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martedì 3 novembre 2020

Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu

 

Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci  sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.

Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.

 Allorché un evento inatteso, macroscopico e pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di conflitti malsani  e con tentativi più o meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise disposizioni.

È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso: prima e dopo.

 Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del “prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche tratto  che simboleggia e ricopre il tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.

L’altro senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.

Questo tempo  è come quello che lo scrittore Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito circa settant’anni  or sono, ma vivo come fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale. 

Noi siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo,  la sua specifica temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del “prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece  procede per cinquanta e più sfumature di grigio.  

 Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di accettare  le politiche di solidarietà sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.

Detto ciò, andrebbe sottolineata  l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà, le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle terapie. Diversi studi condotti  negli Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.

Il nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte

Sul persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e al crescere di economie distorcenti. 

Poiché le possibilità di altre pandemie (già questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo profitto.

Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di  organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale  più matura e responsabile, governeranno meglio  i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.

Ma occorre  cominciare ora e non riaprire le vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione (non premiale) dell’evasione fiscale. Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione, avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro debito.

 

 

giovedì 9 agosto 2018

Liberi e personali arzigogoli sulla politica - Bianca Mannu



Il mio impatto con la politica italiana, mi manda periodicamente in apnea o mi agita come un vento improvviso. Sì, per quanto l’età e il contare niente mi consentano di assistere e ricordare. Smagata, sto sola e parlo con me stessa e con eventuali altri (immaginari!), del mondo che un poco so , quello politico che, pur ignorandomi, mi ha sempre trovata e variamente colpita, oltre che inquietata.
Mi viene da osservare che non c’è scampo dall’improvvisazione che alimenta l’elettoralismo, e da questo che la fomenta e la incalza. E va così, secondo me, dalla Bolognina in poi, anzi da prima: dalla proposta berlingueriana del Compromesso Storico, sfociato nella tragedia della lotta armata da cui si è usciti annichili per via di una sorta di sentimento di sospetto e di colpa diffusi, tali da indurre i partiti della sinistra a correre verso abiure di pancia e a inneggiare alla caduta del Muro, come se con quello fossero caduti tutti i muri, non solo fisici e ideologici, ma quelli sociali, razziali e politici, che invece si sono moltiplicati sfociando in una miriade di guerre. A un sonno della ragione se n’è subito sostituito un altro, per cui con l’acqua sicuramente inquinata delle piaghe ideologiche, specialmente quelle di stampo “sovietista” giudicate più pericolose, si è gettato via il nerbo della riflessione teorica sulle logiche di sistema e il patrimonio sociale e culturale che aveva animato la parte più nobile della lotta politica di base.  
Dopo, preceduto dall’edonismo reganiano, c’è stato in Italia l’intervallo fescenninico del Cav., che ha frullato con la sua non disinteressata munificenza molti cervelli ritenuti pensanti. E poi, com’è noto, L’Europa ha bruscamente suonato la fine della presunta “ricreazione”, ossia del welfare state, un lusso che avrebbe provocato l’indebitamento degli stati nazionali. (Chi sa mai perché, il pane che mangiano gli umani di ciurma è sempre quello che pesa troppo e mette in pericolo di naufragio il vascello!)
Ma la crisi sistemica mondiale (la famigerata tempesta senza autore o del dio impunemente accusato!)  aveva già fatto fluire i suoi veleni in tutte le direzioni mettendo in una condizione di difficoltà irreversibile i baluardi veri e finti delle economie e delle politiche nazionali,   innescando una lotta di tutti contro tutti (specialmente poveri contro più poveri) e favorendo aggregazioni economico-politiche tese a occupare tutti i ponti di comando e a comprimere, col terrorismo finanziario e la compressione dei diritti, le istanze di promozione sociale delle classi lavoratrici, deprimendone la capacità contrattuale e perfino il senso minimo di attività partecipativa al dibattito politico. Mi suona uniforme un coro:  le emittenti mediatiche nostrane hanno continuato a cantare inni di ottimismo intanto che il paese franava politicamente e moralmente.
