venerdì 27 marzo 2015

Condizione : Poesia?

Quando si arriva a istituire una giornata, persino internazionale, in riferimento a un che di esistente, cosa o persona o animale o attività, allora significa che quell'entità esiste, ma si trova in condizione precaria o perfino a rischio di estinzione.E' questo, secondo me, il caso della poesia.
Qualcuno, fatto forte dall'ascolto di innumerevoli reading pubblici di testi poetici, potrebbe asserire che io mi sbagli o non sappia che cosa sia poesia. Probabilmente non so davvero che cosa sia. So che in effetti si producono molti testi che esaltano, enfatizzano sentimenti, affetti, emozioni, visioni, paesaggi interiori ed esteriori, con frasi ricchissime di aggettivi encomiastici nei confronti dell'oggetto o della situazione cui si vuole alludere o che si vuole descrivere, tal che, se io per un certo spazio di tempo potessi liberarmi dai pregiudizi acquisiti con la mia esperienza, potessi dimenticare ciò che quotidianamente vedo e tocco e da cui più spesso mi ritraggo ferita e irritata, se avessi una percezione vergine come se provenissi da un altro universo, penserei che gli umani sono in maggioranza poeti, ossia enti fatti di gas leggeri, ma in continuo sobbollimento emotivo, profumati di essenze speciali e rare, appassionatamente felici dei loro impeti o, all'opposto, delicatissimamente infelici per la loro indicibile mitezza o perché l'altezza dei desideri e appetiti della loro anima, sempre squisiti, in ricerca spasmodica di cose eccelse, tuttavia dissimulate nella semplicità del quotidiano, li costringesse a un'eterna tensione dello spirito. Penserei che dimorano in luoghi paradisiaci, emancipati da ogni lordura,  tali che la loro parola sonora, nel suo scaturire dall'anima, restituisca l'immediata bellezza/bontà essenziale degli oggetti (sentimenti, paesaggi fisici e interiori) del loro dire/verseggiare, così come immaginano che siano; e che tutto ciò manifesti ai lettori/spettatori,  come in uno speciale e magico proscenio, il fulgore dell'anima poetante. Estasi della contemplazione! 
Ecco che allora il mio desiderio corre all'indietro, oppure si mette a rivoltare altrettanto spasmodicamente i tappeti, le falde, i cassetti, le scansie  e persino i ripostigli dell'appartamento letterario, alla ricerca di un reperto trascurato, magari derubricato dai piani alti del senso levigato (e forse anche troppo liso),  di alcunché dimenticato sotto la pila degli scarti, degli oggetti irrimediabilmente danneggiati dalle pedate trascendenti o dai denti del realismo malsano o dalla beffa incandescente che scompiglia gli alfabeti e non vuole dire niente.  O sì? 

Nota Questa nota precede cronologicamente, ma anche logicamente, la "Canzonetta" di Aldo Palazzeschi

Ritardo

Non s'è levato ancora
dai tombini
verso i piani alti
il volo
delle blatte bionde
in quell'ora fatata
che
l' ampiezza fulgida del giorno
riduce a sbadiglio
serale
tra cemento di muri
asfalto e banchine
marcati
d' escrementi canini.

No, ancora no.
Perché i venti
-sfuggiti di mano
a un inverno
gravato
da numerosa figliolanza -
son monelli di strada.

Impazzano
pallidi e sfrontati birichini
nei vortici di vuoto
tra sfiati di ipogei
e angoli nascosti,
intorno agli attoniti
lampioni
a rialzare le vesti
troppo presto leggere
alle signore
a gonfiare
come velacci
le giubbe di quelli
che
i i cani trascinano
attaccati ai guinzagli
in siti meschini e olenti
di deiezioni,
fatte sfatte rifatte
per oscuro senso
e puntiglio di specie,
quali echi e messaggi,
indistinti
eppure singolari,
tramite e oltre
l' umana stravaganza.


Nota Composizione tratta dalla silloge FABELLAE di B. Mannu, edita nel 2006. "Ritardo" si riferisce alle tardive manifestazioni della primavera metropolitana e meteorologica.  Chiari, credo, i riferimenti al vissuto, non solo personale, ma alle esperienze degli abitanti delle città, dove si fa anche esperienza di bruttezza e degrado.
Mi riesce spesso difficile capire perché molti poeti continuino a ispirarsi a situazioni paesaggistiche e psicologiche assolutamente incongruenti con le loro esperienze reali. Essere poeti significa forse costrizione alla cecità e alla incapacità di esprimere "poeticamente" il senso della differenza tra desideri e condizioni dell'esperienza anche fisica, concreta? Ancora una volta, che relazione può esistere tra così detta Poesia e così detta Realtà. Ovvero esiste, ed è auspicabile, una relazione (aggiornata al tempo del postmoderno) tra poesia e verità (in minuscolo).B.M.

