venerdì 9 settembre 2016

Bianca legge “DITEMI” - silloge di Angela Argentino

Più che libro, questo oggetto è un manufatto complesso, fatto di molte voci e diversi linguaggi. Non irriti alcuno questa mia parola, tanto meno la Poetessa Angela che ne è perno e anima. Non è definizione questa mia, ma parola espressiva dell’effetto sincretico prodotto in me dalla  delicata calibratura delle immagini, dei colori e dei testi brevissimi, così che d’emblée sono presa dal dubbio su quanto io stia realmente  leggendo, se le parole, i dipinti o le foto o le fantasmagorie dei colori e delle sagome che anticipano o echeggiano i versi.
Certamente Angela Argentino (pittrice oltre che poetessa)  e coloro che con lei hanno collaborato a comporre l’opera-libro hanno voluto dar corpo a uno stile composito esteticamente attraente e immaginifico, in cui ogni parte si armonizza col tutto e corona  con gradevole efficacia i testi poetici.
Quale universo dischiude per noi Angela Argentino poetessa?
Intanto spalanca subito l’abisso della propria inquietudine, con un richiamo quasi imperioso e un quesito ecumenico: se anche noi sperimentiamo la sua impossibilità a cogliersi intera nella propria percezione.
E subito con un’intensità rappresentativa immediata Lei sveglia per noi i reattivi brandelli in cui si sfrangiano o si coagulano le pulsioni-volizioni-paralisi o i vividi e incontenibili rivoli dai quali deborda l’onda crestata delle dissomiglianze con la presunta, tanto rassicurante quanto falsa, essenza identitaria. Non più che ombra, questa, proiettata sul suolo calpestabile di un crocicchio, testimone senza consistenza della nostra imprescindibile corporeità.
Tra le  maglie dei suoi versi puntati su abissi di densi silenzi, significanti e ambigui, inopportuni persino, Angela coglie spietatamente l’ingombro monolitico nel quale ci raffiguriamo contraendo in forma di paura il nostro vivere contradditorio e plurale. Volendo chiuderci in un catasto rassicurante e, trovando l’incongruenza dei suoi lembi, ubbidienti a opposte e decentrate discipline, ci confondiamo, intessendoci di un silenzio intimo e obliquo, come fa il corpo allorché si  fascia di grasso a guisa di protezione, peraltro fallace. Processo silenzioso di cui non vogliamo sapere e di cui non avvertiamo l’effetto ottundente di “bomba inesplosa”, ma che si presenta come esito sgradito di una lotta spossante. E tuttavia intanto che procede, senza e spesso contro di noi, avvertiamo segni di messaggi minacciosi in codice: non decodifichiamo. Quando, soccombendo alle sue inesplicate minacce, ci rattrappiamo in quel nodo di paura, la vita grava dall’esterno su noi come un oggetto.

Le due poesie incipitarie sembrano perforare, con la parola che si fa sguardo, l’abissale imbuto ontologico, con effetti dinamici, tesi e traboccanti d’echi, tali che per un pezzo non si coglie l’impatto col fondo, né la brusca risalita verso una cronologia più consueta. Dall’interiore universale Angela risale alle schegge di memoria: sedimenti e fessure spazio-temporali dove sosta il fremito qualitativo del personale. 
Quale sarà il moto successivo ? Va reclinando verso l’io psicologico determinato a ricomporsi nella normalità pacificata dell’esistente?  Mah!. Forse,sì.  Chiedere lumi e responsi al più solare seguito del testo? Ma la poesia come la vita, sfugge e non dà spiegazioni. Gustiamola come si presenta, con i suoi salti tra tormento e  fiaba, quelli che Angela le fa compiere con ali delicate, autentiche. 
Nei versi di “Ditemi” incontriamo quella nostalgia acre del grumo originario, uovo di tutte le dolcezze e di tutte le impreviste ferite imminenti, possibili, subite. Compare il nome del tempo tribolato e affaticante della “disumana energia” per emergere e infine lo spirito della stanchezza che non ha potuto valersi delle “istruzioni per vivere”; e c’è la dismissione in logo museale del sé, efebo ferito e prigioniero d’un sogno abbozzato, per schiudersi in donna “carica di crudeltà  ereditata”.  Ereditata, dunque innocente e vittima?   Vittima incattivita dell’esclusione sociale e dell’invidia scagliata a umiliare la bellezza e l’intelletto. Vittima affannata alla ricerca d’un risarcimento, nel quale, giungendo inatteso e gratuito come amore donato, non sa vedere se non l’insidia e forse l’ansia di possessione . È stata la saggia stanchezza caduta su lei dalle braccia d’una tenace costanza, che non chiede ricompense, a infrangere  non senza dolore “l’angelo di vetro” che dominava la sua vita, e a dischiuderle nuove e certo non facili possibilità. Senza le istruzioni salvifiche intuiamo appena ciò che di squisito ci manca. Con lacrime e sangue tentiamo attingerle forniti della nostra dolente miopa: nulla è scontato.  E solo il dantesco volgerci indietro può darci la misura incolmabile di ciò che avremmo potuto perdere. Non a caso, credo, si incontra in questa silloge una sorta di percorso salvifico, ad opera di una figura maschile, pare, sulla femminile. Qui è Lei l’inquieta figura femminile, ad essere involta nella “recherche” affannosa del suo “ubi consistam”, del difficile equilibrio tra sensibilità e libertà creativa, tra esercizio culturale e liberazione affettiva, tra compiti etici e doveri sociali, tra senso religioso e specificità personale. Tale percorso non cancella le ferite inferte dal contatto sociale al proprio sé inerme e inconsapevole, ma il soggetto ferito e pensante può forse, con volontà e fatica, elaborare il loro superamento catartico tramite la consapevolizzazione dei limiti fisici e temporali, tramite la gioiosa pratica dei linguaggi dell’arte nelle loro diverse espressioni, auspicando che su quell’arco s’incontrino e si scontrino gli elementi inconciliabili del vivere, ma emancipati dall’immediatezza emotiva e corporea che caratterizza la giovinezza.  Così Angela accede al proprio tempo risanato, epurato dalle angosce di stampo romantico, ma quasi esiliato nella purezza classica dei nobili “luoghi a perdere”.
Come emancipata da un passato da narrare con la sintesi di numinosi estratti-astratti, Angela sembra trovare le sue domeniche e i suoi lunedì ammansiti, avendo dato breve parola all’inquietudine e avendola quietata nell’utero pacioso di un credo riposto nell’ombra d’una chiesa contigua ai luoghi del buon Presente e degli affetti durevoli. Tempo e luoghi ritrovati, dunque, come continuità dell’usuale: ritorno gradito delle stagioni, rivisitazione dei luoghi amati nella cornice della fisicità accettabile nei suoi riconosciuti ambiti, l’incontro rassicurante e gradevole con  persone che duplicano, come nel fuoco di uno specchio concavo, gli amabili fantasmi delle divinità  primigenie. Ed è così che quella poesia, che mi ha adescato per il ribollire di quesiti, d’inquietudini, d’insofferenze contro l’incombere dei cerchi dell’uguale tranquillato, … Quella poesia che era e poteva svilupparsi come tensione a riconoscersi nell’angoscia universale delle genti nel mondo contemporaneo, si stempera e s’imbozzola invece negli esiti di una malinconia dissimulata nel godimento del “hortus conclusus” dell’esistenza personale salvata e protetta. 

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