martedì 10 luglio 2018

Un matto in giallo - brano dal XVII capitolo di DA NONNA ANNETTA

Nota - Dico subito che la riedizione  di stralci dell'opera non ha fini commerciali, dato che è probabile che non esistano copie del libro nelle librerie, né  sto pensando di proporne  una nuova edizione. 
Sono assai  felice del commento di Antonio Altana  precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
 perché e come sta dentro il libro,  vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un  pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali. 
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando  articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)

Da

Un matto in giallo

A quattordici anni Serafino aveva preso a frequentare la carpenteria dei fratelli Simula, che accoglieva molti apprendisti. Erano i ragazzi della classe media del paese, quelli che si potevano permettere il lusso di sostenere i figli per il tempo necessario all’apprendimento di un vero mestiere. Giacché i figli dei più poveri scendevano già in galleria o andavano a scarriolare alle fornaci. Ma per Serafino la frequenza della carpenteria doveva essere breve e tale da consentirgli di acquisire qualche tecnica di base per fare il suo ingresso presso una falegnameria vera e propria, che costruiva e intagliava mobili in stile e che era molto selettiva nell’accogliere gli apprendisti. Nonno Mirau s’era particolarmente dato da fare e si era volentieri accollato il peso del mantenimento in apprendistato di Serafino, proprio considerando le capacità e la particolare sensibilità del ragazzo. Il quale, insomma, pareva destinato a un privilegio ulteriore: diventare un fine artigiano del legno.
Infatti nel volgere di un anno, il ragazzo aveva già cambiato ditta. E la sera dopo il lavoro, studiava e riproduceva su carta le venature e le particolarità dei diversi legnami, di cui si portava in casa i campioni. Attentissimo in Ditta, aveva messo gli occhi sui cataloghi e le pubblicazioni che il capomastro, signor Antonio - che era anche contitolare d’impresa - consultava frequentemente quando assumeva una nuova ordinazione. Fattosi coraggio, Serafino aveva chiesto il permesso di avere in prestito uno di quegli album, anche per una sola sera.
Questi sono strumenti di lavoro e costano … Mica si può darli in giro così, come figurine qualunque!”
“Sicuro. A me piacciono per studio”aggiunse l’apprendista in un soffio.
“Uhm. Sei arrivato ieri: non sai neppure la A dell’alfabeto del falegname.”
“È vero, signor Antonio. Però io ce la sto mettendo tutta. Guardi, se lei mi presta uno di quei libri, anche per una sola sera, io rinuncio alla paghetta del mese che lei ha promesso di darmi per questa fine anno …”
“Eh, come corri, ragazzo! Vedremo, vedremo.”
E pare che il  signor Antonio la scodellasse così, calda calda, anche a nonno Cesare, per dargli ad intendere che la promessa paghetta di Serafino poteva slittare per un buon mezzo anno. Fatto sta che una sera il mastro intagliatore, preso dal ghiribizzo della curiosità - vediamo cosa riesce a combinare - gli allungò uno degli album corredati di immagini e didascalie. Il giorno successivo Serafino tornò col libro in mano e un mazzetto di fogli nei quali aveva riprodotto a matita le immagini dell’album con una precisione e una bravura davvero singolari. Perciò il signor Antonio lo prese a benvolere e lo chiamava per farsi aiutare negli schizzi degli assemblaggi, quando il lavoro progettuale urgeva. A casa di nonno Mirau erano stati tutti contenti per lui e disposti a passar sopra a certe sue spigolosità caratteriali. Anzi Alfano gli aveva ordinato a proprie spese, dal Continente, una grossa pubblicazione sulla storia del mobile e degli stili.
La domenica, il vecchio gruppo dei compagni di carpenteria passava da casa per chiamare il loro antico compagno di lavoro e di giochi. Andavano per campi, alla ricerca di qualche frutto negli orti indifesi, di uccellini di nido, di bisce, di lucertole o semplicemente andavano per voglia di moto e gazzarra maschile. Nel gruppo, a mano a mano che si usciva dalla mentalità dell’infanzia, si parlava ad alta voce di donne, d’irruzioni ipotetiche in certe bicocche che sarebbe azzardato chiamare “case di piacere”, ma nelle quali era possibile essere iniziati alla pratica sessuale. Se era estate, i ragazzi si tuffavano a gara in “Su Carropu”, nel fossato della cava di arenaria. E quando la pelle, satura di sole, si era vestita della patina argillosa della roggia, allora qualcuno, guardando la lama della luce trapassare obliqua lo spessore equivoco e verdastro dell’acqua, evocava i morti annegati degli anni avanti. Un brivido allora saettava i dorsi e atterrava le inguini esaltate. Un altro allora, per sfida, di nuovo si lanciava e chiamava alla prova gli altri. L’irrisione e il frizzo cedevano talora il passo all’insolenza, e l’insulto accompagnava e seguiva il gesto rabbioso delle mani… Era così anche ai tempi di Alfano, pochi anni prima. Ma a quel tempo Alfano già fucinava presso la miniera.
Comunque stessero le cose, in famiglia ci si accorse che Serafino aveva smesso di partecipare a quelle scampagnate con quella compagnia. Com’è che non esci?” gli chiedeva qualche volta sua madre. “Non mi va.  Non c’è sugo a  torturare le bisce o a fare a botte come cretini . E poi, fare a botte è pericoloso”.
