Sono assai felice del commento di Antonio Altana precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
perché e come sta dentro il libro, vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali.
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)
Da
Un matto in giallo
A quattordici anni Serafino aveva preso
a frequentare la carpenteria dei fratelli Simula, che accoglieva molti
apprendisti. Erano i ragazzi della classe media del paese, quelli che si
potevano permettere il lusso di sostenere i figli per il tempo necessario
all’apprendimento di un vero mestiere. Giacché i figli dei più poveri
scendevano già in galleria o andavano a scarriolare alle fornaci. Ma per
Serafino la frequenza della carpenteria doveva essere breve e tale da
consentirgli di acquisire qualche tecnica di base per fare il suo ingresso
presso una falegnameria vera e propria, che costruiva e intagliava mobili in
stile e che era molto selettiva nell’accogliere gli apprendisti. Nonno Mirau
s’era particolarmente dato da fare e si era volentieri accollato il peso del
mantenimento in apprendistato di Serafino, proprio considerando le capacità e
la particolare sensibilità del ragazzo. Il quale, insomma, pareva destinato a
un privilegio ulteriore: diventare un fine artigiano del legno.
Infatti nel volgere di un anno, il
ragazzo aveva già cambiato ditta. E la sera dopo il lavoro, studiava e
riproduceva su carta le venature e le particolarità dei diversi legnami, di cui
si portava in casa i campioni. Attentissimo in Ditta, aveva messo gli occhi sui
cataloghi e le pubblicazioni che il capomastro, signor Antonio - che era anche
contitolare d’impresa - consultava frequentemente quando assumeva una nuova
ordinazione. Fattosi coraggio, Serafino aveva chiesto il permesso di avere in
prestito uno di quegli album, anche per una sola sera.
“Questi sono strumenti di lavoro e
costano … Mica si può darli in giro così, come figurine qualunque!”
“Sicuro. A me piacciono per studio”aggiunse
l’apprendista in un soffio.
“Uhm. Sei arrivato ieri: non sai neppure
la A dell’alfabeto del falegname.”
“È vero, signor Antonio. Però io ce la
sto mettendo tutta. Guardi, se lei mi presta uno di quei libri, anche per una
sola sera, io rinuncio alla paghetta del mese che lei ha promesso di darmi per
questa fine anno …”
“Eh, come corri, ragazzo! Vedremo,
vedremo.”
E pare che il signor Antonio la scodellasse così, calda
calda, anche a nonno Cesare, per dargli ad intendere che la promessa paghetta
di Serafino poteva slittare per un buon mezzo anno. Fatto sta che una sera il
mastro intagliatore, preso dal ghiribizzo della curiosità - vediamo cosa
riesce a combinare - gli allungò uno degli album corredati di immagini e
didascalie. Il giorno successivo Serafino tornò col libro in mano e un mazzetto
di fogli nei quali aveva riprodotto a matita le immagini dell’album con una
precisione e una bravura davvero singolari. Perciò il signor Antonio lo prese a
benvolere e lo chiamava per farsi aiutare negli schizzi degli assemblaggi,
quando il lavoro progettuale urgeva. A casa di nonno Mirau erano stati tutti contenti
per lui e disposti a passar sopra a certe sue spigolosità caratteriali. Anzi
Alfano gli aveva ordinato a proprie spese, dal Continente, una grossa
pubblicazione sulla storia del mobile e degli stili.
