Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.
Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.
Allorché un evento inatteso, macroscopico e
pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente
scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in
un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci
a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di
difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di
conflitti malsani e con tentativi più o
meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente
rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise
disposizioni.
È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha
una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso:
prima e dopo.
Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del
“prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del
quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche
tratto che simboleggia e ricopre il
tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca
impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.
L’altro
senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico
diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza
del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di
obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.
Questo
tempo è come quello che lo scrittore
Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito
circa settant’anni or sono, ma vivo come
fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato
dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità
dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di
una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale.
Noi
siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come
animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al
presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo, la sua specifica
temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del
“prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi
imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei
confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di
pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di
ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece procede per cinquanta e più sfumature di
grigio.
Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con
chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per
danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di
accettare le politiche di solidarietà
sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e
di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni
che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.
Detto
ciò, andrebbe sottolineata
l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto
alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno
di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le
condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà,
le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza
insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle
terapie. Diversi studi condotti negli
Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza
pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il
ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella
privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro
ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.
Il
nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte
Sul
persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle
istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono
varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e
al crescere di economie distorcenti.
Poiché
le possibilità di altre pandemie (già
questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il
sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è
articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione
degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria
capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma
occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra
uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo
profitto.
Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale più matura e responsabile, governeranno meglio i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.
Ma
occorre cominciare ora e non riaprire le
vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione
(non premiale) dell’evasione fiscale.
Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione,
avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario
minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro
debito.
Un analisi a tutto campo con suggerimenti di alto contenuto sociale che le nostre politiche del sociale purtroppo non saranno così celeri a realizzare lungo gli ostacoli delle nostre italiche mafie.
RispondiEliminaNaturalmente non posso pensare, e non voglio, che l'Italia faccia da sola in un rigurgito imbelle di nazionalismo o di populismo nazionalistico. Penso che una vera politica di ripresa possa farla l'Europa, se riesce a mettere via la supponenza economicista e isolazionista di certe sue componenti. Sotto questo profilo la pandemia e l'emergere di nuove forze (molto valide e interessanti le componenti femminili) sta mettendo alle corde le risorte e miopi pretese nazionalistiche del centro Europa.
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