Un libro per esistere
Opera prima in versi di Alessio
Simoni, ventiquattrenne.
Un
titolo ad effetto e a richiamo di certa iconografia filmica attuale? Macché;
è una metafora che traduce efficacemente e visivamente la problematicità del
rapporto di Alessio con la sua condizione umana fisica, col suo sé psicologico,
con l’immagine di sé che il flusso allusivo/elusivo del milieu comunicativo
umano insistentemente gli rinvia. Detto in parole povere, lui è il “mostro”
perché tale si ravvisa nella propria evidente e insormontabile
“disabilità-difformità”, a causa della quale e per la quale ha dovuto dare nome
al luogo “adeguato”- “l’antro” - che “anonimamente”
gli è stato assegnato. Si tratta di quella fortezza-prigione in cui scoprirsi chiuso
e chiudersi, a tu per tu con l’ambivalente se stesso per come si sente e si sa.
(Malcom X invitava i Neri a demolire anche lo steccato mentale
con cui ciascuno rinforza soggettivamente l’esclusione oggettiva. Il meccanismo
è identico per il “disabile”, ma forse peggiorativo).
L’antro
risulta altresì frequentato
dalle personificazioni fantasmatiche dei
vissuti di Alessio, nelle quali
probabilmente convergono tutte le
negazioni fisiche, culturali e sociali, i travisamenti emotivi e affettivi
agiti e subiti, gli spettri edonistici, estetici e utilitaristici - di cui si
nutre la società contemporanea. Questi elementi diventando costitutivi delle
istanze e degli inceppi dell’io, sono gli assidui torturatori delle esistenze -
quella di Alessio, ma non solo, - inevitabilmente discoste dagli inarrivabili quanto
instabili modelli della norma dominante, biecamente competitiva ed escludente.
Queste,
le tracce della tematica di fondo, da
cui prendono corpo le composizioni della raccolta. Siccome il libro proviene da una direzione di cui il senso
comune, colto e incolto, non si occupa, esso potrebbe apparire come prodotto
avventizio, carico di incertezze
lessicali e morfologiche e di evidenti defaillances stilistiche – forse
fastidiose, per i cultori del “poetese” in vernice –, le quali indubbiamente ci
sono, ma sono il prezzo per un percorso iniziale non propenso all’omologazione
nel “carinismo” edificante
o nella pura goduria verbale, oggi proposti e accolti.
Da un antro ci si aspetterebbe, più che la parola del “mostro”, l’urlo,
il pianto, l’accecamento, il ripiegamento afasico, il silenzio suicida, ma anche, forse meglio, l’ingannevole e
prefabbricato cliché consolatorio … su cui commuoversi e poi mettersi l’animo in pace.
A ben riflettere da lì, di
solito, non giunge alcun segno, a causa di filtri invisibili e spessi che si
sommano alla comune sordità; da lì non
giunge quasi nessuna nozione di persona in carne ossa, né di sua rabbia o suo
pensiero, ma solo narrazioni fatte da
altri, magari con intenti edificanti, con riferimenti a formalità e ad astrazioni generali e generiche,
boccaporti piuttosto che itinerari umani, a simulare accoglimenti e premure ambigui e pelosi con cui il “diversamente abile” e
autocosciente sperimenta i duri impatti col sociale che si spaccia per “aperto”…
Ed ecco che salta fuori un
… Non salta fuori per niente … Anche solo per questo cenno timido di “io ci sono e penso e scrivo” sotto forma di libro, messaggio in
bottiglia lanciato in faccia alla sordità babilonese del nostro tempo … quanto
sforzo, quante difficoltà! Un libro, dunque,
esposto al sole e allo stesso tempo
abbuiato in un colore d’ombra su un tavolino che pare di nessuno, in una piazzetta di una delle più remote
banlieues di mondo, in una “Mezcla” culturale periferica messa su da un pugno
di ragazze …
Questo libro non è il fungo di una sporulazione
anomala. Per ciò che dice e per tutta la
tensione ideativa che contiene, è stato necessario - non un qualunque pezzo di esistenza di un
qualunque medio cittadino - ma lo sfiato
silenzioso e prolungato di una tensione fortissima, ignota al mondo, mantenuta
dolorosamente per le redini contro la sonnolenza del congelamento e della compressione
nel sottosuolo dell’esistenza …
Dietro il “fatto/libro” si
deve collocare una primigenia e autoprodotta scuola di volontà-decisione a
vivere pensando e volendo comunicare, si devono intuire le prove a esistere e resistere da parte di Alessio, quindi la sua irruzione - né immediata né pacifica, si presume - nel
mondo del simbolo, come quella di un assetato che si accosti a un’acqua torbida e persino letale. Entrarvi con i
pochi strumenti carpiti a questo mondo avaro e circolarvi come un alieno,
fare i conti con banalità dure come sassi e tirate a lucido come autentiche
verità, e volersi proiettato in mai prefigurate avventure nella dimensione
della parola, alle prese con un linguaggio che scalpita tra il letterario di
altissimo lignaggio, magari scoperto
nell’antologia scolastica, e quello dell’uso metropolitano, morfologicamente
selvatico.
