sabato 31 marzo 2018

UNA LETTURA IN DIRETTA di ANGELA ARGENTINO


Nota di Bianca Mannu . Ecco una poetessa e scrittrice che, mentre legge un libro non suo, scrive osservazioni e giudizi,  interroga e dialoga con i testi e gli autori. Sì, in questo caso lo fa spontaneamente, e con semplicità  ci chiede se noi autori vogliamo leggere in pubblico i suoi commenti. Abbiamo in testa i soliti commenti frettolosi del social. Diciamo di sì, ma poi ci rendiamo conto che non è possibile, data la lunghezza,  nel corso di una presentazione. Ci impegniamo a pubblicarne su questo blog.  
Il suo scritto è un seguire quasi passo dopo passo la silloge di poesie “Sulla gobba del tempo” la cui foto postata su fb ne segnava l’uscita editoriale e poi la 2^ presentazione a Quartu S. E.
Angela Argentino, sembra leggere quasi ad alta voce; lo fa, come si può constatare, in un modo molto singolare, scevro da formalismi e da presunzioni autoreferenziali, né si appiattisce sul modello dei vuoti pourparler invalsi nei crocicchi di fb, magari scompigliando le inquadrature, che di lei e di noi e di altri,  i bigdata della rete estrapolano quali atteggiamenti più solidi e frequenti. 
In ogni caso Lei ci offre un modello di lettura in diretta, perché, a quanto pare, lei “sa leggere”!
Trascrivo integralmente risparmiando un po’ sugli spazi.
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Angela legge Sulla gobba del tempo



Qualche tempo fa sono entrata nel cerchio magico di alcuni poeti sardi. Li leggo e  li sento vicini. Il libro ‘’ Sulla gobba del tempo’’ mi ha portato le voci preziose di 4 di loro a cui vorrei far giungere, oggi, le parole che ho segnato a margine di certe loro poesie.

Mariatina Biggio sa racchiudere in poche parole miracolose  la memoria e il dolore, il tempo e le sue spoliazioni.  La sua poesia è racchiusa in cammei incastonati in un bracciale di parole che a volte diventa sottile e inutile struttura alle pietre preziose di alcuni versi di rara bellezza. Imparerà che la riduzione può triplicare l’ineffabile musica di Eros che ’’ nel nulla si infiora’’ mentre lei ‘’...musica l’ora del sogno, in bocca la luce dei baci..’’
‘’Ero pietra rimossa’’. In questo solo verso la tenace volontà di vivere nel sole.
Nel verso  ‘’ isola di nuove stagioni’’ coniuga in poesia la solitudine umana e le  poche speranze dell’uomo, al sogno dell’immensità dopo di noi. 
Sa cantare il Tempo, Mariatina.
Il tempo di una casa, il tempo di una persona diventati invisibili al tramonto.
E’ l’anima, la sua interlocutrice; un’anima sollecitata che va incontro al corpo per diventare insieme, altare nel vento. 
E’ fatta di attese che si accumulano sul cuore, la sua vita.
E’ alla Memoria che lei affida l’estrema comunione tra gli uomini;  è alla Speranza che lei innalza il suo cantico perchè l’uomo semini ancora bontà e saggezza.
Persino i sogni infranti sono un pane da spartire in una comunione tra gli uomini e il creato. Infine, è una Eucarestia che Mariatina innalza alla sua Sardegna, mensa sulla quale ha raccolto tutti i doni e tutte le meraviglie.

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A Bianca Mannu piace perdersi nella pluralità semantica delle parole. Già il titolo della sua raccolta mi obbliga a certi interrogativi:  stagioni nuove e nuova mente?  o  temporanea mente come intelligenza provvisoria per il tempo della nostra vita?
Tutte le sue poesie richiedono impegno; sono profonde,sofferte.
‘’Curva minore’’ è per me la concezione descritta come  un teorema di fisica.  Suona al mio cuore con la stessa forza dell’equazione della relatività.
Il risultato è una sapiente cecità che vive e si spegne.

Ora dimmi, cara Bianca, se è mai stato detto con tale forza cosa è l’essere umano? Sei tu l’istante perso? Quell’atomo in corsa che ha perso la sua corsa un istante, per farsi raggiungere dal sole? Ora trasformata in mille e ancora mille istanti che ubbidiscono alle leggi dell’elettronica, una vita umana sotto un cielo che esiste in forza del suo nome, e tu Bianca, creatura Bianca, che sente il suo tempo già passato come quello di una stella la cui luce ci arriva dopo la sua morte.  Del futuro fai già un passato .

