giovedì 29 settembre 2016

ERVAPEDRA = LICHENE - due sonetti di ANTONIO ALTANA

Parlarsi da verso a verso è una delle più singolari e squisite emozioni che la sorte può regalarti. 
Una pratica che solo gli antichi, di comunità relativamente piccole, esercitavano con reciproco impegno e soddisfazione del pubblico, dato che questo scambio avveniva oralmente e pubblicamente nei raduni religiosi e civili.
Antonio Altana, sardo come me, dialoga con me, in relazione al mio divenire metaforicamente il lichene - del poemetto Figlia di liberti.  Come  uno scriba bizzarro e spontaneo, quel lichene incide sulla roccia, insieme al suo percorso vitale, le anonime peripezie storiche delle classi lavoratrici, nell'unico modo che può.
Antonio  Altana riprende quella metafora, rendendo perspicuo il riferimento al lavorio linguistico che conferisce senso a ciò che sembra non averlo secondo banale evidenza. Sciolto, moderno nei significati e nell'espressione, il suo stile aderisce alla forma classica del verseggiare. 
Altana, predilige il Logudorese, sua lingua nativa, che io, Campidanese, conosco poco, ma di cui "a naso" avverto l'eleganza e la precisione lessicale. Usa l'italiano, come lingua di più largo supporto e a quella mi appoggio per capire meglio il concetto. E lui, anche da questo versante, si rivela poeta raffinato.  (B.Mannu)

Ervapedra

Dare versu a rocas carasadas
cun atarzina limba geniosa
est frùtura licanza e saborosa
pro biados de bramas iriadas.

Medas bident sicaza neulosa
inue b'at cagliadas sirigadas
chi movent pesos chena sueradas
fora dae s'usantzia pretiosa.

Sighi che ervapedra a suer rocas 
pro frunire cun fozas sos colores
chena timire abba ne fiocas.

Mantene atenatzados sos valores
pro mezorare sos sinnos chi tocas
cun grafemas cundidos de lugores. 


Lichene

Dare verso alle rocce inaridite
col lessicale acciaio del talento
è frutto prelibato e succulento
per pochi eletti alle brame assortite.

Molti vedono arse e sbiadite 
le gemme nel suo muto crescer lento
che smuove pesi per rilassamento
oltre le prassi solite, impigrite.

Continua da lichene, suggi rupi
per fornire con forza quei colori 
senza timore degli eventi cupi.

Tieni sempre tenaci i tuoi valori
per migliorare il senno nei marsupi
con grafemi farciti di bagliori.

giovedì 22 settembre 2016

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu - Seconda parte

Seconda parte


Dell’altoforno so per verbi scialbi
l’arsione – altrimenti feroce –
del suo fiato.
E solo per procura dei media
la sibilante pazzia conosco
dei fuochi e degli acciai

sfuggiti alle ragioni e prigioni
tecnologiche
per causa degli imprevisti colpi –
si mitizza - della malasorte
su malfatati Efesto di caduca sostanza -
appesi a un salario
magro e morganatico.

Conosco per sentito dire
le bocche delle trance - delle tramogge
delle pompe a risucchio e a cremagliera –
 spalancate – avide –
dentate – semoventi –
con voci di tuono
e stridenti di ferraglia …

Di debolezza si mormora
a carico di uccelli giganteschi e implumi –
forgiati in gelidi metalli  e vetri –
di gru fradice - si dice - di bufera
e d’altri scempi … 
E di stantuffi matti – si narra ancora –
colti a sfiatare in faccia
micidiali vapori al diavolaccio 
che – per motivi - si disse –
di razziale ascendenza –
di scarsa intelligenza-
per nera pelle o bianca o
d’indecidibile colore -
all’incanto s’è posto – oggi lo si ammette! -
per obbligo di economica natura
d’ “impar condicio” storico-sociale
e di altri – (sempre per malasorte!)
non solo ideologici - tormenti.