La “gente” (Ecco, dai e dai, siamo divenuti una poltiglia irrisoria col nome dell’antico patriziato romano: gens!), la gente disertava le urne incoraggiata all’assenza quando conveniva al potere di turno. Tutto l’arco politico ripeteva il refrain: le democrazie, quelle vere, (prendi gli USA)  hanno flussi relativamente bassi; il 60% è fisiologico!
Così si è giunti al 40 e al 30% dell’oggi (fino al 4 marzo, poi, chi sa?). Come dire che la fisiologia si posizionava verso il vizio incurabile. Politicamente morti, socialmente zombi: le sensibilità sociali, compiacenti alla politica del disimpegno, erano scivolate nell’imbarbarimento individualista, agevolato anche dalla compressione delle spese per la sanità, la cultura (scuole di base comprese) e altri servizi essenziali.
Non bisogna dimenticare mai che l’intuizione di Beppe Grillo e del Casaleggio senior ha individuato nell’inquietudine sociale, suscettibile di andar fuori controllo, l’ansia di cambiamento di una moltitudine di persone, ha conferito parole ed esempi intuitivi al marasma sociale e l’ha convogliato in direzione di una formazione politica movimentista, cioè fluida e popolare (poi M5S) che riproponeva a individui isolati, confusi, depressi e arrabbiati l’incontro discussione con altri individui ugualmente inquieti, onde riscoprire sul campo della comunicazione di piazza la necessità di una ricostruzione del senso sociale dissipato e del necessario protagonismo popolare nelle decisioni politiche.
La base teorica del movimento - per la verità caliginosa - è trovata nel giusnaturalismo rousseauiano, secondo il quale lo stato di anomia naturale o quello attuale di ingiustizia e caos economico-sociale va superato con un nuovo patto sociale che conferisce cittadinanza all’individuo e sovranità al  popolo. Questo diventa soggetto e oggetto di azioni politiche dirette e sovrane, capaci di affrontare le richieste di giustizia distributiva dei beni prodotti e non soggiacere senza discutere ai dictat della compagine economica mondiale prevalente. L’impulso movimentista immediato nasce dall’insostenibilità delle condizioni sociali di fatto (l’avvilente e dilagante impoverimento), ma si chiarisce e si sostanzia nelle “assemblee di piazza” divenute crogiuolo di narrazioni critiche alternative alle narrazioni governative sostenute da interessi corruttivi evidenti e proliferanti, dunque sempre meno credibili, “astratte” rispetto ai bisogni oggettivi del corpo sociale.
L’emergere convulso delle reti corruttive faceva riemergere la Questione Morale di berlingueriana memoria, sulla cui scia molti ex elettori ed ex militanti delusi del PD renziano si sono orientati.  In effetti tale posizione suonava per certi versi simile alle tesi riformistiche del PD pre-renziano; ma esso si era mostrato  passatista e debole nei confronti dei poteri forti (leggi multinazionali e banche) e imbelle contro la corruzione. Infatti Grillo e il suo movimento ha avuto buon gioco nel rilevare a carico del PD le discrasie tra dichiarazioni e pratica politica, denunciandone – talora in modo teatrale – l’incapacità di prendere le distanze operative dagli arroccamenti di casta e la sua indulgenza per la pratica del “cerchiobottismo” dilazionatorio.
Va osservato che nella sua fase di crescita il M5S non ha esplicitato metodologicamente il sopra menzionato riferimento teorico. Anzi gli iniziatori del M5S, pur avendo ampiamente operato prelievi importanti da varie teorie (ricordo quanto dell’analisi marxiana delle merci fosse presente in certi discorsi  di Beppe Grillo e quanto leninismo[1] nel suo richiamare le folle disorganizzate al protagonismo politico!), si sono definiti post ideologici, cioè in posizione di superamento delle classiche categorie del posizionamento politico e, quando sollecitati, su ciò hanno costantemente insistito. Del resto in un’Italia ancora impregnata di edonismo berlusconiano e delle sue grida d’orrore per la presunta e larvale “infezione comunista”, bisognava rassicurare una folla composita, con idee e informazioni confuse, ma anche guardarsi da un sistema mediatico (con le eccezioni!) molto compromesso col liberismo economico-finanziario, propenso a pareggiare i propri conti con la ben tollerata e giustificata avidità capitalistica mediante lo sciorinamento  del manto morale (assai remunerante sotto profili diversi), utile per salvare il busines e il suo svincolato esercizio nel settore privato e, all’opposto,  puntare l’indice sulle esose guarentigie che “il politico” si assicurava nelle forme del privilegio, sia legalizzato che coperto,(cfr La casta e altro). Intanto, archiviata  in termini etico-giuridici la questione “mani pulite”, si seppelliva in un silenzio politico il lascito del perdurante modello democristiano all’interno del PD che, nella juissance dell’egemonia sulla sinistra morente  e strabica e  del potere di governo, di fatto scaricava sull’intero paese i costi della spartizione e dell’abbandono sociale. (Bisognerebbe rileggere gli Scritti corsari di P.P. Pasolini sulle responsabilità della DC e gli atteggiamenti del PCI sempre più corrivi alla deriva del sistema, per capire ciò che accade oggi.)
