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venerdì 13 settembre 2024

Da - Ciò che resta per i ritorni - (alias - da nonna Annetta) - Bianca Mannu

Andare a Gesòli dai nonni era per me una stupenda avventura. Talvolta partivo col treno a vapore - quello di una ferrovia secondaria - insieme con i  miei genitori, o con una delle ziette, la quale dopo essere stata nostra ospite, tornava a casa sua e mi conduceva con sé.

(...)

La stazioncina ci accoglieva con le sue muricce dipinte di bianco e le aiuole ben curate, con i gerani rossi carnosi e dall’aroma penetrante. L’edificio principale era intonacato di rosso scuro sotto gli spioventi generosamente ampi e orlati di smerli di legno nero. Sapevo che il capostazione abitava con la famiglia il piano superiore. Invidiavo gli inquilini di una casa così bella e dipinta anche di fuori, i quali, per giunta, potevano godere a volontà dello spettacolo dei treni in arrivo e in partenza.

I miei o la zietta ospite prendevano posto nella sala d’aspetto contigua alla biglietteria. Invece io, impaziente e curiosa, perlustravo la piattaforma ben squadrata e saltavo tra le lastre musive secondo un mio modo d’interpretare la geometria e i colori del pavé. Tendevo l’orecchio per cogliere i segnali dell’arrivo del treno. E intanto esploravo il magazzino annesso all’edificio. Ingombro di materiali, giaceva su una piattaforma più alta di quella della pensilina per i passeggeri. Aperto sui due lati lunghi, dava l’idea di una veranda belvedere per via delle merlature del sottotetto, incongrue rispetto alla babele di sacchi e dei fardelli. Ma io continuavo a saltellare con un piede solo sul pavé del gradone alla cui base correvano i binari morti.

«Perché morti?»

Il perché forse me lo avrà spiegato mio babbo, ma ho dimenticato il contesto e come. Di solito era lui la mia risorsa di informazioni. Paziente, limpido, rispondeva ai miei perché, forse felice del mio sguardo attento. Io felicemente assorbivo.

In attesa del treno, mi azzardavo persino, se il capostazione sostava al tavolo del telegrafo, a giocare d’equilibrio sulle rotaie e guardavo lungo i binari fino al punto di fuga in cui pareva che le rotaie si saldassero in un’unica intersezione puntiforme. Il treno vi si sarebbe infilato come un verme nero e puntuto e avrebbe di nuovo aperto la divaricazione.

Il fischio acuto, benché risaputo e atteso, mi sorprendeva in un sussulto tra il brivido della paura e l’esultanza del piacere.

Tutti sulla piattaforma. E i grandi ad abbrancare i piccoli scavezzacollo e la locomotiva che nereggia. Sbuffando e soffiando le sue nuvole odorose, va arrestandosi in uno stridore di ferraglie e sbattimenti metallici frammisti a voci stentoree e armeggi di bagagli.

L’intervallo sembra troppo lungo per la mia impazienza. Ma la locomotiva lancia i suoi sfiati rassicuranti.

Si parte! Finalmente si parte.! Il cuore mi precede sulla spinta che fa indietreggiare le case e il paesaggio abituale. E già mi rode l’ansia di avere il naso fuori dal finestrino.

Oh sì, un finestrino bisogna trovarlo, sia pure in prestito da qualche passeggero disponibile.

I grandi si appisolano, io viaggio in lungo e in largo per la campagna, seguo la testa piumata di vapore del serpentone che doppia le curve arrancando e fischiando, mi volto all’interno col naso rosso, spettinata, per farmi levare un bruscolo di carbonella e rompere le scatole al prossimo con domande a cui non sanno rispondere, del tipo: « Perché i pali del telegrafo vanno indietro e perché anche gli alberi, che di solito sono fermi, li imitano?» o  «che ci stanno a fare quelle scodelline rovesciate sui fili della corrente?»