 Il tuo ‘’vizio di vivere’’ è tutto un discorso  di pezzi di sé, estranei a se stessi ed è tutto un attrarre nel tempo  breve della vita, il breve tempo a noi concesso per esercitarci  a carpirne il mistero e la ragione. E in questa ricerca  che ci vede come amebe inconsapevoli, affamate di vita, nonostante noi, impariamo il vizio di vivere.
In ‘’Sintesi e dispersione’’  mi sono persa. Poesia altissima.
Ho visto tante guerre  tra verbi e sostantivi  ‘’ ...su dissonanze vocaliche ALITO malferma...’’  dove ALITO può essere verbo ma ho pensato che tu lo avessi VOLUTO concepire come un sostantivo maschile  da accoppiare ad un aggettivo femminile, a sottolineare un conflitto tra geni, entrambi approssimativi e di genere diverso.
‘’ll tempo tesse l’assenza ‘’ un altro verso dove dichiari di non appartenere alla vita ma di percepirti solo come un’immagine fissata di essa .
’’... Indecidibile...’’  e non indeciso  è  il tuo presente perché impossibile da determinare. Mi hai condotta alla fine a guardarti ridotta a un ‘’ biocco di polvere tra spifferi vagante sull’ammattonato’’ 
Il tuo ‘’ scampolo per-verso ‘’ già dall’attacco arriva allo stomaco come un pugno, per il pronome  indicativo ‘’ questa’’, indirizzato alla vita, che non osi nominare.
 E descrivendo passaggi, ingressi forzati, strettoie e affanni,  chiusa in questo ‘’pugno ossuto’’, continui  a ricevere l’oltraggio del tempo.
 In un veloce excursus verso il passato che fu di ‘’ sensi aperti’’ ora ‘’ questa’’ ( di nuovo il rifiuto a chiamarla vita) tu poetessa e donna ,ti presenti come un ammasso di sensi volti solo a proteggerti. Gli occhi per guardarti attorno senza cadere e la bocca muta.  
E’ tutta giocata sugli ossimori del tempo, la poesia ‘’ Rinascere’’ , poesia preziosa nella sua scaltra velocità di slittamenti semantici e temporali. Tutto un lanciarsi  verso l’attimo che tutto ribalta e tutto conclude e nello stesso tempo, esso stesso incapace  e consapevole di non potersi annullare.
Mi è rimasto, alla fine della ripetuta  lettura delle tue poesie, un senso di luminosa e illuminata disperazione, un invito a guardare la vita o chi per essa, ad occhi aperti, con un sorriso ironico che lasceremo inesplicato.
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Carlo Onnis  procede con chiarezza nell’esposizione del suo sentire interiore, così pregno, così affranto, cosi rassegnato ma anche così glorioso nei suoi i canti alla Natura.
Ha posto una sua poesia a compendio del suo testamento poetico e umano. L’ha posta alla fine della sua raccolta e si intitola ‘’Teorema’’
Quasi l’ esposizione di una legge matematica, in essa stende il bilancio della vita al  tramonto  ‘’memoria morta sul sorriso comune,nudo come la rosa senza giardino’’
Magnifiche le sue immagini aperte alla natura, colme di mestizia e di una dolcezza lieve come carezza. Albe e  tramonti, uccelli in volo, onde insonni;  tutto il suo mondo di Sardegna e tutta la sua anima di uomo, si fondono in poesia sommessa.
‘’Fui una volta’’ è un testamento lasciato sul tavolo, sotto i raggi di un sole ad occidente, la vita di un uomo raccontata come il  volgersi delle stagioni: semi, germogli, spiga e stoppia ma anche pane ormai consumato che mi  richiama il detto arcaio ‘’  ‘Εφαγε το ψωμi’ του’’  (‘Efaghe to psòmi tu = Ha mangiato il suo pane )  di colui che ha consumato quanto gli era stato dato per cibo.
In tutte le poesie di Carlo ho colto dei passaggi, dei travasi,  come in ‘’Talismani’’ dove dalle labbra sgorga l’acqua che va a dissetare l’anima .
Una poesia mi ha dato la misura di quanto Carlo lamenta come continua perdita :‘’ Trecce nere’’ . Quelle ‘’ ...trecce nere sulla schiena/ fianchi di cerbiatta...’’  è un ricordo sconvolgente per plasticità ed evocazione. Una primavera stesa ai piedi degli amanti che vive   ormai solo nel ricordo. No, non possiamo  dire che ‘’ vive ’ .  E’  presente, torna di tanto in tanto, confonde il calendario, rattrista ancora. 