Non so se posso, ma riporto qui di seguito il
bellissimo commento di Maria Concetta Rosa Giannalia.
Spesso accade che alcuni dilettanti di versi, scambino la poesia con una necessaria ricerca di certa bellezza oleografica e banalizzante, ispirata all'idea astratta ma condivisa di ciò che , nel luogo comune, è la primavera. Per intenderci la stessa immagine che ce ne ha dato Botticelli. A quella dunque si riferiscono, anche se da quel quadro ci distanziano ormai secoli di cambiamenti culturali, fisici, meteorologici e soprattutto simbolici. I simboli presenti nel quadro noi forse non li intendiamo più, così interpretiamo quelle immagini alla luce della nostra cultura intrisa di consumismo e materialismo. E' chiaro quindi che riproporre quelle visioni estatiche e idealizzanti della primavera significa non  parlare della contemporaneità, della nostra quotidianità. Ma questi "poeti" si piacciono e non sono toccati dall'orrore del luogo comune. Eccoci dunque invasi da aeree danze vibranti, da nuvole rosate, da freschi zefiri di primavera, da sentori floreali e via poetando, mentre il nostro odorato percepisce accarezzanti folate di escrementi canini  ad ogni passeggiata mattutina e la nostra vista è offesa continuamente da un paesaggio urbano ed extraurbano totalmente devastato. Non può quindi essere cantata "questa "bellezza. La bellezza deve necessariamente stare altrove. Dove? Questo è  il compito della  poesia.

giovedì 26 marzo 2015

Da LASCIATEMI DIVERTIRE (Canzonetta) di Aldo Palazzeschi

...Cucù rurù,
rurù cucù
cuccuccurucù!
Cosa sono queste indecenze,
queste strofe bisbetiche?
licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa
Tarataratarata,
Paraparaparapa,
Laralaralarala!
Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura delle altre poesie....

Bubububu,
Fufufufu,
Friu!
Friu!
Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive 
quel fesso?

Bilobilobilobilobilo,
blum!
Filofilofilofilofilo,
flum!
bilolù. Filolù.
U.
.......... 

domenica 22 marzo 2015

Altro estratto da I RACCONTI DI BIANCA - MANNU

Da La domenica di Marta


Intravide il grigiore del cielo senza sollevare le palpebre verso le fessure dell’avvolgibile. Richiuse gli occhi dopo aver sbirciato l’orologio grande sul comò. Si massaggiò le tempie doloranti, le palpebre che sentiva grevi e gonfie come vesciche. Le strizzò per farne uscire un po’ di lacrima stagnante. Si voltò contro il muro per sfuggire al chiarore latteo del giorno e crearsi una notte fittizia. Sentiva di essere pallida e gonfia e sapeva che, se si fosse guardata allo specchio, avrebbe visto la ruga segnare più nettamente del solito, sulla violacea trasparenza dell’occhiaia, l’orbita dell’occhio destro: quasi una profonda cicatrice. E avrebbe colto l’espressione attonita e contrariata del medesimo occhio nel guardare se stesso irrimediabilmente imprigionato dentro quel solco curvo.
Si accoccolò forgiandosi un grembo di lenzuola sulle reni, esauste per la pressione della vescica. Doveva alzarsi. Lo fece piano tenendo gli occhi chiusi: una sonnambula. Entrò nel bagno, evitò lo specchio e si abbandonò a quel po’ di benessere espulsivo. L’odore della terra umida s’era infilato dallo spiraglio della finestra. Se pioveva, pioveva senza rumore.

