oggi un po' meno. Ma chiediamoci perché ci siamo specchiate in quelle immagini e ci siamo sentite esattamente rappresentate. Suggerisco di riconsiderare Gertrude, la monaca di Monza, per capire quanto è profonda e moderna l'analisi manzoniana. Il contesto specifico in cui Manzoni colloca e sviluppa la storia di Gertrude fa risaltare il procedimento educativo alienante ed efficacissimo. L'alienazione sottile, rinforzata dal contesto sociale, comprime, rende soggette al senso di colpa e perverte, crea senso di inadeguatezza, bisogno di protezione. L'eterno femminino è una costruzione storico-sociale eteronoma,omologa all'eterno mascolino più autonomo.

M) Nelle due figure di donna che tu proponi, ci sono almeno due differenze sostanziali: Gertrude non sceglie , decide la sua famiglia per lei, lei non può opporsi, pena l'emarginazione familiare e sociale. Aggiungerei che neanche i suoi genitori sono liberi di scegliere, la loro scelta, dettata dal ceto di appartenenza e dalla necessità della conservazione del patrimonio - fatto obbligatorio per l'aristocrazia seicentesca- pongono in condizioni di necessità e "naturalità" la scelta del padre di Gertrude. Cosa diversa è la scelta di Emma Bovary. Il contesto borghese in cui si situa la sua vicenda familiare, ha come riferimento la classe aristocratica. Emma aspira a far parte di questa classe. L'inquietudine che la divora è il frutto di insoddisfazione , prima che amorosa, di ceto di appartenenza. E da qui le relazioni sbagliate che la conducono alla perditio. Ma è una perditio nella banalità, come banale era stata la sua aspirazione. Flaubert , in questa personaggio , come in diversi suoi romanzi, tende a rilevare la mediocrità che a volte sconfina nelle "betise", dalla quale pochi si salvano attraverso un percorso razionale e consapevole. In Manzoni , forse, è molto più insistito l'elemento della cogenza, dell'impossibilità di orientare, con un atto di volontà, la propria vita verso altri obiettivi che non siano quelli del conformismo sociale. In questo senso egli, Manzoni, scava nella profondità della psicologia educativa di cui si serve la famiglia di Gertrude, mettendo in evidenza il perverso sistema del tempo. In Emma tutto questo manca. Emma è una donna libera e la sua scelta è tanto più banale quanto più ampia è la sua libertà.

B) Tuttavia i due esempi, pur essendo qualitativamente diversi per epoca, per cultura, per classi sociali, sono fenomeni complessi di una struttura che vi rimane potentemente sottesa: la struttura patriarcale, fallica che costruisce le psicologie soggettive socialmente desiderabili a sostegno di un modello preminente e decisivo. In Bovary il personaggio femminile è una piccolo-borghese che aspira a una condizione altoborghese (orizzonte di presunta libertà e potere), e non sa e non può farlo se non tramite quella sorta di "prostituzione" anche sentimentale. In Bovary Flaubert descrive i movimenti e le inquietudini di quelle classi che aspirano a diventare contigue a quelle del potere economico-politico.Emma rappresenta la quota debole della sua classe, non perché sia stupida, ma perché è psicologicamente culturalmente strutturata per esserlo. Flaubert non si occupa di come avviene quella formazione. Manzoni al contrario, descrive dall'interno, non solo il modo con cui la classe più alta, quella aristocratica, si disponga a conservare potere e forza economica, ma anche quali sue quote fossero destinate a una condizione di subordinato supporto, ma non a una uscita dal proprio contesto di classe. Manzoni mette in piedi una straordinaria e minuziosa descrizione della formazione psicologica della predestinata:elusioni, blandizie, costrizioni, pressioni ... Una "scuola" perenne, organizzata dalla "legge del padre" tramite i cultori , i commessi di quella legge, elementi femminili compresi, senza nemmeno la possibilità di concepire un desiderio diverso. Manzoni ci fa toccare con mano le fitte maglie della rete mobilitate alla costruzione della soggettività femminile nel senso proprio di assoggettamento per fini che son la negazione e la perversione di ogni autenticità. E attraverso questo pur specifico modello è possibile vedere in filigrana quello che ancora oggi accade fuori scena a danno delle future donne

Riportato su Verbi e di-verbi da B. M. 

sabato 16 maggio 2015

Comincia come... un vizio!

