Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci, è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca. (B. M.)
XXII
In-croci
C’è chi, venendo
alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la
mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane,
sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a
far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti,
difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero,
chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco,
sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e
nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di
corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne
pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché
non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto -
quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano
toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno
si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o
responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora
considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato
padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano
gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era
ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora
accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne
tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu
dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto
fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa
terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di
novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni
Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni
scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi
ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli
dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un
cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta,
però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette
abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in
quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche
che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano
inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano
essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra
cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel
Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio
“cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal
punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era
notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò
che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini
- era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed
eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la
circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale
schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio
a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna
ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di
battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi
stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba
di un bambino” rispose
mio padre.
È possibile – mi chiedo ora - ricordare
eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare
memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi
rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con
una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto,
nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa
tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità
figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia
avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia
stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro
già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi -
lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere
avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi
la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio,
battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro.
E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel
sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente
accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io
vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una
storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale
esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come
piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i
criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza
corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io
armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente
opacità.
Ma io anche questo, il
manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene
insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e
gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si
vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire,
smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e
inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia
attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli
poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano
i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una
ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua
– e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso
tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento
dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva
posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e
pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo
intenso sito mentale.
***
Dapprincipio non vide che gli spettri
saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le
labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì
avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il
quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto
quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console,
fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le
manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli.
Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende,
graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a
Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era
levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e
straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa
nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del
morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un
angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era
alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di
percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le
braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore.
Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani
una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le
parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete,
salutatelo adesso,” disse
e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua
pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di
rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido
contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma
anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui
immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui
vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime,
tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile
persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si
incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a
“vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico
della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente
stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su
quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito
sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi
nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino
azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e
precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano
consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e
altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi
del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu
l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il
bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no -
giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau! Mirau? Come me?”. E volse gli occhi carichi di
stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già
riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.
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