La domenica, il vecchio gruppo dei
compagni di carpenteria passava da casa per chiamare il loro antico compagno di
lavoro e di giochi. Andavano per campi, alla ricerca di qualche frutto negli
orti indifesi, di uccellini di nido, di bisce, di lucertole o semplicemente
andavano per voglia di moto e gazzarra maschile. Nel gruppo, a mano a mano che
si usciva dalla mentalità dell’infanzia, si parlava ad alta voce di donne,
d’irruzioni ipotetiche in certe bicocche che sarebbe azzardato chiamare “case
di piacere”, ma nelle quali era possibile essere iniziati alla pratica
sessuale. Se era estate, i ragazzi si tuffavano a gara in “Su Carropu”,
nel fossato della cava di arenaria. E quando la pelle, satura di sole, si era
vestita della patina argillosa della roggia, allora qualcuno, guardando la lama
della luce trapassare obliqua lo spessore equivoco e verdastro dell’acqua,
evocava i morti annegati degli anni avanti. Un brivido allora saettava i dorsi
e atterrava le inguini esaltate. Un altro allora, per sfida, di nuovo si
lanciava e chiamava alla prova gli altri. L’irrisione e il frizzo cedevano
talora il passo all’insolenza, e l’insulto accompagnava e seguiva il gesto
rabbioso delle mani… Era così anche ai tempi di Alfano, pochi anni prima. Ma a
quel tempo Alfano già fucinava presso la miniera.
Comunque stessero le cose, in famiglia
ci si accorse che Serafino aveva smesso di partecipare a quelle scampagnate con
quella compagnia. “Com’è che non esci?” gli chiedeva qualche
volta sua madre. “Non mi va. Non c’è
sugo a torturare le bisce o a fare a
botte come cretini . E poi, fare a botte è pericoloso”.
Ma le domeniche erano giorni lunghi e
vuote le strade. Non si poteva crescere come mammole, nascosti tra il crescione
e il mentastro, aspettando primavera …
Fu così che quella domenica soleggiata
di maggio disse: “Oh ma’, badate che esco”.
“E dove, figlio mio?”
“Uff! Esco”.
“Con i soliti?”
“Esco e basta”.
“Ma, da solo?”
“Sì... No. Non lo sooo”.
“Non tardare!”
“Eeeh!”
Erano già tutti a tavola - tutti tranne
Pietro, che lavorava a Montorgiu, e Adelina che, sposa di fresco, pranzava a
casa propria col marito - quando il cancelletto cigolò in cortile. “Ci sei?”
vociò nonna Magdalena. Nessuno rispose. Aglaia si fece sull’uscio e osservò: “C’è
mica nessuno. Il signorino farà tardi. Ma noi si mangia, eh, che ho da finire
il cucito!”.
Alfano e Lorenzo affondarono gli occhi
nel piatto.
“Embeh! Uno non può andare a donne
senza sbandierarlo a tutti?” esclamò l’intemperante Valerio, rompendo il
silenzio e cercando di buttarla in facezia. Ma gli sguardi di tutti quasi gli
troncarono in bocca la battuta. Un silenzio insolito accompagnò la consumazione
del pasto. Poi i ragazzi si allontanarono, mentre nonno e nonna rimasero seduti
a tavola, in attesa.
Il pomeriggio inoltrava e di Serafino
neanche l’ombra. “Basta” - sbottò nonna guardando il marito – “io sto
in pensiero”.
“Ma io dove lo cerco?” fu la risposta
angosciata di nonno che, levatosi in piedi, guardava di fuori senza saper
prendere una decisione. I due stettero a guardarsi come se ciascuno, leggendo
sul volto dell’altro il passaggio di un’ombra scura, non volesse darlo a
vedere. Infatti tacevano. A quel punto Aglaia, si affacciò dalla sua stanza: “Niente,
eh? Voi, papà e mamma, i maschietti di casa li viziate troppo! Al
loro confronto, me mi trattate come una carcerata”. E la sua voce dal
timbro argenteo sembrava voler rassicurare tutti.
Nonna Magdalena per un po’ si agitò
pesantemente sulla sedia, poi si levò di scatto e cominciò a sparecchiare
chiassosamente la tavola. Ma quando ebbe impilato i piatti per lavarli nel
caldaio di rame con la cenere, mollò tutto, si asciugò le mani sul grembiule ed
entrò nella camera dei figli. C’era solo Alfano che ricuperava il turno in
officina, perché a sera doveva rimettersi in cammino per Montopinosu.
“Che c’è, mamma?”
