Malgrado la problematica e dilagante
proliferazione umana, il mare disegna oggi, purissimo, il suo orizzonte blu; e
sotto il suo drappo mattinale, così setoso, nasconde perfettamente il suo fondo
cimiteriale e dissimula con incredibile cosmesi neoformazioni inquietanti.
Oggi il mare giace nell’intervallo di
una meteopatia sedata. Come in un dipinto antico (dove lo si presume colto
nella sua prossimità allo stato virginale) appare placidamente amico nelle sue
variegature d’azzurro, intento a duplicare un cielo popolato di trasparenze e
nuvole fioccose.
Eppure, certamente, con le
precipitazioni dei giorni scorsi, il cielo ha pianto gli ormai soliti veleni,
ignorati dal pigro formicolio degli appassionati del bagno di sole che precede
il successivo di acqua marina.
Tutto, quel tutto minimale dove può giungere
l’occhio lucroso degli habitués, tutto è dolce, sommessamente buono per il
gaudio dei frivoli, cioè di tutti noi
animaletti bipedi presenti sull’arenile dei Centomila (braccio quartese),
intenti a imbalsamarci di creme, a spidocchiarci come scimmie, a commisurare la
nostra con la pancia degli altri, confortati dalla modesta, ma splendida
amenità del luogo, del momento e del
temporaneo privilegio.
Il destino, quello cinico e baro,
chiamato a presentarsi di persona da un tribuno ambiguo, sembra viaggiare al
momento ben oltre l’orizzonte, oppure, chi sa, nascondersi negli anfratti
costieri o forse nei gadget spaziali, occhi lunghi e insidiosi, che il sole
cancella nello sfolgorio dei raggi, un po’ causa e un po’ complice della nostra
isolana sonnolenza colposa.
Noi, gente d’Isola e luogo di sbarchi
provvidenziali quando butta tempesta, noi da millenni navighiamo soli o male
accompagnati, e pare che quasi non ce ne accorgiamo. Astiosi tra noi, abbiamo
lasciato che i lupi bianchi ci rosicchiassero fino alle budella, ché tanto
abbiamo l’Origine e la genia Neolitica!
Ed è a causa di tale ancestralità, (di cui andiamo talvolta fieri,
talaltra vergognosi, riesumata nella sua crudezza, ma poi, rivestita, per la sua commerciabilità, nelle
varie esplosioni di sagre e di cortes adescanti, con addobbi da bric-à-brac
allestiti alla
buona con i rottami di qualche prosperità subalterna, peraltro
vicinissima alla miseria servile degli ex valvassini) che siamo incapaci di
vivere il nostro presente, di prefigurarci un futuro, magari condito
d’acredine, ma diverso da una “balentìa” bacata in radice.
Di questo e d’altro mi arrovello
dentro la mia non ingrata solitudine da spiaggia. E mi pare una vecchia galera
alla deriva questa terra, non da marinai governata, ma semplicemente usata da una filibusta di
vecchie pantegane.
Contro di loro, noi (sa gentixedda)
possiamo perfino arrabbiarci per un momento, ma non riusciamo a uscire dalla
condizione di topi subordinati, l’un
contro l’altro in lite per qualche briciola sfuggita alla pantagruelica
voracità dell’intero Areopago isolano e oltremarino.
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