Alcuni estratti da I RACCONTI DI BIANCA - MANNU

Da Fiela
Un tipo col camice bianco e con una specie di fionda infilata a collana sul collo, assicura che mi chiamo Giuseppa Antonia Bisolfa, nata, mi pare che abbia detto, a Zerfaliu nel 1950 ( ma io non mi ricordo e dunque non confermo) da una certa Antonia Palitta del luogo e da Pietro Bisolfa di Lugo di Romagna, persone e luoghi che non credo di aver mai sentito nominare e di cui non ricordo neppure un’ombra.
Ma questo bel tipo in vestaglia bianca, che si fa chiamare Dootorerdas – che razza di nome! … io ci metto in mezzo una “m” per farlo incazzare, quando sono di malumore perché lui mi rompe i coglioni per forzarmi ricordare cose di quando ero poco più che in fasce… - dice che le cose stanno così. Sì, anch’io penso che queste tali Giuseppa, Antonia e anche Fiela abbiano avuto nascita e fasce. “Ma, caro Dootorerdas , io che c’entro?”
“Uffa, non sono Dootorerdas, ma Dottor Erdas, mettitelo in testa una volta per tutte!”
“Ok, ok! Ma non strilli così, Dottorrrerdas, che mi fa mancare il respiro…”
Ecco lui  a ribattere che là(?) c’è la chiave delle mie stranezze, ma specialmente – insiste  - la “chiave di volta”… 
Che roba è questa chiave? Io conosco quella dell’uscio, quelle inglesi che servono per stringere i dadi di un tavolino con i piedi di ferro, quella del gas, quella del lucchetto dove stanno chiusi contatori della luce e dell’acqua … Quella di volta, mai sentita nominare. Ma se la chiave è lì - Zerfaliu o Lugo di Romagna oppure nel tempo andato ?- col cavolo che la ripeschiamo!  

Una cosa vera – magari non sarà tanto buona – l’ho imparata davvero da Dootoerdas: che quelli o quelle che mi abitano hanno nomi. Una  è Antonia, un’altra Giuseppa e un’altra ancora, che è quella che mi frequenta di  più  e più a lungo di tutte è Fiela. Questa è l’unica che mi piace.


domenica 15 marzo 2015

Selfie introduction di I RACCONTI di BIANCA



Su I racconti di Bianca EdizioniTHOTH
dice KatiaMelis nella dotta prefazione al libro: “…Bianca Mannu pare rivendicare a sé, al suo passato, al presente e al futuro di molte altre donne quel senso di libertà fuori da ruoli precostituiti opprimenti, capaci di appiattire e, poi, soffocare, ogni velleità di essere e di sentirsi essere.”
Dice Maria Rosa Giannalia in una recensione “Le sei donne protagoniste dei racconti scandagliano in profondità la consapevolezza delle rispettive esistenze, in situazioni diverse,  tutte legate dall'angoscia della quotidianità che incalza le loro vite….. Scannerizzando le proprie vite, apparentemente diverse, le sei protagoniste ricercano e trovano il nucleo essenziale del proprio esistere. E fatalmente si accorgono  di nonesistere o meglio di esistere solo in quanto “che cosa” e non in quanto “chi”. 
Dice Florio Frau: “È il linguaggio che evoca e crea. E fa pur sì che le vicende siano fantasmi di luce, vita di parole. E il linguaggio è il mare magnum in cui e con cui vive il nostro essere, si crea, si manifesta. Più si è “bravi “ nel servirsi della propria lingua in ogni fase, più sarà reale, credibile, il nostro esser, linguisticamente, “veri”.
Dice Alessandro Carta (in Gazzetta del Sulcis/Iglesiente): “Due sono gli elementi che emergono in maniera evidente…:la figura della donna sempre dignotosa e compassata; il pieno rispetto della grammatica … e del lettore, che non viene avvinghiato ( negli stereotipi narrativi) ma lasciato libero di godersi una sana lettura”.
Che cosa dico io in veste di autrice?
Questi racconti non sono nati in tempi ravvicinati fra loro e nemmeno in un passato recentissimo. I più antichi hanno quasi trent’anni, i pù recenti tre o quattro anni.E ciò potrebbe essere rilevato esaminando le temperature  linguistiche e gli apporti culturali che vi risultano involti. Sono donne le protagoniste.
Com’è noto, dietro ogni personaggio si nasconde l’autore o l’ autrice col suo vissuto e le sue problematiche, il suo modo di pensarsi vivere e di concepire il mondo: un sostrato più o meno intriso di cultura, di esperienza e di idee che s’impasta, si definisce, si altera, si complica e assume figura entro la logica del meccanismo linguistico aprendosi alla condivisione quale messaggio narrativo.
 Nel mio caso il narrare non insiste sulla scena dell’azione, ma interroga e s’interroga, scavando nelle motivazioni e nella natura dei contraccolpi psicologici e corporali che il vivere procura, e non cerca di confezionar(si) facili consolazioni.
Come autrice sono colpevole del fatto di concedere poco ai meccanismi della narrazione filmica, degli intrecci e dei colpi di scena. Per conseguenza mi permetterò, ribadendo i suggerimenti di chi mi ha esaminato e commentato, di indicare alcune chiavi di lettura.
Il protagonismo dei sei personaggi femminili si sviluppa nell’ambito di un antagonismo col maschile, colto in certe apparenze morbide, recessivo nell’intreccio narrativo. Ma il timbro della virilità autoritaria viene disteso in sottofondo ed è offerto nelle impronte della propria incombenza tramite gli elementi dati come oggettivi  (il mondo così come appare), quasi a mimarne  una condizione apparentemente neutra, entro la quale la protagonista gestisce la propria fondamentale solitudine e un senso di sé ambivalente, incerto, persino faticoso e doloroso. Il dialogo col partner (Altro, come custode del more solito) si sviluppa per lo più come monologo interiore, dunque si svolge  prevalentemente in modo virtuale e persino sommesso, ma, proprio perciò, lucido.
Chi vorrà leggere “I racconti” noterà anche che lo sfondo in cui ha modo di svolgersi l’azione, o la sua rimemorazione, è quello di una coscienza che acquista una certa trasparenza in situazioni in cui può sottrarsi, almeno parzialmente, ai condizionamenti esterni (nel sogno, nella malattia, nello stato di innamoramento, nel lutto, nella delusione amorosa), in quanto "luoghi" nei quali il linguaggio subisce meno la censura del controllo morale, ius patri. Essa ricupera quei messaggi del corpo e della psiche che sono portatori di istanze di verità, parzialmente li traduce in considerazioni lucide o nell’aspirazione ad attingerle, sapendole appena valide “per la comunicazione interna”, ma quasi prive di cittadinanza fuori da quel contesto solitario.
Buona lettura a chi è interessato!



