domenica 22 luglio 2018

DA NONNA ANNETTA - brani estratti da In-croci XXII cap.

Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci,  è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca.  (B. M.)    


XXII
In-croci 
C’è chi, venendo alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane, sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti, difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero, chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco, sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto - quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta, però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio “cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini - era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba di un bambino” rispose mio padre.

È possibile – mi chiedo ora - ricordare eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto, nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi - lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio, battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro. E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente opacità.
Ma io anche questo, il manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire, smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua – e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo intenso sito mentale. 

***
Dapprincipio non vide che gli spettri saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console, fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli. Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende, graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore. Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete, salutatelo adesso,” disse e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime, tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a “vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no - giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau!  Mirau? Come me?”.  E volse gli occhi carichi di stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.


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