Che Alessio, in quanto
studente, abbia dovuto buttare l’occhio, sui massimi poeti della tradizione
classica, appare un fatto quasi ovvio. Ma che vi abbia indugiato e se ne sia
servito autonomamente con lucida audacia, insinuandosi nei saporosi
componimenti della poesia classica antica (Adriano, per esempio) e medievale (Francesco
d’Assisi e Cecco Angiolieri) per pensare
se stesso e dare forma a quel suo pensarsi, con esiti interessanti, è indice di
un viraggio formativo importante e l’inizio di una ricerca stilistica nella
direzione di un pensiero potente che rilegge la condizione personale e “politica” dell’umano e del mondo di oggi in
una dimensione ecumenica.
Sta
ancora compiendosi l’oscuro percorso di Alessio per trasformare in parole-suono, in
parole-stridore, in parole-cesoia, in parole-grinfia, l’arsione di essere ciò che il corpo obbliga e ciò che ci si vuole costituire(errata corrige) sempre e di nuovo: uomini. E
il corpo fa quello che vuole, come disse la scienziata Montalcini, ma la testa,
il pensiero sono io. Per Alessio ciò che abita il corpo e costituisce
l’umano è “l’essenza”. Essa è
“meraviglia” e il corpo ne è rifugio, bara aperta e tempio. Per questa meraviglia,
fragile anch’essa, che smentisce e nobilita le miserie del corpo e si traduce
in impegno civile e morale, vale la pena accettare il difficile compito di
sentirsi parte, pur sofferente e discorde, ma consapevole, del genere umano. Da
questa inquietudine può nascere autentica poesia.
Il corpo e la parola
Quando il corpo vivente incontra la
parola, questo incrocio diventa
discorso.
Quando il discorso prende di mira senso
e significati, il corpo si scarnifica, in quanto diviene parola e anche parola
scritta; questa si stacca dalla pura materialità originaria, la quale tuttavia permane
come presenza assente nella sussistenza
produttiva del discorso. In tale congiuntura, la corporeità stessa, pur così
intrusiva e fatto scontato, diviene il presupposto recessivo del parlante/scrivente; cioè qualcosa
che, letterariamente, non ha presenza, se non come allusiva e generica sorgente
della costruzione del corpo-mondo verbale. Perché il corpo, nella sua nuda
essenzialità, è letterariamente osceno e, più che materia bruta, è il congegno amovibile
per discorsi eventuali, è dispositivo che mette in atto qualcosa che sorge
dalla fisica vivente e si fa capace di elaborare discorsi nei più vari stilemi,
ma nei quali il corpo come tale si risolve e dissolve.
Leggendo parecchi scritti, di poeti e
prosatori, ma non solo, si ha l’impressione, anzi la netta percezione, che
verso o discorso siano un paludamento del corpo che dice e scrive rimanendo in
eclissi come entità fisica. Esso, o espressamente richiamato o rimanendo
sottinteso, risulta emendato dalla propria carnalità animale.
Anche là dove emerga
rappresentato in scabrosa ipermetropia descrittiva, resta simbolizzato, e riconsegnato
ai quadri, ai modelli attraverso cui viene elaborata la sua possibile trasformazione
e accettabilità culturale. L’umano eccede la sua pure
insuperabile fisicità/animalità.
Anche nella raccolta di versi L’antro del mostro, il corpo,
corpo del mostro nel suo luogo appropriato, l’antro, pur dichiarando un
riferimento urgentemente biografico e
personale, subito mostra un proprio paludamento: cioè è già elemento mentale,
psicologico e storico letterario. E nondimeno il rivestimento simbolico indica una
condizione reale: consistenza inquietante e negativa del corpo/prigione e
persino quasi colpa. L’esperienza occlusiva ed escludente della fisicità
cagionevole in questo mondo che la taglia ipocritamente fuori dalla sua norma,
trapassando nel corpo- parola e nelle sue declinazioni relazionali con altri
corpi reali e “parlati”, pur insistendo
come condizione fisica in atto, è già spirito-mente del corpo in parola.
In altri termini, è nel mondo del
simbolo che si concretizza il ruolo della corporeità, cioè i canoni della sua proponibilità estetica ed etica, la
barriera delle idiosincrasie pregiudiziali, il raggio degli accoglimenti e dei rifiuti e la presa di coscienza della loro consistenza
ed efficacia, della loro conflittualità e/o confluenza . E lì si delinea la
dimensione mitologica e metaforica tramite cui si travestono o si rivelano i portati del personale col
sociale e col politico.
Alessio
Simoni, per esempio, si “veste” da Nano, racconta la sua inutile ricerca
d’amicizia-amore-completamento umano, si
fascia di speranzosa Illusione e
annaspa nel gorgo delle assenze. Ciò malgrado emana una propria Essenza che eccede e supera la povertà corporea e, in
qualità di “ Tranquilla anima leggiadra”
ospite del corpo/bara/tempio, trova alimento e procede nella ricerca
libera e salvifica del senso, per mezzo e
oltre i duri limiti fisici e il sempre incombente immiserimento
psicologico. Talora l’Alessio/pensiero/parola si libra disperdendosi
come granello senziente nella condizione di natura/parola sotto il regime del Sole:
concetto/immagine materna piuttosto che
paterna. Ma poi intuisce che quella luce “è come un imbroglio che nasconde”… Come dire che l’univocità della natura è un
effetto mitologico e che nell’universo simbolico tutto è manipolabile.