“Scusami se ti ho svegliato. Volevo dire
ai tuoi fratelli che …”
“Sono usciti a posta. Non mi
riesce lo stesso di dormire. Però sta’ tranquilla. Tornano presto, e tutti”.
Tornarono Lorenzo e Valerio: “A Su
Carropu non c’è traccia di soste umane. Del resto non fa ancora così caldo!”
Nonna e nonno respirarono rumorosamente,
come parzialmente sollevati.
Alfano si era alzato e si apprestava a
uscire come se dovesse raggiungere la miniera. “Andiamo. Portatevi un
indumento pesante e dei bastoni. La borraccia dell’acqua l’ho nella sacca.
Passo nella loggetta a prendere la lucerna di miniera …”
Valerio fece una smorfia ironica, ma si
dispose a eseguire senza ulteriori commenti. I genitori stavano a guardare
impensieriti e speranzosi, avendo rinunciato, per scaramanzia, a darsi un’altra
spiegazione segreta e incomunicabile del fatto. O meglio, a nonna Magdalena
martellavano nelle orecchie le parole di Serafino: “Fare a botte …
pericoloso … botte … botte … pericoloso … botte …”. Ma non erano
passati che pochi minuti, quando la voce di Alfano li raggiunse, alterata,
dalla loggetta situata nell’angolo remoto del cortile. Accorsero tutti.
Serafino era riverso nell’angolo tra la
legna e il prospetto del forno. E già Alfano sollevandolo diceva che era solo
svenuto. Lo portarono in casa e lo deposero sul letto. Nonna pretese che lo
spogliassero “per capire se reca dei segni”.
“Che segni?”
“Se ha fatto a botte …”
Non aveva segni.”Non sembra che
l’abbiano picchiato” si dissero l’un l’altro.
Ma non ci fu verso di riportare il ragazzo
alla coscienza. Da pallido divenne violentemente rosso sul volto e fu preda
della febbre. Per diversi giorni stentò a riprendere conoscenza. Se ne vide un
barlume verso il mattino dopo, ma poi sopraggiunse di nuovo la febbre.
Adelina, già col
pancione, recava il ghiaccio in una busta di gomma. Lo prelevava dalla sua
ghiacciaia sempre fornita, per fabbricare la carapigna, i sorbetti da vendere
alle feste. “Adesso che nasce il bambino, beati voi se mi vedrete! Neppure
dietro il banco potrò stare. Dovrà starci Cristoforo. Ma lui scalpita. Dice che
qui così non si guadagna, qui. Dice che vuol partire. E forse sì, partiremo …”
Allora non si
accedeva tanto facilmente agli ospedali, pochi e concentrati nelle città,
specialmente se si abitava a distanze ragguardevoli. D’altronde il medico,
avendo escluso contusioni, consigliava di aspettare il chiarimento del quadro
clinico. Nonna e Aglaia si davano il turno con il ghiaccio e poi con le
pezzuole umide. Solo dopo tre settimane la febbre ebbe un recesso e,
accompagnandosi a copiose sudorazioni, in una notte cessò del tutto. Al mattino
Serafino apparve come svuotato e con gli occhi vaghi come laghi brumosi. Non
parlava. Il medico, contento, smorzava le ambasce di nonna: “Un po’ alla
volta, che diamine!”.
Una mattina che
erano tutti via, nonna Magdalena studiò da vicino il malato. Era pallido e
smagrito, sì, però aveva i tratti più rilassati … Gli accarezzò i capelli e la
fronte e con la voce trepidante e dolce gli chiese: “E allora, figlio mio,
non mi vuoi raccontare che cosa ti è successo quel giorno?”.
“Ma voi, chi
siete? Che volete da me?” gli fece eco Serafino con una voce irriconoscibile
e roteando gli occhi in modo pauroso.
Nonna Magdalena
si spaventò e pianse per la disperazione. E quando tutta la famiglia fu riunita
ci si accordò per non chiedergli più nulla e per fare come se niente fosse
accaduto. Magari, col tempo, tutto si sarebbe chiarito e aggiustato. Era noto a
tutti che Serafino, pur essendo mite, non amava essere inquisito o pressato.