giovedì 12 marzo 2015

Verbi e di-verbi: Donne in cammino?- Riflessioni di Bianca

La chiamano festa, anche se non come festa è cominciata.
 Ma se alle donne si dedica una festa (o più), significa due cose: 1° che le donne sono ancora concepite come una quota subalterna del genere umano (a chi verrebbe in mente, infatti, di istituire una festa dell’uomo?);  2° che la comunità sociale gestisce e maschera nei  loro confronti un atteggiamento ambivalente, coperto da un gesto vagamente riparatore – la festa – sintomo di un non riconosciuto senso di colpa e di forme surrettizie di proscioglimento del genere maschile da ogni responsabilità morale e storico-culturale rispetto alla sua componente femminile. Avendo attribuito alla donna, la funzione vicaria di divulgatrice della tradizione e dei valori del gruppo sociale – che pure, per molti versi, la mortificano e ne cancellano la rilevanza –   si indica la sua psicologia e la sua mentalità come le radici ancestrali dell’autoesclusione e si oscura il fatto che psicologie, mentalità e ruoli sono prodotti di occhiute strategie di potere maschilista. 
Uscendo dal terreno squisitamente ideologico e moraleggiante, basta passare alla lettura di alcuni dati ISTAT, recentissimi: la metà (50%) della popolazione femminile in Italia è disoccupata; a parità di formazione, di competenze, di meriti e di tempi di lavoro, le sue retribuzioni raggiungono il livello del 50% in meno rispetto agli omologhi di sesso maschile.
Qualcuno si chiederà: che cosa c’entra tutto questo col fatto che alcune poetesse e alcuni poeti si incontrino per celebrare la ricorrenza con la lettura di poesie dedicate alle donne?
C’entra col fatto che il genere femminino solo in epoca contemporanea (cioè dalla Rivoluzione Francese in poi) cominci a ripensare e rivendicare i propri ruoli in tutti i campi della vita, cultura, arte, scienza comprese.
La “festa della donna”  ha senso come segno di questa sua recente irruzione verso la riappropriazione della propria inalienabile soggettività e di tutti i diritti conculcati nei secoli e ancora oggi.