Ma le domeniche erano giorni lunghi e vuote le strade. Non si poteva crescere come mammole, nascosti tra il crescione e il mentastro, aspettando primavera …
Fu così che quella domenica soleggiata di maggio disse: Oh ma’, badate che esco”.
“E dove, figlio mio?”
“Uff! Esco”.
“Con i soliti?”
“Esco e basta”.
“Ma, da solo?”
“Sì... No. Non lo sooo”.
“Non tardare!”
“Eeeh!”
Erano già tutti a tavola - tutti tranne Pietro, che lavorava a Montorgiu, e Adelina che, sposa di fresco, pranzava a casa propria col marito - quando il cancelletto cigolò in cortile.Ci sei?” vociò nonna Magdalena. Nessuno rispose. Aglaia si fece sull’uscio e osservò: “C’è mica nessuno. Il signorino farà tardi. Ma noi si mangia, eh, che ho da finire il cucito!”.
Alfano e Lorenzo affondarono gli occhi nel piatto.
“Embeh! Uno non può andare a donne senza sbandierarlo a tutti?” esclamò l’intemperante Valerio, rompendo il silenzio e cercando di buttarla in facezia. Ma gli sguardi di tutti quasi gli troncarono in bocca la battuta. Un silenzio insolito accompagnò la consumazione del pasto. Poi i ragazzi si allontanarono, mentre nonno e nonna rimasero seduti a tavola, in attesa.
Il pomeriggio inoltrava e di Serafino neanche l’ombra. “Basta” - sbottò nonna guardando il marito –io sto in pensiero”.
“Ma io dove lo cerco?” fu la risposta angosciata di nonno che, levatosi in piedi, guardava di fuori senza saper prendere una decisione. I due stettero a guardarsi come se ciascuno, leggendo sul volto dell’altro il passaggio di un’ombra scura, non volesse darlo a vedere. Infatti tacevano. A quel punto Aglaia, si affacciò dalla sua stanza: “Niente, eh? Voi, papà e mamma, i maschietti di casa li viziate troppo! Al loro confronto, me mi trattate come una carcerata”. E la sua voce dal timbro argenteo sembrava voler rassicurare tutti.
Nonna Magdalena per un po’ si agitò pesantemente sulla sedia, poi si levò di scatto e cominciò a sparecchiare chiassosamente la tavola. Ma quando ebbe impilato i piatti per lavarli nel caldaio di rame con la cenere, mollò tutto, si asciugò le mani sul grembiule ed entrò nella camera dei figli. C’era solo Alfano che ricuperava il turno in officina, perché a sera doveva rimettersi in cammino per Montopinosu.
Che c’è, mamma?”
“Scusami se ti ho svegliato. Volevo dire ai tuoi fratelli che …”
“Sono usciti a posta. Non mi riesce lo stesso di dormire. Però sta’ tranquilla. Tornano presto, e tutti”.
Tornarono Lorenzo e Valerio: “A Su Carropu non c’è traccia di soste umane. Del resto non fa ancora così caldo!”
Nonna e nonno respirarono rumorosamente, come parzialmente sollevati.
Alfano si era alzato e si apprestava a uscire come se dovesse raggiungere la miniera. Andiamo. Portatevi un indumento pesante e dei bastoni. La borraccia dell’acqua l’ho nella sacca. Passo nella loggetta a prendere la lucerna di miniera …”
Valerio fece una smorfia ironica, ma si dispose a eseguire senza ulteriori commenti. I genitori stavano a guardare impensieriti e speranzosi, avendo rinunciato, per scaramanzia, a darsi un’altra spiegazione segreta e incomunicabile del fatto. O meglio, a nonna Magdalena martellavano nelle orecchie le parole di Serafino: Fare a botte … pericoloso … botte … botte … pericoloso botte …. Ma non erano passati che pochi minuti, quando la voce di Alfano li raggiunse, alterata, dalla loggetta situata nell’angolo remoto del cortile. Accorsero tutti.
Serafino era riverso nell’angolo tra la legna e il prospetto del forno. E già Alfano sollevandolo diceva che era solo svenuto. Lo portarono in casa e lo deposero sul letto. Nonna pretese che lo spogliassero per capire se reca dei segni”.
“Che segni?”
“Se ha fatto a botte …”
Non aveva segni.”Non sembra che l’abbiano picchiato” si dissero l’un l’altro.
Ma non ci fu verso di riportare il ragazzo alla coscienza. Da pallido divenne violentemente rosso sul volto e fu preda della febbre. Per diversi giorni stentò a riprendere conoscenza. Se ne vide un barlume verso il mattino dopo, ma poi sopraggiunse di nuovo la febbre.
Adelina, già col pancione, recava il ghiaccio in una busta di gomma. Lo prelevava dalla sua ghiacciaia sempre fornita, per fabbricare la carapigna, i sorbetti da vendere alle feste. “Adesso che nasce il bambino, beati voi se mi vedrete! Neppure dietro il banco potrò stare. Dovrà starci Cristoforo. Ma lui scalpita. Dice che qui così non si guadagna, qui. Dice che vuol partire. E forse sì, partiremo …”
Allora non si accedeva tanto facilmente agli ospedali, pochi e concentrati nelle città, specialmente se si abitava a distanze ragguardevoli. D’altronde il medico, avendo escluso contusioni, consigliava di aspettare il chiarimento del quadro clinico. Nonna e Aglaia si davano il turno con il ghiaccio e poi con le pezzuole umide. Solo dopo tre settimane la febbre ebbe un recesso e, accompagnandosi a copiose sudorazioni, in una notte cessò del tutto. Al mattino Serafino apparve come svuotato e con gli occhi vaghi come laghi brumosi. Non parlava. Il medico, contento, smorzava le ambasce di nonna: “Un po’ alla volta, che diamine!”.