“Avrà avuto uno
spavento e, forse perciò, non ricorda niente davvero!” tagliò corto
Aglaia.
Si trattava di
aver pazienza e favorire il tranquillo ritorno alla normalità, aveva ribadito
il medico, chiamato in soccorso. Più avanti nel tempo si sarebbe potuto
condurlo a Cagliari da uno specialista del sistema nervoso, caso mai rivelasse
il sintomo del malcaduco … “Ma non pare” aggiunse ancora il
dottore per smorzare l’apprensione della madre. Anzi trovava inutile il suo
controllo assiduo. Era meglio che lo chiamassero al bisogno.
I giorni
passavano e il pensoso Serafino rimase assolutamente blindato e taciturno.
Invitato a uscire di casa, si rifiutò testardamente rifugiandosi nel letto e
chiudendo la porta della stanza a doppia mandata. Fece lo stesso quando lo
invitarono a tornare al lavoro. Anzi questa volta aveva manifestato, insieme
col rifiuto, una veemenza fisica e verbale che nessuno gli conosceva.
Passarono alcuni mesi senza che si
potesse avere un indizio né di peggioramento né di ritorno alla normalità.
Serafino aveva, sì, ripreso a bazzicare il cortile, ma unicamente per costruire
gabbiette di stecchi, per grilli e cavallette, asseriva.
“Non se ne fa più niente di costui” aveva osservato
un giorno Valerio, fissandolo con crudele oggettività.
“Infatti. E nulla ci si deve più aspettare da
lui” gli fece sponda lo stesso Serafino, restando chino sugli stecchi che
assemblava pazientemente con sottili pezzi di rafia e con una voce così
impersonale come se parlasse di un altro.
La montagnola delle gabbiette cresceva
sensibilmente, ossessivamente. Ora anche Alfano osservava il fratello con
doloroso spavento. Pietro, Pietrino per tutti i familiari - quelle rare
domeniche che poteva tornare a casa da Montorgiu - scuoteva il capo. “Mamma,
babbo, non aspettate più; portatelo a Cagliari. Al costo della visita ci
penso io”.
Pietrino dovette tornare di lì a poco
perché era arrivata la cartolina di chiamata alle armi. L’Italia entrava in
guerra e lui a Cagliari doveva andarci per forza, per vestire la divisa e
partire.
Fu così che, un po’ per accompagnare
Pietrino e un po’ con la speranza di ottenere da uno specialista una cura che
riportasse il ragazzo alla normalità, partirono in quattro per Cagliari.
All’arrivo Pietro scomparve dietro il portone di una bassa, ma ampia e grigia
costruzione: la caserma. Loro tre montarono su un tram a cavalli e ritornarono
alla Marina, non lontano dalla stazione ferroviaria.
La visita non chiarì un bel niente, ma
costò intero l’ultimo salario di Pietrino. Ebbero una ricetta per un ricostituente.
Fu tutto. Verso l’ora della partenza videro un soldato avvicinarsi alla loro
panchina … Serafino fece uno scatto di gioiosa sorpresa: “Pietrì, sembri un
altro! Ma io ti preferisco in borghese”.
“Anch’io mi preferirei come piace a te” gli rispose il
fratello con ironia un po’ amara. Però si diceva rallegrato perché gli avevano
concesso tre ore per salutare il fratello malato. Non sapeva ancora la precisa
data di partenza, ma disse loro che era meglio che non tornassero nel
capoluogo. Perché tanto il saluto si sarebbe ridotto in un agitare il
fazzolettino sul molo e piangere come a un funerale.
Nonna Magdalena - racconta mio padre - pianse
silenziosamente per giorni e giorni; e ricominciava ogni volta che Alfano
ripartiva per la miniera di Montopinosu, perché le pareva che i figli – tanto
quello che era partito, quanto il più cagionevole dei tre che restavano in
paese, come quest’altro che arrivava per ripartire - glieli strappassero
ripetutamente e senza fine dalla carne viva delle viscere.
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