Come si siano distribuiti i flussi elettorali l’abbiamo saputo dopo il 4 marzo, ma abbiamo altresì constatato e capito che essi non sono omogenei ai riferimenti prescelti, che anzi i flussi in uscita producono forse lo stesso magma e le stesse problematiche ambivalenti e contraddittorie pre-elettorali, con l’aggravio delle reazioni particolaristiche dei sottogruppi.
Il forzoso contratto di governo tra M5S e Lega - tanto caldeggiato da una tifoseria mediatica ciarliera che ha ben soffiato sul disimpegno di quanto resta del PD - si rivela una gabbia da gestire faticosamente per gli impegni contrapposti che contiene e per il mare di problemi che premono dall’esterno del contratto stesso e che finiranno per imporsi. L’esito politico e la durata stessa del governo dipenderà da come si disporranno i rapporti di forza delle due componenti principali e dagli impatti oppositivi che produrranno negli agenti economici e sociali nazionali variamente sollecitati e compressi da un contesto politico mondiale ondivago e confuso, che risulta occupatissimo a organizzare politiche aggressive sia sul piano economico finanziario che sulla deterrenza militare: vedi le sanzioni economiche USA contro stati non allineati, vedi gli obblighi a sostegno delle spese militari, vedi l’indifferenza verso le sorti del pianeta e dei popoli su cui ricadono le conseguenze dell’incuria e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse, eccetera.  
Le convulsioni che si verificano in seguito alle prime azioni di governo mi pare siano sintomo e conseguenza di una carenza analitica del corpo sociale e anche dalla mancanza di una visione prospettica organica da parte di tutti gli attori vincitori o sconfitti. I problemi si sono accavallati in un settantennio di brancolamenti.  Ma, stando ai sondaggi, bisogna anche dire che un buon numero di italiani piegano sul più facile: cioè siano galvanizzati dalla retorica di Salvini. (A suo tempo furono galvanizzati da uno che strillava tanto, che si faceva chiamare Duce e li condusse alla rovina).      
La posizione salviniana si áncora su una sorta di nazionalismo con pronunciate venature etnocentriche e razziali, si vale di ciò che sopravvive della mitologia dei Lumbard, ma in una forma abbastanza larga da farci stare un’italianità generica, bonificata dai “terrun”  e altri appellativi politicamente scorretti che alienano voti. I toni tribunizi carezzano le illusioni popolaresche di una supremazia politica e sociale su altri gruppi. Una scaltra comunicazione propagandistica consegue la sua efficacia andandosi a combinare con l’ancestrale pregiudizio che i pericoli vengano da fuori, dai diversi in miseria, e che non il padre-padrone del capitale-despota si appropria del frutto del tuo lavoro, ma un altro paria come te, anzi più disgraziato di te.
È costui che mangia a ufo il tuo pane, vive nella “pacchia” del far niente, dell’avanzare richieste senza titoli di merito, mentre tu ti danni di fatica per avere il minimo. Tu sei cittadino, lui, no. Lingua, leggi, suolo, usi sono per noi.
I fatti recentissimi dicono in che cosa consiste il bengodi!
Così il detto “prima noi, prima gli italiani” diventa cristiano abbastanza per solleticare, coi bisogni compressi e politicamente inevasi,  il rifiuto dell’altro. Così incrementata, la litigiosità sociale porta buono all’autocrate o al gruppo di potere, perché lo esclude dalla contesa come terzo neutro, lo erge a giudice di eversori veri o presunti, amicandosene alcuni, stigmatizzandone altri, specialmente stranieri poveri o italiani di ultima classe come i Rom e i Gitani, per i quali resta in serbo la soluzione “ruspa”. Come non vergognarsi di certi atteggiamenti!
Il M5S ha una teoria politica ideologica che nega di avere, ed è quella sopra accennata, che trova fondamento nel popolo sovrano, considerato come unità indistinta sulla cui sovranità si conciliano o si possono conciliare tutti gli interessi nazionali. Ciò che poi risulta fuorviante in quanto la parola popolo è concettualmente ambigua, non meno della parola “gente”. Tuttavia bisogna dare atto al M5S di aver coraggiosamente accettato la sfida che la realtà politica dell’Italia gli ha posto davanti.
Le primissime esplorazioni dell’iniziatore del M5S, Beppe Grillo, contenevano diverse considerazioni di critica economico-sociale estrapolate dalla critica marxiana al sistema capitalistico: quella teoria critica, che era stata frettolosamente buttata via, con l’acqua sporca del Diamat staliniano insieme con le macerie del muro di Berlino, dai suoi epigoni e giovani colonnelli dello stesso PCI in sgretolamento; i quali confluirono  in ordine sparso nella strana fiumara raccogliticcia del Pds, poi DS e infine  PD che nulla seppe fare se non cedere il potere al paternalismo berlusconiano.