C’entra per il fatto che la poesia, cioè il dire e scrivere con bello stile, risulti uno spazio privilegiato in cui la sensibilità femminile si senta valorizzata. Ma occorre anche non nascondersi che questa pratica può risultare un rifugio appartato e salvo da un vero coinvolgimento nella vita reale e quindi suscettibile di un uso eminentemente conservatore. Ciò che però sfocia pericolosamente nell’artifizio e nella cecità culturale.  Invece tutti sappiamo che la cultura, come la poesia che si proclami tale, non può esimersi dal misurarsi con le verità, le verità che scottano, e che proprio questo incrocio implichi l’altro ineludibile incrocio, quello con la bellezza. Verità, poesia, bellezza, si cercano ed è proprio della poesia la possibilità di coniugare le altre due con la maestria della parola, di modo che nessuna resti tradita, tale che il giusto, il bello, il desiderabile siano non già un prodotto ossificato, ma un procedimento creativo sempre all’opera, come il cammino  della donna.

Donne in cammino?- Riflessioni di Bianca


La chiamano festa, anche se non come festa è cominciata. Ma se alle donne si dedica una festa (o più), significa due cose: 1° che le donne sono ancora concepite come una quota subalterna del genere umano (a chi verrebbe in mente, infatti, di istituire una festa dell’uomo?); 2° che la comunità sociale gestisce e maschera nei  loro confronti un atteggiamento ambivalente, coperto da un gesto vagamente riparatore – la festa – sintomo di un non riconosciuto senso di colpa e di forme surrettizie di proscioglimento del genere maschile da ogni responsabilità morale e storico-culturale rispetto alla sua componente femminile. Avendo attribuito alla donna, la funzione vicaria di divulgatrice della tradizione e dei valori del gruppo sociale – che pure, per molti versi, la mortificano e ne cancellano la rilevanza –   si indica la sua psicologia e la sua mentalità come le radici ancestrali dell’autoesclusione e si oscura il fatto che psicologie, mentalità e ruoli sono prodotti di occhiute strategie di potere maschilista. 
Uscendo dal terreno squisitamente ideologico e moraleggiante, basta passare alla lettura di alcuni dati ISTAT, recentissimi: la metà (50%) della popolazione femminile in Italia è disoccupata; a parità di formazione, di competenze, di meriti e di tempi di lavoro, le sue retribuzioni raggiungono il livello del 50% in meno rispetto agli omologhi di sesso maschile.
Qualcuno si chiederà: che cosa c’entra tutto questo col fatto che alcune poetesse e alcuni poeti si incontrino per celebrare la ricorrenza con la lettura di poesie dedicate alle donne?
C’entra col fatto che il genere femminino solo in epoca contemporanea (cioè dalla Rivoluzione Francese in poi) cominci a ripensare e rivendicare i propri ruoli in tutti i campi della vita, cultura, arte, scienza comprese.
La “festa della donna”  ha senso come segno di questa sua recente irruzione verso la riappropriazione della propria inalienabile soggettività e di tutti i diritti conculcati nei secoli e ancora oggi.

C’entra per il fatto che la poesia, cioè il dire e scrivere con bello stile, risulti uno spazio privilegiato in cui la sensibilità femminile si senta valorizzata. Ma occorre anche non nascondersi che questa pratica può risultare un rifugio appartato e salvo da un vero coinvolgimento nella vita reale e quindi suscettibile di un uso eminentemente conservatore. Ciò che però sfocia pericolosamente nell’artifizio e nella cecità culturale.  Invece tutti sappiamo che la cultura, come la poesia che si proclami tale, non può esimersi dal misurarsi con le verità, le verità che scottano, e che proprio questo incrocio implichi l’altro ineludibile incrocio, quello con la bellezza. Verità, poesia, bellezza, si cercano ed è proprio della poesia la possibilità di coniugare le altre due con la maestria della parola, di modo che nessuna resti tradita, tale che il giusto, il bello, il desiderabile siano non già un prodotto ossificato, ma un procedimento creativo sempre all’opera, come il cammino accidentato e insidioso delle donne.

