Si comincia a scrivere per
un incoercibile bisogno di guardarsi dentro in un periodo della vita,
nell'adolescenza, in cui ci domina l'ansia di sapere chi o che cosa siamo,
proprio perché la nostra configurazione personale è ancora incerta e molto
mobile.
Con la maturità, di solito si perde il vizio. Se perdura, vuol dire che
la costruzione dell'io-me ci impegna sempre,ed è lì, nel perdurare dello
scavo che si produce il desiderio di colloquio,talora spiccatamente
inquisitorio e antagonistico, con gli umani che hanno preso dimora presso l'io-me-noi col corrispettivo corredo di enti-mondo. Essendo esseri unitari e contemporaneamente plurimi, il discorso con se stessi non è mai
esaustivo né pienamente soddisfacente.
Le letture e le esperienze scolpiscono
sensibilità, mente, immaginazione. Il nostro linguaggio diviene plastico
e comincia a prodursi in giochi inattesi, in costruzioni che assumono
logiche diverse, talora carsiche, con effetti che risultano a noi
stessi sorprendenti.
E a quel punto si fa strada il bisogno di condividere
tali effetti con altri; o meglio immaginiamo una condivisione a largo raggio,
di cui poi abbiamo ben magro riscontro, anche qualora le statistiche ci
comunichino che i nostri scritti siano letti da molti.
Il lettore
raramente si qualifica come corrispondente. Eppure tutti gli scrittori vivono
di questa illusione. In realtà sono gli scritti dei critici, degli
intervistatori, dei recensori a offrire il supporto di questa illusione . Ed essa acquista una consistenza realistica se, almeno per un po', i tuoi critici, i tuoi estimatori i tuoi recensori sono a loro volta noti, autorevoli, famosi, capaci
di succhiare dal tuo discorso ciò che incuriosisce e/o invoglia la folla
poco nutrita dei lettori.
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