Ma l’urgenza di canalizzare un conflitto sociale che minacciava di degenerare,  faceva sì che si sorvolasse su poco comprensibili pregiudiziali ideologiche e ci si occupasse delle condizioni più diffuse ed evidenti, mettendo sul conto dell’allargamento della base sociale verso la critica politica non poche e ingenue semplificazioni.  A un’analisi scientifica approfondita   (che avrebbe richiesto una precisa scelta di campo da parte degli intellettuali, i quali invece erano entrati in massa a sostenere l’establishment, già fortemente compromesso in faccende giudiziarie e criticato da diverse inchieste giornalistiche) è andato sostituendosi un più vago assunto etico: il cittadino escluso dalle tutele dell’establishment è più vicino alla verità dei fatti, in quanto ne vive direttamente le conseguenze, è per la sua stessa condizione marginale, lontano dai giochi di potere, dunque è in linea generale onesto, ha un interesse diretto a partecipare al controllo delle scelte politiche sulla base di un’etica della legalità e della trasparenza.
Si torna all’idea piuttosto semplicistica che la così detta società civile sia “per natura” migliore dei suoi rappresentanti politici. Il riferimento a Rousseau mette a fondamento la natura presunta “schietta” del nuovo Emilio. Il suo autore prerivoluzionario, nell’ansia di salvarlo dall’afflato corruttivo della società vigente, lo deve isolare e quasi forgiarlo pezzo a pezzo: ma il risultato è un mite beota. Senza saperlo, Rousseau preconizzava la svolta tutt’altro che indolore della Rivoluzione del 1789 e di quelle borghesi seguenti che, come dovrebbe essere noto, aprivano la strada al capitalismo già  scalpitante nell’Inghilterra del 1760.
Per tornare all’attualità, abbiamo dovuto divenire consapevoli, nell’esplosione continua dei fatti, che la società civile rispecchia ed è rispecchiata dai suoi governanti. Che quindi il sistema va cambiato nei suoi fondamenti, ciò che in condizione di globalizzazione (internazionalizzazione dei sistemi malavitosi quasi in contiguità con i meccanismi così detti normali) non può essere operato efficacemente in ambito nazionale.
Occorre una Morale politica consapevole, non moralistica, e in continuo confronto con i meccanismi che presiedono alle ricadute sociali dei modi del potere economico e del potere ideologico nazionale e sovranazionale, i quali si combinano dando adito alla creazione granitica del senso comune corrente, indolente all’esercizio critico.
Forse il gruppo dirigente dei pentastellati sta imparando sul campo, e certo con batticuore e fatica, la tentacolare complessità, mettendo in campo una buona dose di volontarismo per resistere, non sempre efficacemente, alla deriva sovranista etnocentrica di Salvini. E perciò, forse senza raccontarselo, nella concitazione del decidere, operare e tentare di mediare,  va a scuola di leninismo, o dovrebbe - come giustamente osservò tempo fa Buttafuoco. Sospetto che circola e infiamma polemicamente competitori e avversari.
Ragione per cui il M5S dovrebbe costruirsi il nerbo teorico che gli consenta di resistere alla chimera dall’elettoralismo, malattia endemica della compagine democratica e dell’attuale partnership, e di servirsi  anche delle raffinatezze pedagogiche accessibili sul campo e renderle disponibili  per la ri-organizzazione culturale del Paese.
Che dire del PD?
Il PD ha vissuto indebitamente della fiducia dell’elettorato, acquisita nel periodo berlingueriano poi basculante su ideologismi da signore, pacioso, educato e distratto. Molta parte dei suoi iscritti ed elettori avevano nei suoi confronti un atteggiamento fideistico. Nonostante che il PD sia il prodotto della confluenza di spezzoni di formazioni politiche decotte, il nerbo della militanza di base rimaneva costituito dai comunisti e dai giovani della FGCI. E costoro, dopo la Bolognina e ancora dopo con L’Ulivo prodiano, erano ancora convinti che si fosse giunti sulla soglia dell’instaurazione di un socialismo democratico capace di mettere in piedi una graduale pacifica ripartizione delle ricchezze prodotte a beneficio delle classi lavoratrici più disagiate. Ma un sistema non muta per pelosissime concessioni parziali e divisive. In realtà il gruppo dirigente  si spostava ideologicamente verso le politiche liberiste, verso una concertazione sindacale sempre più disarticolata, verso lo spostamento delle risorse dal campo umano a quello del capitale.
Malgrado l’ansia e i dubbi che il dualismo attuale può suscitare, la dialettica sta all’opera nei fatti, tanto che persino un Marcucci può illudersi di gestirla con lo stile di pensiero che gli è proprio, e fa il paio con le uscite elettorali del Cav.
Che scuole di pensiero!
E adesso che i buoi sono usciti dal chiuso, forse i filosofi scriveranno e vorranno gestire LA NUOVA REPUBBLICA.   

