E ancora Alessio si iscrive al registro dei
Fuori asse umani, rivendica la
sua condizione “diversa”, e da quella prospettiva, cerca di valersi
intelligentemente della possibilità di contestare ogni atteggiamento
schematico, di dissentire rispetto ai
comodi luoghi comuni, per sperimentare, invece, l’autonomia del pensiero
inquisitore, indicando nella ricerca di conoscenza e nella discorsività
scientifica la possibilità di sorvolare a tratti, più che il fango della condizione a termine dei viventi, la sentina
dell’insulsaggine e della follia che costantemente minaccia il genere umano,
gonfio della propria millantata “supremazia”.
Ma Alessio sa bene che l’ottimismo della
volontà personale ha respiro cortissimo: potenti lacci di ogni risma, compresi
quelli sociali e culturali, si strutturano nell’“io” in catene di paure, di
pregiudizi e di egoismi millantatori. La dimensione grettamente individuale impatta
col delirio. Esso è sintomo dell’eccesso, talora compresso e distorto oppure ignorato, che
caratterizza l’umano. Delirio di possesso, delirio di potenza/impotenza, delirio
di mancanza, sete inesauribile di quel qualcosa che si libera nel rapporto di
riconoscimento io-altro, di quel qualcosa di necessario alla nostra pur
precaria completezza, quel qualcosa inattingibile in un “mondo diviso” e che vi
permane come assenza. Quando il delirio prevale “assume le facce ordinarie, le
mostra a tutti, le fa odiare”.
Il delirio, si sa, è la risposta emotiva
e panica a un dato insopportabile perché insuperabile come dato: la
frammentarietà e discontinuità dell’umano, e l’erotismo negato. L’erotismo è
quel “di più” che si manifesta come
ricerca dell’esperienza totalizzante con l’altro. Comprende l’amore, la morte e
il legame col tutto.(cfr Bataille) Il
delirio, dice lucidamente Alessio Simoni, non è mai pago, risucchia ogni
sentimento in vortici di carenze e sovrabbondanze, e l’amore stesso è demone e
angelo che dà e leva rare possibilità di gioia. Considerazioni che indicano la valenza erotica di cui è impregnata la sua raccolta di versi. Vi è
espresso l’erotismo del corpo, quel volersi identificare e compiacere in
una propria fisicità e impattare invece nelle irrefutabili insanie della natura
matrigna, fonte di dolore e minaccia di morte. Vi circola l’erotismo
dell’anima quale immanente esperienza della discontinuità esistenziale e del
suo necessario tendere al complemento relazionale, ma vi si coglie l’urto del
suo scacco, reale o presunto, e il senso di una disperante solitudine.
Anche
l’erotismo del sacro si manifesta
chiaramente in questa silloge. Talora si esprime come negazione di un’entità
trascendente dotata di poteri superumani nel cui seno addormentare il male del
corpo e il male di vivere, talaltra come possibilità opposta, seme di speranza circa
la reversibilità del male verso il bene; altra volta tale erotismo del sacro si
manifesta in afflato cosmico, come esperienza interiore del profondo e
necessario legame di ogni uomo con i suoi simili e dissimili viventi, con la
natura in perenne resistenza al nulla incombente.
Tutti i temi e le
problematiche essenziali del vivere umano formano il contenuto dei testi. In
quali forme li elabora Alessio?
A una prima lettura sembra
imporsi una certa discrasia tra la profonda tensione ideativa, stimolata
dall’immediata urgenza dei vissuti e della loro portata ecumenica, ma debolmente suffragata da riferimenti dottrinari
ancora oscuri, e la realizzazione testuale in cerca d’uno stile autonomo. È ben vero che l’elaborazione in versi rende possibile
– almeno secondo una visione popolareggiante – una quantità di licenze e
passaggi espressivi al limite della perdita di senso, di riferimenti
concettuali e di logica, ma è anche vero che un poeta neofita, portatore di una materia prima così significativa, come
quella che percorre le pagine di L’antro del mostro, ha necessità di
maneggiare con perizia lo strumento linguistico e di affinare la scelta
lessicale, se desidera che il proprio messaggio sia, quanto meno, inteso, se
non goduto.
Per ora, il primato del
contenuto è lo zoccolo duro della scrittura di Alessio, ciò che non è poco in
un momento e in un contesto letterario locale che spesso si scioglie in
compiacimento dentro un vacuum verbalistico di finte emozioni.
Avendo scelto le
parole “mostro” e “antro” per rappresentare la propria condizione, ma anche la
propria inusitata e “oscura”
attività vitale, che involge i più
diversi e contrastanti sentimenti e meccanismi ideativi, Alessio dimostra di
saper cogliere in modo diretto e coraggioso la potenza metaforica e polisemica della
parola.