E  io ?… In quale – di detti registri  –
sono inscritta? 
Sono forse sfuggita di mano
al mio più duro destino?
Però sono dovunque
dovunque hanno lasciato ossa
e pelle gli antenati e miei parenti
e altri ritenuti alieni d’oltremare.
Contro quel destino
mi sono evoluta stranamente
e in un modo che
certo ha del sorprendente.

Sento di vegetare adesso
un po’ torpidamente
nel dubbio di un clima … di frontiera.
Tra pioggia e vento  confido
allargarmi sulla roccia  avara
e scaldarmi di sole generoso …
Respiro – respiro
respiro a tempo di risacca.
E respirando sopravvivo.
Sono lichene e sul mio sasso
scrivo!

venerdì 16 settembre 2016

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...: Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi ...

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu


Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi mai il babbo, ma il Patriarca-padrone, il quale talvolta abita lussuosamente altri luoghi. Le radici sono le invisibili e spesso insapute/dimenticate connessioni storiche che ti assegnano il posto da cui spremere, tra sudore e paura, quel qualcosa che diventa energia, respiro. Se incroci il caso fortunato, occupi uno spazio e vivi in un modo che altri hanno sudato per te e che tu
spesso ignori
Questa. che ho enumerato in questi e altri versi liberi
è la mia genealogia e la mia parentela.
Sono sarda, ma i miei ascendenti e discendenti sono sparsi a faticare nel mondo


Figlia di liberti


Non so che cosa sia un chiuso -
un campo coltivato - un orto …
M’è ignota la terra che mi nutre.
Così delle sue viscere altro non so
se non che vi alberga la sorgente
di certi monili che attestano
la mia femminile schiavitù –
quella nuova – non meno di quella
che le antiche mie madri – tra un fiato
e l’altro del loro eterno faticare –
mettevano  in parola di conferma –
per l’infausta progenie femminile -
intorno al fuoco – avanzando sera.

M’è ignoto il sentore aspro della terra
ferita dal chiodo dell’aratro.
Bestia d’allevamento urbano –
lascio ad altri gli effetti corporali
del burbero e moderno
scotimento del trattore
e di quello mandibolare della
mietitrebbiatrice.

Non so il gusto del fango
che nutriva le patate
interrate nei terrazzamenti. 
E i suoi effetti non so
sulle “faldette” delle nonne
inginocchiate sul costone.
Diveniva – seccandosi sul tubero -
teca di conservazione
nell’interrato/stalla dove –
sullo stesso strame
della mucca figliata -
il ventre d’una mia ava 
partoriva il mio passato
come acconto in bianco
sulla futura carne.

Non ho abitato le case/covile
addosso alle falesie
né le capanne di legno vivo
e vive frasche
ho abitato - servo pastore
in tanche di costiera
o in quelle di bassura – in condominio
con l’ovina gente.

Non ho corso le onde
sui gusci di noce
per strappare alla vita –
con reti o con paranza-
la vita di creature
costrette a guizzare
il proprio morire di soffocamento
nel vento sordo
dei loro affannati giustizieri.

Neppure abitano le mie tante paure
le convulsioni dei fortunali  salsi
né i repentini viraggi d’acque
a complotto  coi nembi
gonfi di saette …
Perché – verme di terra bitumata –
le ho vissute al più come parola -
come emblema e figura
d’una Natura temibile e possente
ma ammansita e reclusa
entro il perimetro delle cartoline.

Né per scelta né per dovere
la  penso intimidita – la Natura -
dall’alta arroganza delle corazzate
o dalla goffa gravezza delle petroliere …
Neppure mi muove
la volgare illusione di ridurla alla mercé
della falsa apparenza di pingui crociere
in tour transoceanico …

No, non conosco l’immenso orrore
della solitudine
nel mare freddo e nero
che m’ inghiotta e mi sbatta
contro le paratie indifferenti
del vicino Continente -
contro i rocciosi tradimenti
del suo cuore umanitario
assoggettato alle cattive ragioni
del suo viscere
in formato capitale.