martedì 10 marzo 2015

Tra lingua, storia e politica

Considero che a marzo i temi della “questione femminile” tornano per qualche giorno alla ribalta mediatica, dove sembra stancamente ripetersi il rito della donna tuttofare, santificata a parole e perciò meglio ingannata. Questo rito festivo, ora molto banalizzato e commercializzato, serve anche a far calare un siparietto attivatore e complice della distrazione sonnambolica sulla condizione femminile, ponendo l’accento sulle macroscopiche discrasie che affliggono i paesi, diciamo culturalmente non occidentalizzati. Come se da noi, nell’Occidente, detto democratico e super industrializzato, avessimo conquistato davvero la parità di genere.
Riprendiamo i riferimenti extralinguistici di una parola: MASCHILISMO, entrata ormai nel vocabolaro quotidiano.
Mica è sempre esistita questa parola!  Anche se l’effetto linguistico è proprio quello risultante  dalla sua codifica.
Incardinata nel sistema dei suoni, dei segni, della morfologia, della sintassi, dei significati e delle loro relazioni, dei riferimenti e delle pratiche attinenti -  è come vi fosse da sempre inscritta e, come tale, suscettibile di usi retroattivi, fattuali e ipotetici, la parola «MASCHILISMO» è invece figlia della storia recente, anzi attuale e già misconosciuta o dimenticata.
Compare assai tardi rispetto alla nozione di «FEMMINISMO», a torto ritenuta di significato opposto e quasi da esso derivata.
Andiamo per gradi.
Una prima definizione riguarda il FEMMINISMO come movimento politico, culturale e sociale, che pone in discussione gli esistenti rapporti di potere tra i sessi.
La nascita di tale movimento conosce alcuni antefatti durante la Rivoluzione Francese, ma vede il proprio sviluppo teorico e pratico durante l’800 in Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia.
In realtà sarebbe corretto parlare di «femminismi»  tenendo conto della variegatura delle posizioni assunte nei diversi contesti e tempi dalle sue maggiori rappresentanti.
Cito testualmente da Wichipedia:
“Le origini del termine “femminismo” si possono rintracciare in due ambiti diversi:
·        all’interno della letteratura medica francese, in cui veniva usato per riferirsi a un indebolimento del corpo maschile;
·        nel contesto delle mobilitazioni per il diritto di voto in Francia.”
Hubertine Auclert lo utilizzò nella sua rivista <La Citoyenne> il 13 febbraio del 1881.
Nel citato sito Internet potete trovare un’ampia documentazione storico teorica del movimento femminista  in Europa e nel mondo, nelle sue diverse fasi di sviluppo, espansione, riflusso e intrecci con altre battaglie civili e politiche.
Che ne è dell’accezione «MASCHILISMO»?
Di certo non è un movimento, né un partito politico, né un’associazione o un’entità che si sia data un nome o un simbolo per contestare o  realizzare alcunché.
Allora bisogna ragionarci un po’ su.
Intanto il suffisso «ismo» indica che il termine non fa riferimento a una condizione naturale, ma a una posizione ideologica, culturale, politica. E, sotto questo riguardo, sembra omologo a «FEMMINISMO».
Ma come abbiamo accertato, quest’ultimo termine fa riferimento a eventi e atteggiamenti storicamente inediti che hanno dato vita a veri e propri sommovimenti organizzati di persone,  volti a denunciare la crisi e/o a scuotere certi assetti sociali consolidati mediante lotte molto concrete, talvolta drammatiche e sanguinose.
Perché questa differenza nei riferimenti fattuali?
L’origine  o passaggio dalle culture matriarcali alle culture androcentriche o patriarcali si perde nella notte dei tempi. E su tale tema la parola specifica spetta alle scienze antropologiche,  capaci forse  di dar voce a tracce molto ambigue e obsolete.
Noi, civiltà del simbolo, abbiamo conosciuto  solamente ordinamenti sociali economici e giuridici fondati sulla centralità del patriarca, sulla subordinazione ad esso della soggettività femminile, fino alla perdita di ogni forma di auto percezione indipendente.
La civiltà androcentrica non si è definita come tale, si è ritenuta, anzi si è posta e imposta come «la civiltà» tout court, senza limitazioni e aggettivazioni.
Agli albori della divisione sociale del lavoro, le donne costituivano il gruppo sociale già discriminato e privato dell’immagine autoctona della propria soggettività. Così parrebbe. 