Si comincia a scrivere per un incoercibile bisogno di guardarsi dentro in un periodo della vita, nell'adolescenza, in cui ci domina l'ansia di sapere chi o che cosa siamo, proprio perché la nostra configurazione personale è ancora incerta e molto mobile. 
Con la maturità, di solito si perde il vizio. Se perdura, vuol dire che la costruzione dell'io-me ci impegna sempre,ed è lì, nel perdurare dello scavo che si produce il desiderio di colloquio,talora spiccatamente inquisitorio e antagonistico, con gli umani che hanno preso dimora presso l'io-me-noi col corrispettivo corredo di enti-mondo. Essendo esseri unitari e contemporaneamente plurimi, il discorso con se stessi non è mai esaustivo né pienamente soddisfacente. 
Le letture e le esperienze scolpiscono sensibilità, mente, immaginazione. Il nostro linguaggio diviene  plastico e comincia a prodursi in giochi inattesi, in costruzioni  che assumono logiche  diverse, talora carsiche, con effetti che risultano a noi stessi sorprendenti. 
E a quel punto si fa strada il bisogno di condividere tali effetti con altri; o meglio immaginiamo una condivisione a largo raggio, di cui poi abbiamo ben magro riscontro, anche qualora le statistiche ci comunichino che i nostri scritti siano letti da molti. 
Il lettore raramente si qualifica come corrispondente. Eppure tutti gli scrittori vivono di questa illusione. In realtà  sono gli scritti dei critici, degli intervistatori, dei recensori a offrire il supporto di questa illusione . Ed essa acquista una consistenza realistica se, almeno per un po', i tuoi critici, i tuoi estimatori i tuoi recensori sono a loro volta noti, autorevoli, famosi, capaci di succhiare dal tuo discorso ciò  che incuriosisce e/o invoglia la folla poco nutrita dei lettori.     

mercoledì 13 maggio 2015

Libere riflessioni sulla "poesia"


 Come un poema musicale, un discorso poetico richiede più ascolti o più letture per essere giustamente apprezzato.
 Intanto, anche quando una raccolta di versi si articola intorno a un tema oppure gioca su modulazioni scaturite da uno stesso nucleo ritmico e timbrico, difficilmente rivela subito i segreti dei suoi stilemi e le sue trovate, a meno che non si connoti come variazione specifica di una “scuola” , di una maniera  in auge. Ma anche quando si verifichi  tale condizione, occorre sempre soffermarsi  per cogliere le differenze specifiche, la singolarità, che è ciò a cui aspira l’artista.
 Insomma l’idea che l’elaborato  in versi esibisca  subito il proprio portato poetico nel passaggio lineare dal segno grafico alle corde recettive dell’anima e della mente per mezzo dell’immediata scansione visiva e/o sonora, è un’idea falsa e perniciosa. Perché? 
Perché, a torto o a ragione, si assimila acriticamente l’elaborato a un gusto preformato o lo si rifiuta per l’impressione immediata  che se ne discosti. Così non si valorizza la sua particolarità, anzi la si diluisce nel fiume dei motivi abituali. Con ciò  si prescinde anche dal fatto che il discorso poetico possa  convogliare  idee, concetti e forme che esorbitano e talora confliggano col senso comune e con i moduli cristallizzati.
Queste semplici considerazioni  conducono a un quesito: che cosa è la poesia? Al di là del fatto che comunemente con il termine “poesia”  si denota un discorso secondo regole metriche più o meno fisse,  è improbabile che possa essere ridotto a quest’unica peculiarità. Semplificando al massimo, con quel  termine  vogliamo indicare un insieme di effetti  semiologici e semantici, i quali variano da epoca a epoca, da lingua a lingua, da cultura e cultura. Essi implicano anche un ampio ventaglio di nessi e riferimenti con diversi territori del pensiero cristallizzato e militante, quello scientifico/tecnico compreso .
Se così stanno le cose, occorre entrare nell’ordine d’idee che il prodotto così detto poetico va considerato  a tutti gli effetti come una manifestazione articolata e complessa  dell’intelletto umano tramite la elaborazione stilistica della parola, e non riducibile a pura e unilaterale espressione dell’emozione e del sentimento .
Bisogna farsi consapevoli che il concetto di poesia come espressione eminente della soggettività individuale quale fulcro della relazione Io/Mondo, in cui prevale il sentimento personale  come centro unificatore della pluralità  e dell’alterità , è nato col romance medievale e si è riproposto, amplificato e arricchito delle scoperte della psicologia e anche delle inquietudini etico/sociali, nel Romanticismo.
Nella prospettiva di continuare il discorso, agli appassionati e ai curiosi dedico ancora queste pressoché minimaliste

Fabulazioni

Come di passi una fuga
lungo androni
di niente
sdrucciolano fabulazioni -
senza memoria
di senso -
s’affrettano  verso
fine e fini-
occlusi oppure
no -
indefinibili
forse -
fradice di razionali
forme
e forre
e fori
casualmente fuse
in croci
di ramaglie conturbate
da estasi
selvagge
sotto croste di licheni
ispessite
di stanca vecchiezza
esauste
sorde
ai richiami dei venti
singhiozzanti
nell’asmatico flusso
delle antiche lune
affogate nei pozzi
o assiderate
  nella brina
che martirizza i germogli


giovedì 7 maggio 2015

Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori di senso – poesie di Bianca Mannu

Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’orologeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos

Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere? La risposta a tutte le precedenti domande è No. 

Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singulti, proteo o preconizzare, possiamo incontrare clacson, garage, DNA, action painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi. Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. 

Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”. 

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.

La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”. 

 L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esse Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.

Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’oreficeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos. Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere?

 La risposta a tutte le precedenti domande è No. Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singultiproteo o preconizzare, possiamo incontrare clacsongarageDNAaction painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi.

 Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”.

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.

I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”.  

L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esseri diversi, egocentrici, agrodolci e perennemente sconsolati.

 Non resta che leggere e apprezzare le composizioni di Bianca Mannu, leggere e rileggere per cogliere con la dovuta calma i sensi traforati e i sensi risparmiati tra – i - fori delle sue parole.

venerdì 27 marzo 2015

Condizione : Poesia?

Quando si arriva a istituire una giornata, persino internazionale, in riferimento a un che di esistente, cosa o persona o animale o attività, allora significa che quell'entità esiste, ma si trova in condizione precaria o perfino a rischio di estinzione.E' questo, secondo me, il caso della poesia.
Qualcuno, fatto forte dall'ascolto di innumerevoli reading pubblici di testi poetici, potrebbe asserire che io mi sbagli o non sappia che cosa sia poesia. Probabilmente non so davvero che cosa sia. So che in effetti si producono molti testi che esaltano, enfatizzano sentimenti, affetti, emozioni, visioni, paesaggi interiori ed esteriori, con frasi ricchissime di aggettivi encomiastici nei confronti dell'oggetto o della situazione cui si vuole alludere o che si vuole descrivere, tal che, se io per un certo spazio di tempo potessi liberarmi dai pregiudizi acquisiti con la mia esperienza, potessi dimenticare ciò che quotidianamente vedo e tocco e da cui più spesso mi ritraggo ferita e irritata, se avessi una percezione vergine come se provenissi da un altro universo, penserei che gli umani sono in maggioranza poeti, ossia enti fatti di gas leggeri, ma in continuo sobbollimento emotivo, profumati di essenze speciali e rare, appassionatamente felici dei loro impeti o, all'opposto, delicatissimamente infelici per la loro indicibile mitezza o perché l'altezza dei desideri e appetiti della loro anima, sempre squisiti, in ricerca spasmodica di cose eccelse, tuttavia dissimulate nella semplicità del quotidiano, li costringesse a un'eterna tensione dello spirito. Penserei che dimorano in luoghi paradisiaci, emancipati da ogni lordura,  tali che la loro parola sonora, nel suo scaturire dall'anima, restituisca l'immediata bellezza/bontà essenziale degli oggetti (sentimenti, paesaggi fisici e interiori) del loro dire/verseggiare, così come immaginano che siano; e che tutto ciò manifesti ai lettori/spettatori,  come in uno speciale e magico proscenio, il fulgore dell'anima poetante. Estasi della contemplazione! 
Ecco che allora il mio desiderio corre all'indietro, oppure si mette a rivoltare altrettanto spasmodicamente i tappeti, le falde, i cassetti, le scansie  e persino i ripostigli dell'appartamento letterario, alla ricerca di un reperto trascurato, magari derubricato dai piani alti del senso levigato (e forse anche troppo liso),  di alcunché dimenticato sotto la pila degli scarti, degli oggetti irrimediabilmente danneggiati dalle pedate trascendenti o dai denti del realismo malsano o dalla beffa incandescente che scompiglia gli alfabeti e non vuole dire niente.  O sì? 

Nota Questa nota precede cronologicamente, ma anche logicamente, la "Canzonetta" di Aldo Palazzeschi

mercoledì 4 marzo 2015

Scrittura al femminile?


Ossia che relazione intercorre tra l'essere donna e lo scrivere.
Qualcuno ha spesso sostenuto la specificità della scrittura delle donne, sottintendendo nella nozione di specificità, una "naturale minorità" della loro scrittura. E per certi versi accade proprio che diverse scrittrici si siano mosse dentro uno psicologismo della femminilità tutto interno ai ruoli costruiti per il modello di donna felicemente assoggettata alle  situazioni di "libertà vigilata" in cui è vissuta e continua (parzialmente) a vivere, vigilata a tal punto che tu soggetto femminile di limiti a vederti con gli schemi entro i quali sei stata storicamente, culturalmente e socialmente inquadrata. 

Essendo io una persona che si è presa la libertà di documentarsi anche fuori dal proprio recinto di genere, di confrontarsi con vari punti di vista e di scrivere interpretando idee e rinunciando anche al pericoloso godimento offerto dal volersi ritratta "come ti si vuole" , ecco che  ho fatto un tentativo di affacciarmi al tema indicato sopra, riflettendo sui miei stessi testi, per esempio quelli che formano la silloge Il silenzio scolora e la raccolta di I racconti di Bianca.