Noticina: La composizione continua nel prossimo post. (B.M.)

venerdì 9 settembre 2016

Bianca legge “DITEMI” - silloge di Angela Argentino

Più che libro, questo oggetto è un manufatto complesso, fatto di molte voci e diversi linguaggi. Non irriti alcuno questa mia parola, tanto meno la Poetessa Angela che ne è perno e anima. Non è definizione questa mia, ma parola espressiva dell’effetto sincretico prodotto in me dalla  delicata calibratura delle immagini, dei colori e dei testi brevissimi, così che d’emblée sono presa dal dubbio su quanto io stia realmente  leggendo, se le parole, i dipinti o le foto o le fantasmagorie dei colori e delle sagome che anticipano o echeggiano i versi.
Certamente Angela Argentino (pittrice oltre che poetessa)  e coloro che con lei hanno collaborato a comporre l’opera-libro hanno voluto dar corpo a uno stile composito esteticamente attraente e immaginifico, in cui ogni parte si armonizza col tutto e corona  con gradevole efficacia i testi poetici.
Quale universo dischiude per noi Angela Argentino poetessa?
Intanto spalanca subito l’abisso della propria inquietudine, con un richiamo quasi imperioso e un quesito ecumenico: se anche noi sperimentiamo la sua impossibilità a cogliersi intera nella propria percezione.
E subito con un’intensità rappresentativa immediata Lei sveglia per noi i reattivi brandelli in cui si sfrangiano o si coagulano le pulsioni-volizioni-paralisi o i vividi e incontenibili rivoli dai quali deborda l’onda crestata delle dissomiglianze con la presunta, tanto rassicurante quanto falsa, essenza identitaria. Non più che ombra, questa, proiettata sul suolo calpestabile di un crocicchio, testimone senza consistenza della nostra imprescindibile corporeità.
Tra le  maglie dei suoi versi puntati su abissi di densi silenzi, significanti e ambigui, inopportuni persino, Angela coglie spietatamente l’ingombro monolitico nel quale ci raffiguriamo contraendo in forma di paura il nostro vivere contradditorio e plurale. Volendo chiuderci in un catasto rassicurante e, trovando l’incongruenza dei suoi lembi, ubbidienti a opposte e decentrate discipline, ci confondiamo, intessendoci di un silenzio intimo e obliquo, come fa il corpo allorché si  fascia di grasso a guisa di protezione, peraltro fallace. Processo silenzioso di cui non vogliamo sapere e di cui non avvertiamo l’effetto ottundente di “bomba inesplosa”, ma che si presenta come esito sgradito di una lotta spossante. E tuttavia intanto che procede, senza e spesso contro di noi, avvertiamo segni di messaggi minacciosi in codice: non decodifichiamo. Quando, soccombendo alle sue inesplicate minacce, ci rattrappiamo in quel nodo di paura, la vita grava dall’esterno su noi come un oggetto.