E intanto tutto il paesaggio scorre a semicerchio e sparisce dietro la coda del treno. E un altro già gli subentra senza vuoti. Poi la piana si srotola come un enorme tappeto vivo. I monti azzurri volteggiano in una danza tranquilla e possente. Ecco altre stazioncine, simili a quella di Vineanova, ma sempre più piccine e isolate. Casolari. Greggi. Qualche figura umana si profila solitaria e, fuggendo inchiodata al suo sfondo, saluta con uno sventolio del braccio.

Il sole già sparisce con un lampo sanguigno. Ora le ombre smisurate in un amen si tingono di viola.

«Chiudiamo il finestrino,  adesso. Non c’è più niente da vedere. E poi, s’è messo vento», dice una voce di buon senso

Mi vedo di colpo arresa sul duro sedile di legno della terza classe. Sto a guardarmi emergere dallo sfondo oscurato del vetro: un’altra me stessa che si racconta d’andare nella notte, dentro una palla di luce che si scuote in un buio sconosciuto. Lei se lo figura come un inchiostro gelatinoso e rotolante, con dentro le cose del giorno annerite, finché le lucine solitarie, emergendo e sprofondando, smuovono la fantasia, eccitano l’emozione dell’arrivo.

Infatti, ecco: altro stridore, altri sbattimenti e, ora, solo la nostra concitazione.

«Gesòli - Stazione!» strilla il capotreno senza scendere sulla piattaforma.

Gesòli - Stazione è solo un casolare. Il treno svanisce in un imbuto fatto più nero dal lume dei fanali della locomotiva puntati sull’altopiano che bacia la vetrosa trasparenza del cielo stellato. La sollecitudine dei nonni si materializza con una sagoma bofonchiante che ci strappa i bagagli.

Tziu Nicolinu, che non è zio, ma persona anziana e di rispetto, ci spinge sul calesse e inforca la carrozzabile verso un abisso. Ma al trotto tranquillo della cavalla, le stelle oscurate dal colle non sono perse. Le ruote cigolano e traballano sul fondo accidentato. Fra poco spunterà il lumino rossastro della casa sull’argine. E, come la bestia lentamente doppia la curva in discesa, ti pare di entrarvi dentro e sostare un poco davanti al focolare acceso e scambiare un saluto. Ma già tutto lo sfondo è un presepe di lumini accesi: Gesòli pulsa nella sua fossa.

Ecco, la sagoma del monte granatico, il ponte a doppio arco sul torrente sonoro d’acque piovane, un crocicchio con la fonte al centro, il lungo cardine viario dalla classica pavimentazione romana con le lastre carraie, poi la piazza che i residenti chiamano Sa Panga.

Mi suonava brutto, triviale, Sa Panga; benché non sapessi allora del suo significato inerente il ceppo del macellaio e anche quello del boia. Mai ho appurato se, come mi sembra plausibile, quel nome si riferisse al fatto che nelle sue vicinanze fossero allocate rivendite di carne, compresa quella del nonno, o se realmente vi si praticasse pubblicamente la macellazione. Comunque, a mia memoria, la beccheria di nonno Augusto era già dismessa e faceva da magazzino e ripostiglio della mescita, che le era contigua.

Ho appreso poi da mia madre Domitilla che il nonno macellava in casa, su panca e ceppo trasportati all’occorrenza nel cortile retrostante la macelleria, lastricato e in pendenza, in modo che le acque di lavaggio e di scolo confluissero nella cunetta del vicolo, la quale andava a sfociare nella lunga gora che si allargava nella piazza.

Ma la mia mente bambina era in quei momenti assai lontana da ogni considerazione critica. L’odore di strame e di fumo, avvertiti come facenti parte del luogo, erano in qualche modo salvati a causa del ricavabile e ricavato mio godimento da quei ripetuti soggiorni.

Infatti, giunti al centro della piazza, il calesse aveva come un cedimento: l’avvallamento di scolo.

«Ferma, tziu Nicolinu, voglio arrivare a piedi. Faccio una sorpresa!» e mi gettavo sul selciato melmoso verso la lampadina che splendeva come un faro sopra la soglia a gradini della mescita dei nonni.