La società patriarcale si rappresentava e ha continuato a rappresentarsi come olistica fino allo sviluppo del Capitalismo, allorché, per impulso coercitivo a liberare le forze produttive cristallizzate nel vecchio ordinamento feudale, ha scoperchiato il vaso di Pandora, che ora, a singhiozzi, tenta di richiudere o di controllare.
In quelli e in  questi moti di rinnovata lotta delle classi, di emergenza di nuove soggettività variamente organizzate, il movimento delle donne non poteva non trovare la via per emergere e intessere con l’assetto preesistente rapporti assai  articolati e ambivalenti e anche lottare duramente contro di esso e contro i suoi   ordinamenti.
Come sempre le lotte si sviluppano a vari livelli: dall’astrazione teorica alla concretezza corporea e viceversa, in faticosi intrecci, nei quali i corpi dei singoli soggetti/persona sono coinvolti, attraversati e feriti non solo dalle tensioni liberatorie e/o assoggettanti, ma dalle insidie, anche fisiche, che i lottanti mettono in campo.
Le parole in uso assumono allora una valenza importante, altre vengono forgiate sul campo, perché siano incisive o pregne del significato e della tensione del momento. I movimenti progressisti hanno bisogno specialmente di parole rivelatrici di verità trascurate … 
Andando alla ricerca di documentazioni sulla parola  «MASCHILISMO», mi riesce solo di puntare la piccola luce della mia debole pila su vapori di lotta ancora caldi e fumanti, benché col fiato corto del riflusso … 
Inequivocabilmente avverto il tono del dispregio che incrocia quello dell’arroganza per quanto ha la pretesa di voler sopravvivere alla propria già decretata morte storica e per quanto spinge per dare fiato alla propria esigenza vitale …
La parola «MASCHILISMO» pare esser nata nel fuoco della battaglia nella quale molte donne, armate della scoperta di una soggettività possibile, si sono rivoltate ai loro antichi focolari … vogliose d’un’umanità meno schiacciata sul disegno di un’ insormontabile impronta animalesca … ancorché dipinta di sacro per meglio incutere la fissità panica dell’assoluto.
Scoperta di una soggettività che attende la sua ripresa, la sua riattivazione;  perché le cose della storia non sono mai assodate per sempre.
Modestamente, com’è giusto che sia, mi sono piegata sul dizionario dell’uso, quello formato da vari e pesanti volumi …
Accanto alle sue notazioni terminologiche vedo un (CO) come comune e una data: 1937… Data del conio? C’entrano in qualche modo i futuristi? 
E dopo la parola capofila, ecco una piccola teoria di termini derivati e  contratti, con «ista»,  «ismo», «istico» in coda, e quasi tutti accompagnati da numeri che sembrano date della nostra era cristiana … Sono quelle date che scendono sui piedi del secolo passato e che ci hanno conosciuto  già adulti?
Sì, credo proprio che la parola «MASCHILISTA» e i suoi derivati siano il segno di una lotta, tutt’altro che relegata alla lingua, la quale attende ancora di svilupparsi e portarsi a compimento.
In questo vespro della democrazia italiana, in cui il vecchio e il becero si spaccia per nuovo, e il buono non ha avuto abbastanza vita da produrre i suoi frutti, tutti i gatti sembrano bigi e impegnati a strapparsi i bocconi reciprocamente, e che non sia dato niente altro alla platea degli italiani viventi se non di assistere a questo desolante spettacolo...  Ebbene, su questo palcoscenico, femminismo e maschilismo  sembrano potersi disporre in semplice funzione oppositiva, come due astrazioni prive d’anima e confuse dalla nebbia esalante dalla  palude dell’esistente … che appare, ma non è affatto, neutra.
Più d’uno, capitano o centurione, con facile “benaltrismo”, continua a ingannarsi, specialmente  a ingannare, inducendo l’idea che i diritti civili siano inconciliabilmente alternativi rispetto a quelli economici e viceversa. Non diamogli credito: non è disinteressato. Ricordiamoci che nel frattempo i cesari  distruggono i presupposti materiali  e umani per gli uni e per gli altri.
Che fare?
Dovremmo rammentarci anche che il cesare di turno ha solo  il fiato che gli diamo. E ha nessuna importanza se il suo cognome inizi con R o B o X,  mentre importa che si dichiarino FEMMINISTI (e di quale femminismo!) uomini di potere che si circondano di figure femminili ancillari,  le quali tornano buone per rappresentare invece la presunta, culturalmente imposta e psicologicamente introiettata minorità costitutiva intellettuale e sociale del genere femminile.





