lunedì 9 novembre 2020

Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu

 

 Nel mio articolo precedente ho indicato nella nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.

Quale sarà mai stato il tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del percorso attuale,(fase due, morbida o durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo “spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.

Già se ne percepiscono i rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a conteggiare i propri utili (dato che non potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al sostegno verso i più diseredati). Vorrà  risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi margini di fronte alle persone che sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto paradisiache o, per così dire, niente affatto  umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza trasformatrice che inerisce  la massa degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata, vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale inutile, chiudiamo i ranghi!

Non vado oltre. Voglio andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio periferico. Com’era il loro “prima” ?

Esemplifico e semplifico, chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque, caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media, suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria del bisogno del “tu” solitario  si coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come moltitudine temibile.

Torno al «tu»: non hai un lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh,  adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando piove …  I tuoi familiari e tu stesso potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto.   Molto del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati “benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …   

 La povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla vista dei più, così  le crisi di coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.   

Evito di fare riferimento a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano  nella piccola illegalità, cioè quella ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di tutti (anche dei benestanti che non si ritengono mai tali) e lascia spazi (più presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.

Il demagogo è sempre pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze antropologiche ineguagliabili, purtroppo  decidue, precarie per causa e colpa di quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì, perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito, magari scientifico!)   

 

 Perché la precarietà è il denominatore comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica, come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da noi.  E se per il magnate il senso di precarietà  surclassa di parecchio il suo spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità del suo essere fisico … e molto prima  che  il dissesto esistenziale abbia compiuto il suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le leggi e la cultura pongono a suo subordine.

Tale il sentimento che anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di  arginare l’incombente senso di perdita che fa tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e generazionale.

La libertà è una spinta che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già dentro una classe, un ceto.  Ed è la società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli, a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.    

Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e doppia tragedia, sanitaria ed  economica in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale  (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica)  su cui rifondarsi per poter uscire dalla tempesta con danni contenuti.

Da qui si zompa sul problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè  sulla necessità di formare adeguatamente le teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti esistenti.

Costoro esprimono il ceto politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.   

Tanto per dirla tutta, come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti, per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili nelle categorie più immediate del profitto privato.    

L’attuale compagine di governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere  una parziale responsabilità nell’aver colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei confronti della sua storia e del suo antico elettorato.    

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