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Fra tutti i poeti, Giuseppa Sicura, presenta  le poesie più difficili da leggere. In esse, volutamente, confluiscono le parole della tecnologia e vengono affrontati dei temi oggettivamente difficili da esprimere con le parole della poesia cui siamo abituati.
‘’ Sbalzi di coscienza’’ ci introduce subito a una mancanza o perdita di equilibri e il linguaggio stesso è difficile ricerca di armonia. Ci presenta un mondo disumanizzato e supertecnologico dove l’uomo è stato cacciato alla periferia.
 Affronta i temi del viaggio e dello spaesamento non in chiave pesonale ma sociale  e civile. Implora  ‘’pietas’’  per l’uomo colpito dalle ingiustizie   ‘’...  non stormi di rondini / ma colonne di profughi in  marcia/ per un grammo di terra/ per un soffio di vita’’  
Dubbi e miserie umane affida con un ricordo leopardiano alla luna che guarda a grand’angolo; la solitudine umana  viene osservata ‘’...dall’ alto come un drone...’’, le   relazioni umane si affidano alle maglie infide del network;  la superficialità e la banalità vengono consacrate da un tocco sulla tastiera. A consolazione e rifiuto esce la sua poesia disincantata ‘’...in fretta ripristino il balcone/ annaffio le mie ore/ incolonno i giorni/ inseguo il valzer lento dei girasoli’’ In questo ossimoro di inseguire la lentezza e il quotidiano, sta la sua scelta come persona e come poeta.
‘’Banca del dolore’’  ha un ritmo incalzante nella metrica. L’eco dei versi  crea  emozione;  i temi sociali della migrazione, della disoccupazione e della solitudine urbana, sono uno schiaffo . Ma poi ecco arrivano i versi della chiusa  ‘’ l’augurio che a tutti sia lasciato il respiro /e restituito  grano  e lievito (‘’ lievito e grano’’ sarebbe suonato più musicale ma Giuseppa ha scelto di essere aspra in questo suo discorso)  e    ’’...  lo zucchero per qualche domenica/ dignitosa’’  non rima nè  musica nè un  apparente nesso.
Giuseppa opera la scelta consapevole di usare  aggettivi in apparenza sconnessi, collegati a  certi sostantivi che invece sono chiari a prima vista nel verso  della stessa poesia.
 Se lo ‘’   lo zucchero per qualche domenica’’ appaiono immediatamente come  tazza e cucchiaino per un caffè domenicale, ecco che a capo, nella riga sottostante,appare l’aggettivo ‘’dignitosa’’ che pur sapendo essere  riferito a domenica, sta lì, solo e in castigo, ad aspettare che tu trovi il suo senso.
Tanti neologismi, anche di provenienza anglofona, richiamano la tecnologia disumana che ha portato l’uomo a vincere sull’uomo con armi diverse.
Sempre, in queste poesie difficili, perchè erto e spinoso è il linguaggio di Giuseppa, c’è un grido, un’implorazione ‘’...perche la tua scienza affonda/ e non trova parole nè accordi/ nè fiori nè ferri/ che fermino gli odi e le guerre?’’
Giuseppa, in questa raccolta si è assunta il non facile compito di fare poesia con le parole aride  della tecnologia, ancora senza senso, solo denominazione di merce su scaffali  ma poi si scioglie da esse, dal loro  peso di morte e anche con le parole aride che getta all’aria come immagini slegate, crea una poesia dura e di denuncia  ‘’ traffici sfrenati/ di fameliche formiche/ cicche di sigarette/ e macchie di rossetto    ‘’ ... ad intrecciare due coordinate/ che rivelino in mare/ un carico di uomini illusi ‘’
Ci sono tanti  imperativi nella  scrittura di Giuseppa, e uno magnifico sta nella poesia per me piu bella ‘’ La scala’’ 
 ‘’Datemi una scala/......./per arrivare al cielo..’’
Tutta la poesia è un  grido, un’invocazione, uno sdegno, un pianto e la caduta del sipario su tanta vergogna inflitta dall’ uomo sull’uomo e dall’ uomo sul pianeta.
Poesia civile e  scomoda dove l’elegia si è  nascosta e si è racchiusa in ciò  che  Giuseppa non ha voluto dire. Una poesia di mancanza che non è facile da leggere.