domenica 8 marzo 2015

Operaia pendolare





Di bellezza
non altro segno
che non sia questa
tua giovinezza
chiusa in un sonno
immemore e stanco.
Da te Eros sembra fuggito
– da te –
se mai t’ha sfiorato il suo incanto.
Così sulle tue labbra – pur piene –
pare ogni apollinea grazia estinta
e scontare in albo turgore
infinita fame di sonno
archiviato a credito
di  nottate al neon
di fatica manuale
ancor più  impressa
sulle  piccole mani
dai capolini corrosi
abbandonate sul grembo
come consunti pennelli

ridotti alla ghiera.

venerdì 6 marzo 2015

Si scioglievano (Vita da donne)



Si scioglievano  i chiusi petali
nel boccio

dentro il brodo di cottura
quotidiano

E la sera  stentava
a ripescare

alcunché del cuore
fuso

tra capelli d’angelo
digiuni di sapore






mercoledì 4 marzo 2015

Scrittura al femminile?


Ossia che relazione intercorre tra l'essere donna e lo scrivere.
Qualcuno ha spesso sostenuto la specificità della scrittura delle donne, sottintendendo nella nozione di specificità, una "naturale minorità" della loro scrittura. E per certi versi accade proprio che diverse scrittrici si siano mosse dentro uno psicologismo della femminilità tutto interno ai ruoli costruiti per il modello di donna felicemente assoggettata alle  situazioni di "libertà vigilata" in cui è vissuta e continua (parzialmente) a vivere, vigilata a tal punto che tu soggetto femminile di limiti a vederti con gli schemi entro i quali sei stata storicamente, culturalmente e socialmente inquadrata. 

Essendo io una persona che si è presa la libertà di documentarsi anche fuori dal proprio recinto di genere, di confrontarsi con vari punti di vista e di scrivere interpretando idee e rinunciando anche al pericoloso godimento offerto dal volersi ritratta "come ti si vuole" , ecco che  ho fatto un tentativo di affacciarmi al tema indicato sopra, riflettendo sui miei stessi testi, per esempio quelli che formano la silloge Il silenzio scolora e la raccolta di I racconti di Bianca.

Sete d’esistenza





Correva come il sangue
obbligato all’empietà religiosa del suo flusso
raccogliendo messaggi
dalle cieche finestre della sua prigione –
come il sangue correva
tua sete d’esistenza
annusando forme di destini
rullanti sulle creste che il caos
o l’ignota infermità del mondo
depone sulla sabbia
della fattualità abortita
della fattualità già morta.
Ignori ciò che annusi
tra le bende fanciulle sopra gli occhi
rimasti attaccati al sogno
e lì sorpresi a posare  sul ramo
del già domani
 e a dondolarvi fin dallo ieri
di qua del muro dell’oggi d’allora
che ti chiude in quest’adesso
moribondo ancora
senza che il dopo -
che credevi ostaggio
della stretta beatitudine del pugno –
possa scavalcarlo di persona.
Dalle tombe dei fatti promana
la sostanza di che vivi - adesso.
Condizione altra - senza io/tu nella sonorità
marina dell’idioma - questa
di verminosa esistenza e sassi – godi a saperlo!-
perché la stretta feritoia
dell’istante ne chiuderà il passaggio
senza interrogarti.

Tra le nebbie di ieri e di oggi, un pensiero personale sull’immagine che ci vede donne in cammino



Il cammino delle donne nella storia? "Cammino" implica un andare verso, come se davvero la specie Homo e poi quella Sapiens sapiens e poi quella parte della specie Sapiens sapiens foemina, custode inerme dell'evento terrifico e osceno della morte (menarca e parto all'insegna del sangue)  - e perciò deprivata di e esclusa da l'amministrazione del sacro, del sé e del potere - avesse chiaro, fin dalla sua notte, un proprio fine...
Neppure adesso la gente femmina sa i suoi sé, né dove cammini bene non sa, né con chi e per chi, come neppure i suoi omologhi maschi. Diciamo che avanza e arretra, ristagna inquieta attraversata com'è dai contrasti di classe e di cultura; inciampa sui simulacri che la abitano, s'interroga, forse per interposte persone, su  come fabbricarsi i ruoli da comprimaria in un mondo che rumina e violentemente risponde senza corrispondersi... 
I "Fogli d'album" sorvolano un cielo molto perturbato, sono il sogno appiccicato  dentro le nostre palpebre tatuate, infibulate durante rituali inventati da sedicenti dei che scambiarono per scettro un pene vacillante.
Perché ci raffiguriamo come se fossimo dentro un quadro simile a quello - Quarto stato - di Giuseppe Pellizza da Volpedo, come se fossimo il quinto stato
Siamo prese forse dal parossismo della gioia onirica che sovrappone alle parti un tutto che non c'è? Celebriamo forse la nostra forzata esclusione, come se l'avessimo scelta e fosse il monumento della nostra ambita identità?