Pds = part.democ. della sinistra
D S = democratici di sinistra ingresso della Margheritta
PD = esclusione della sinistra
    



[1]Rammento l’osservazione di P. Buttafuoco, se non sbaglio  in prossimità delle elezioni politiche, con cui sollecitava, certo ironicamente, il M5S a continuare a prendere lezioni di leninismo. 

giovedì 2 aprile 2015

Proposta per una interessante lettura: LA SOCIETÀ INDIVIDUALIZZATA di Z. Bauman

Riporto un breve passo dal capitolo Usi della povertà:
«Sappiamo che, svincolata dalle briglie della politica e dai condizionamenti locali, l’economia in via di rapida globalizzazionee sempre più extraterritoriale produce differenze di riccheza e di reddito sempre maggiori tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della popolazione mondiale, così come all’interno di ogni singola società. Sappiamo anche che essa emargina fette sempre più consistenti della popolazione, le quali non solo sono costrette a vivere in povertà, miseria e indigenza, ma anche permanentemente espulse da quello che la società considera un lavoro economicamente razionale e socialmente utile, e in questo modo rese economicamente e socialmente ridondanti.»

Ecco sinteticamente quanto mi pare di aver capito di questa preziosa raccolta di saggi

Il mondo contemporaneo presenta una complessità inedita.  Esso prefigura destini orrendi per una parte rilevantissima di esseri  umani, se questa stessa umanità non si rende ragione dei meccanismi emarginanti in atto e s’imbestia nel restare prigioniera dell’idea che il gioco economico del profitto decide di tutto, e in forza di tale condizione, imposta dalla struttura di potere, tollera come conseguenza razionale che un gran numero di esseri umani risulti ridondante, ossia destinato al macero della condizione di povertà e depressione, come esito ineluttabile.
Questo, speriamo  eventuale, destino non è per nulla inscritto  nel così detto progresso tecnologico, né nel naturale egoismo degli umani e dei gruppi sociali che competono  per  mettere le mani sulle risorse- queste sono solo conseguenze di un meccanismo più pervasivo, anonimo e potente che imprime la sua logica a tutti gli aspetti della società. Il motore è la ricerca del massimo profitto  tramite il mercato, cioè lo scambio di ogni cosa usabile contro denaro reale o virtuale, il quale è esso stesso merce dematerializzata,  convertitore universale di ogni altra cosa o animale o persona o parti di essi in quanto merce.
Chi ha molto  denaro  può vendere denaro e fare grandissimo profitto, senza produrre qualità di valore aggiunto, con l’agio pagato dai compratori di denaro. Da me, per esempio, che chiedo il mutuo per la casa o per mettere su il mio laboratorio di sartoria o un’officina per riparazioni.
Che cosa avviene alle persone che entrano nel mercato come venditori di merce/lavoro non richiesto, non in corso o deprezzato? E a quelli stessi che per iniziare un’attività hanno acceso un prestito e poi non realizzano?
Pure i bambini lo sanno: costoro non possono accedere  allo stesso mercato in veste di compratori. Nello stesso tempo sia pure proponendosi come liberi venditori di abilità lavorative, non trovano chi voglia acquistarle. Ciò significa che tali soggetti rimangono ai margini del mercato o ne escono totalmente, vivendo molto precariamente di sussidi, finché i sussidi e supporti personali ci saranno.

