Lei
Fu in tale turbine di
pensieri che “lei” entrò, visibilmente claudicante, scortata dal notaio, in
quella stanza piena di scaffali antichi e di retaggi professionali. Mi diede
l’impressione di una piccola falena entrata lì per inganno, tanto mi parve
incolore e impacciata. Timidamente mi mise a fuoco dentro quei suoi grandi
occhi iridescenti come prati al trapasso di stagione, poi chinò lo sguardo
sulle proprie scarpe. Per successivi
attimi ciascuno, sollevando di nascosto le palpebre sul volto altrui, cercò i segni visibili del proprio, senza riuscirvi.
E quando, cioè quasi subito, il legale con gesto formale ripeté i nostri
rispettivi nomi, ci sparammo l’un l’altra una seconda occhiata e, tendendoci
reciprocamente la destra, accompagnammo il suono dei nomi con certi scotimenti
del capo, come per l’azione di un cordino che un’entità impalpabile avesse
strattonato dietro ciascuno. Preso posto su certi scranni di stile
indefinibile, espletate alcune formalità annunciate, scambiati i ringraziamenti
e stabilito un colloquio a tre a esequie concluse, il notaio, nel dirci che
potevamo fraternizzare in tutta tranquillità nel luogo occupato, guadagnò
l’ambiente attiguo chiudendo l’uscio alle sue
spalle.
Fummo ghermiti da un
silenzio atroce. Ciascuno a fissare le proprie mani abbandonate sul grembo. Di
colpo una pendola monumentale seminascosta tra un armadio e uno scaffale ci
tolse dall’imbarazzo prorompendo in uno scampanio del tutto inatteso.
Sussultammo all’unisono. E lì ci vinse una specie di riso irrefrenabile e
insensato che ci obbligò seduta stante a rifugiarci in una curiosa quanto
gratuita complicità. Lei poi avvampò, si levò e disse “devo andare”. Io,
automaticamente, le andai dietro.
Nota - E da quel punto intuire l'improponibilità e l'impossibilità di tornare indietro. (B.M.)
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