Intravide il grigiore del cielo
senza sollevare le palpebre verso le fessure dell’avvolgibile. Richiuse gli
occhi dopo aver sbirciato l’orologio grande sul comò. Si massaggiò le tempie
doloranti, le palpebre che sentiva grevi e gonfie come vesciche. Le strizzò per
farne uscire un po’ di lacrima stagnante. Si voltò contro il muro per sfuggire
al chiarore latteo del giorno e crearsi una notte fittizia. Sentiva di essere
pallida e gonfia e sapeva che, se si fosse guardata allo specchio, avrebbe
visto la ruga segnare più nettamente del solito, sulla violacea trasparenza
dell’occhiaia, l’orbita dell’occhio destro: quasi una profonda cicatrice. E
avrebbe colto l’espressione attonita e contrariata del medesimo occhio nel
guardare se stesso irrimediabilmente imprigionato dentro quel solco curvo.
Si accoccolò forgiandosi un grembo di lenzuola sulle reni, esauste per
la pressione della vescica. Doveva alzarsi. Lo fece piano tenendo gli occhi
chiusi: una sonnambula. Entrò nel bagno, evitò lo specchio e si abbandonò a
quel po’ di benessere espulsivo. L’odore della terra umida s’era infilato dallo
spiraglio della finestra. Se pioveva, pioveva senza rumore.
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