Nel mio articolo precedente ho indicato nella
nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi
ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui
siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.
Quale sarà mai stato il
tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di
farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del
percorso attuale,(fase due, morbida o
durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti
quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si
potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo
“spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe
eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.
Già se ne percepiscono i
rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli
imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a
conteggiare i propri utili (dato che non
potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al
sostegno verso i più diseredati). Vorrà
risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo
preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti
a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi
margini di fronte alle persone che
sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto
paradisiache o, per così dire, niente affatto
umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza
trasformatrice che inerisce la massa
degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata,
vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati
pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in
presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il
personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà
timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale
inutile, chiudiamo i ranghi!
Non vado oltre. Voglio
andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei
non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un
fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio
periferico. Com’era il loro “prima” ?
Esemplifico e semplifico,
chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque,
caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media,
suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria
del bisogno del “tu” solitario si
coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come
moltitudine temibile.
Torno al «tu»: non hai un
lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh, adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un
altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi
col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a
dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando
piove … I tuoi familiari e tu stesso
potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere
ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le
famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto. Molto
del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente
familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati
“benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …
La
povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta
con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla
vista dei più, così le crisi di
coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.
Evito di fare riferimento
a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano nella piccola illegalità, cioè quella
ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di
tutti (anche dei benestanti che non si
ritengono mai tali) e lascia spazi (più
presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso
buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente
la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che
la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e
cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.
Il demagogo è sempre
pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze
antropologiche ineguagliabili, purtroppo decidue, precarie per causa e colpa di
quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie
e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna
sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì,
perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e
minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito,
magari scientifico!)
Perché la precarietà è il denominatore
comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica,
come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e
comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da
noi. E se per il magnate il senso di
precarietà surclassa di parecchio il suo
spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di
lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma
emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei
registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità
del suo essere fisico … e molto prima che il dissesto esistenziale abbia compiuto il
suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il
senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le
leggi e la cultura pongono a suo subordine.
Tale il sentimento che
anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che
non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di arginare l’incombente senso di perdita che fa
tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e
generazionale.
La libertà è una spinta
che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di
ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia
sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già
dentro una classe, un ceto. Ed è la
società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli,
a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono
nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente
i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente
stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.
Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il
quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla
potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e
doppia tragedia, sanitaria ed economica
in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci
doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica) su cui rifondarsi per poter uscire dalla
tempesta con danni contenuti.
Da qui si zompa sul
problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè sulla necessità di formare adeguatamente le
teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed
etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti
esistenti.
Costoro esprimono il ceto
politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo
sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse
economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una
ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi
meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.
Tanto per dirla tutta,
come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato
anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione
dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti,
per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che
l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili
nelle categorie più immediate del profitto privato.
L’attuale compagine di
governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua
componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere una parziale responsabilità nell’aver
colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit
iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei
confronti della sua storia e del suo antico elettorato.
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