Gli autori di SULLA GOBBA DEL TEMPO: Mariatina Biggio - Bianca Mannu - Carlo Onnis - Giuseppa Sicura - ringraziano sentitamente.






lunedì 12 marzo 2018

Che specie d'amore - poesia edita in IL SILENZIO SCOLORA di Bianca Mannu



Insistendo sul tema DONNA - UOMA , uno sguardo al nodo, ritenuto perno della femminilità, in forma di interrogativo


CHE SPECIE D'AMORE ?

Sono un amore provvisorio?
Un amore da riempirci
i vuoti tempi dell’indugio –
un amore da sotterfugio?
Sono un amore clandestino –
un amore meschino 
un amore che non cresce
un amore che non riesce
a spiccare il volo
sono un amore da dopo lavoro ?
Sono un amore che non splende
uno che l’impazienza non accende?
Sono un amore che non scotta 
uno di quelli per cui non si lotta –
un amore limitato e stanziale
senza le ruote e senza le ali?
Sono un amore che non invischia –
uno di quelli per cui non si rischia ?
Dunque amore che non nuoce
che in capitolo non ha voce?
Sono un amore da gesuita –
un amore senza fatica
Ecco! Un amore razionale?
Un amore sono … serale !
Da consumarsi in tempi di noia –
un amore in salamoia!

Sono un amore senza parole 
senza sollazzi né capriole
Un amore non firmato
Un amore approssimato
Un amore da strade deserte 
Un amore a carte coperte
Sono un amore ad ore fisse
senza fervore e senza promesse
Sono un amore senza storia –
senza speranza e senza memoria
Sono amore provvisorio
che designi per ciò che non ha –
nessun nome – nessun futuro –
valore alcuno – per ora e qua.

Nota - Recentemente ho postato questa composizione in www.larecherche.it. corredandola poi con una nota di delucidazioni sui miei intenti, in dialogo con due commentatori nonché scrittori, che ringrazio di cuore: Alberto Becca e Klara Rubino. Mi sarebbe piaciuto riportare i due commenti,ma non sono autorizzata a farlo.
Riporto quella nota.
Una composizione del 2003 pubblicata nel 2004 e poi inserita in Il silenzio scolora del 2014. Uno sguardo, forse piuttosto un resoconto sintetico, necessitato dalla ineludibile scoperta di contare su un senso di sé contratto, sminuito. Condizione difficilmente sovrapponibile alla condizione di vittima del così detto femminicidio e degli altri abusi, su cui invece scorrono tuttora fiumi di pseudo versi commoventi, come se il problema risiedesse solo nelle sue più drammatiche apparenze.

Non amo attaccarmi alla cronaca, benché sappia che anch’essa mi concerne, ma ho elaborato antenne per avvertire, tra le maglie apparentemente anodine del quotidiano, personale e non, ciò che continua a sancire lo stato di subordinazione del femminile al maschile, non solo come status esterno ma come rocciosa interiorità speculare all’altro, sebbene non reciproca. Il profondo maschile continua a concepirsi superiore e mantiene la percezione di inferiorità del femminile; nella psicologia femminile il maschile resta sopravvalutato anche come forza deteriore, mentre il femminile permane sottovalutato, anche quando si perviene a una consapevolezza realistica del sé o quando, per sussulti di rivalsa, si perviene a un’auto-sopravvalutazione surrettizia... Il senso di impotenza o di potenza perversa, dunque di pericolo costante, elaborato fra baluardi visibili e invisibili del sociale e del culturale, permane come marchio ambiguo del femminile. Scoprire nel sentimento amoroso, o che viene spartito come tale, il varco psicologico costruito nei precordi, perciò totalizzante, mediante cui ci viene inoculata la minorità come genus, da analizzare e discutere, è stato per me un passo liberatorio, sia pure parziale. (Fine nota)
Aggiungo e cito dalla prefazioni rispettivamente di Maria Rosa Giannalia e di Carlo Onnis: 
"Il canto poetico qui infatti si dipana, non sommesso né dolce, ma impetuoso e coinvolgente nei toni fragorosi con i quali l'espressione del dolore s'innalza e sommerge il testo"
"Il suo affilato linguaggio giunge persino a sfiorare il sarcasmo pur di abolire il peso negativo... " 
Entrambi (e riassumo) ravvisano l'approdo a una marca stilistica che lancia il personale in una dimensione umana complessa e  distante da codici corrivi. E di questa LETTURA sono felicissima. (B. M.) 