La distribuzione delle risorse per accedere ai consumi  è dunque ineguale. Ma l’inegualglianza si è approfondita in misura abissale coinvolgendo una grande massa di persone – i poveri . Questa massa cresce e minaccia di non poter più essere riequilibrata, anzi è già divenuta strutturale.

Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che il meccanismo della necessaria ridistribuzione dei beni e dei servizi prodotti  è strutturato in un modo tale che la ricchezza continua  ad accumularsi in modo esponenziale, ma concentrandosi nelle mani di pochissimi, mentre il gruppo sociale che pure ha prodotto e produce risulta impoverito, ossia può contare su una quota minima dei beni prodotti. Per contro l’incremento della povertà chiama alle restrizioni delle fonti sociali di beni e servizi. Il livello politico amministrativo s’incarica di legiferare quelle medesime restrizioni: limita, privatizza, e restringe il ventaglio dei servizi garantiti, smette di prevedere e provvedere  forme di sostegno sociale dirette alla crescente massa dei poveri.
Anzi una società cosi diseguale tende a disfarsi, come orpelli dannosi, di parecchie forme di solidarietà sociale, di cura dei piccoli e degli anziani, dell’assistenza e della scolarità  universale, della salvaguardia delle diversità  e della dignità umana, insomma di tutto ciò che in qualche modo è stato il fiore all’occhiello dell’Occidente per qualche decennio del secolo scorso.

Il pericolo di un imbarbarimento irreversibile minaccia, secondo Bauman, non solo le macrostrutture, ma persino i rapporti interpersonali della vita quotidiana, lavorativa e sociale. A questo livello, messe all’angolo le ragioni della fondamentale uguaglianza nei diritti basilari, le ragioni del legame e della condivisione civile, il gruppo sociale si polverizza in individui impauriti e soli in un mondo cieco e sordo.

Sull’individuo vanno a scaricarsi  tutte le difficoltà , le tensioni  e le responsabilità, che sono invece il portato delle aporie strutturali. Ideologicamente si enfatizza la sua autonomia, la sua libera decisione e responsabilità, invece lo si rende a sua volta cieco, sordo e imbelle rispetto al proprio essere sociale. Lo si allontana dalla comprensione e volontà di azione politica in senso ampio e alto.

«…essere un individuo de iure significa… non poter cercare le cause delle proprie sconfitte al di fuori della propria indolenza e infingardaggine….Convivere quotidianamente con il rischio dell’autocensura e del disprezzo di sé non è facile…»

D’altra parte Bauman non si esime dall’indicare la  forte subordinazione della struttura politica esistente nei confronti  dei potentati economico–finanziari. La subalternità della politica nelle società postmoderne è non solo ideologica, ma funzionale perché  funge appunto da agenzia per il mantenimento dell’ordine pubblico, essendo la politica lenta e legata ad ambiti territoriali ristretti, fisicamente adeguata all’esercizio del controllo dissuasivo/repressivo  a garanzia della suprema mobilità dei capitali; mentre dovrebbe essere il meccanismo solerte ed efficace di regolazione dell’economia, garante della salvaguardia fisica e sociale dei cittadini, custode di quella ecologica e conservativa dei territori.

L’economia finanziarizzata in realtà, non solo  si libera da ogni ceppo territoriale, ma si slega da ogni responsabilità umana e sociale inseguendo senza più freni la valorizzazione crescente dei  suoi profitti, sussumendo sotto di sé ogni attività umana mercificabile e in prima istanza occupando le fonti e i percorsi dell’informazione e della formazione culturale,con cui garantirsi la relativa e universale tranquillità rispetto all’intangibilità del profitto.


«Il “principio dell’ordine” nel gergo politico dei nostri tempi significa poco più che lo smaltimento delle scorie sociali, dei relitti della nuova “flessibilità” della sopravvivenza e della vita stessa.»