Le due poesie incipitarie sembrano perforare, con la parola che si fa sguardo, l’abissale imbuto ontologico, con effetti dinamici, tesi e traboccanti d’echi, tali che per un pezzo non si coglie l’impatto col fondo, né la brusca risalita verso una cronologia più consueta. Dall’interiore universale Angela risale alle schegge di memoria: sedimenti e fessure spazio-temporali dove sosta il fremito qualitativo del personale. 
Quale sarà il moto successivo ? Va reclinando verso l’io psicologico determinato a ricomporsi nella normalità pacificata dell’esistente?  Mah!. Forse,sì.  Chiedere lumi e responsi al più solare seguito del testo? Ma la poesia come la vita, sfugge e non dà spiegazioni. Gustiamola come si presenta, con i suoi salti tra tormento e  fiaba, quelli che Angela le fa compiere con ali delicate, autentiche. 
Nei versi di “Ditemi” incontriamo quella nostalgia acre del grumo originario, uovo di tutte le dolcezze e di tutte le impreviste ferite imminenti, possibili, subite. Compare il nome del tempo tribolato e affaticante della “disumana energia” per emergere e infine lo spirito della stanchezza che non ha potuto valersi delle “istruzioni per vivere”; e c’è la dismissione in logo museale del sé, efebo ferito e prigioniero d’un sogno abbozzato, per schiudersi in donna “carica di crudeltà  ereditata”.  Ereditata, dunque innocente e vittima?   Vittima incattivita dell’esclusione sociale e dell’invidia scagliata a umiliare la bellezza e l’intelletto. Vittima affannata alla ricerca d’un risarcimento, nel quale, giungendo inatteso e gratuito come amore donato, non sa vedere se non l’insidia e forse l’ansia di possessione . È stata la saggia stanchezza caduta su lei dalle braccia d’una tenace costanza, che non chiede ricompense, a infrangere  non senza dolore “l’angelo di vetro” che dominava la sua vita, e a dischiuderle nuove e certo non facili possibilità. Senza le istruzioni salvifiche intuiamo appena ciò che di squisito ci manca. Con lacrime e sangue tentiamo attingerle forniti della nostra dolente miopa: nulla è scontato.  E solo il dantesco volgerci indietro può darci la misura incolmabile di ciò che avremmo potuto perdere. Non a caso, credo, si incontra in questa silloge una sorta di percorso salvifico, ad opera di una figura maschile, pare, sulla femminile. Qui è Lei l’inquieta figura femminile, ad essere involta nella “recherche” affannosa del suo “ubi consistam”, del difficile equilibrio tra sensibilità e libertà creativa, tra esercizio culturale e liberazione affettiva, tra compiti etici e doveri sociali, tra senso religioso e specificità personale. Tale percorso non cancella le ferite inferte dal contatto sociale al proprio sé inerme e inconsapevole, ma il soggetto ferito e pensante può forse, con volontà e fatica, elaborare il loro superamento catartico tramite la consapevolizzazione dei limiti fisici e temporali, tramite la gioiosa pratica dei linguaggi dell’arte nelle loro diverse espressioni, auspicando che su quell’arco s’incontrino e si scontrino gli elementi inconciliabili del vivere, ma emancipati dall’immediatezza emotiva e corporea che caratterizza la giovinezza.  Così Angela accede al proprio tempo risanato, epurato dalle angosce di stampo romantico, ma quasi esiliato nella purezza classica dei nobili “luoghi a perdere”.
Come emancipata da un passato da narrare con la sintesi di numinosi estratti-astratti, Angela sembra trovare le sue domeniche e i suoi lunedì ammansiti, avendo dato breve parola all’inquietudine e avendola quietata nell’utero pacioso di un credo riposto nell’ombra d’una chiesa contigua ai luoghi del buon Presente e degli affetti durevoli. Tempo e luoghi ritrovati, dunque, come continuità dell’usuale: ritorno gradito delle stagioni, rivisitazione dei luoghi amati nella cornice della fisicità accettabile nei suoi riconosciuti ambiti, l’incontro rassicurante e gradevole con  persone che duplicano, come nel fuoco di uno specchio concavo, gli amabili fantasmi delle divinità  primigenie. Ed è così che quella poesia, che mi ha adescato per il ribollire di quesiti, d’inquietudini, d’insofferenze contro l’incombere dei cerchi dell’uguale tranquillato, … Quella poesia che era e poteva svilupparsi come tensione a riconoscersi nell’angoscia universale delle genti nel mondo contemporaneo, si stempera e s’imbozzola invece negli esiti di una malinconia dissimulata nel godimento del “hortus conclusus” dell’esistenza personale salvata e protetta.