mercoledì 7 marzo 2018

Le accadde - poesia inedita di Bianca mannu

Oggi, otto marzo. Più che una festa, un modo per dire a noi stesse che ci siamo e contiamo, vogliamo contare, vogliamo decidere, vogliamo essere soggetti non assoggettati.
Qualcosa di tremendo è successo contro di noi e con la nostra complicità: ci hanno modellato per fini su cui non siamo state interpellate, che abbiamo accettato come un marchio a fuoco che era e ancora è
dentro di noi come senso acquisito pressoché indiscutibile, perché rinforzato dai sistemi storico sociali e innervato come psicologia di genere.
La violenza privata e fuori scena è solo l'emersione conclamata e resa visibile da alcune conquiste giuridiche raggiunte con difficoltà e sempre sull'orlo di essere ridotte o denegate anche e sopra tutto  con la complicità della nostra funzione vicaria: assumere e compiere i ruoli di feroci guardiane  della tradizione, il cui dettato è patriarcale e sistemico. Esso ci ha dimensionato e inscritto come genere subalterno anche nel nostro inconscio. La nostra auto percezione assomiglia molto alla sindrome di Stoccolma, cioè all'amore subalterno e sadico-masochistico  che lega la vittima ai suoi persecutori, con quell'effetto di ritorno per cui l'ordine maschile patriarcale trae legittimazione e autoreferenzialità dalla subalternità  dei vittimizzati.
A chi ha curiosità di leggere dedico questa composizione che vuole stimolare qualche riflessione. (B.M.)




Le accadde       


Di  scivolare le accadde -
dal ciglio aperto incauta
al giorno …  di  scivolare
ruzzando come per gioco
dal riso della melagrana
nel cosmo cifrato dell’Altro  
E ivi - sorbita in un sonno di gemma 
l’ebbrezza dei cembali –
svegliarsi alterata
in ignoto mattino

Così la già imberbe da sempre
con intento di ladra fidente
il suo ingresso pagava
fingendosi mutila
nel munito universo
del demiurgo sovrano
creduto di genio celeste

Là su coste e bastioni erano
rune dorate e trionfi di roccia
ad annuire alla ratio  
di barbe rituali e di verghe
brandite a secondare il sapere
assestato sull’orma negata
dell’antico sciamano
Con sibili d’erbe e  fole di vento
il volere regale del  Padre
era sceso nei generanti
e per bocca di madri s’alzava
dall’ancestrale segreto
per sempre sui nati:
doversi il calore attenuare del sole
dentro l’oikia di fango
e farsi dell’ombra accorta estensione
sulla pupilla allungata
a bagnar di domande -
femminea! - le cose vietate

Dalle stanze opache dell’Orco
ai propilei ariosi d’Olimpo
alitando col passo il suo peplo
discende alla schietta loquela
di carde e telai per ordire
come schiava come Pitia e padrona
Col dorso nel vento
 sul lido di calce nei guazzi
alla roggia ancora amministra
con ruvide essenze il candeggio:
perché  tutta sia liscia
sia dolce sia buona sia vera
per l‘uomo sul talamo
la solita sera

Issato/abissato  il sole
più di quanti astri
si struggano nei cieli
impunemente - di te
poche ha cincischiato postille
la sua illetterata cadenza  
come per ignobile erba
e di tuoi frutti plebei
in quanto “semi imperfetti”
nemmeno ha tenuto
 conteggio

Dal pugno sublime del Padre
il Tempo declina/dipana  -
fu detto e non si desiste
Al Padre ancora s’avvolge
e  rivolge squisiti alfabeti  - 
come da specchio interposto
a figura  che divino decreto
esige si pavoneggi …
E forse un’ombra soltanto
accenna di te - se fosti al dio cara
se col lutto affliggesti il tuo re
se d’empietà moristi pentita
o se propiziasti immolata
alla tua pugnace genia
l’universo trionfo
della sua liturgia