Una mattina che erano tutti via, nonna Magdalena studiò da vicino il malato. Era pallido e smagrito, sì, però aveva i tratti più rilassati … Gli accarezzò i capelli e la fronte e con la voce trepidante e dolce gli chiese: “E allora, figlio mio, non mi vuoi raccontare che cosa ti è successo quel giorno?”.
“Ma voi, chi siete? Che volete da me?” gli fece eco Serafino con una voce irriconoscibile e roteando gli occhi in modo pauroso.
Nonna Magdalena si spaventò e pianse per la disperazione. E quando tutta la famiglia fu riunita ci si accordò per non chiedergli più nulla e per fare come se niente fosse accaduto. Magari, col tempo, tutto si sarebbe chiarito e aggiustato. Era noto a tutti che Serafino, pur essendo mite, non amava essere inquisito o pressato.
Avrà avuto uno spavento e, forse perciò, non ricorda niente davvero!” tagliò corto Aglaia.
Si trattava di aver pazienza e favorire il tranquillo ritorno alla normalità, aveva ribadito il medico, chiamato in soccorso. Più avanti nel tempo si sarebbe potuto condurlo a Cagliari da uno specialista del sistema nervoso, caso mai rivelasse il sintomo del malcaduco … “Ma non pare” aggiunse ancora il dottore per smorzare l’apprensione della madre. Anzi trovava inutile il suo controllo assiduo. Era meglio che lo chiamassero al bisogno.
I giorni passavano e il pensoso Serafino rimase assolutamente blindato e taciturno. Invitato a uscire di casa, si rifiutò testardamente rifugiandosi nel letto e chiudendo la porta della stanza a doppia mandata. Fece lo stesso quando lo invitarono a tornare al lavoro. Anzi questa volta aveva manifestato, insieme col rifiuto, una veemenza fisica e verbale che nessuno gli conosceva.
Passarono alcuni mesi senza che si potesse avere un indizio né di peggioramento né di ritorno alla normalità. Serafino aveva, sì, ripreso a bazzicare il cortile, ma unicamente per costruire gabbiette di stecchi, per grilli e cavallette, asseriva.
“Non se ne fa più niente di costui” aveva osservato un giorno Valerio, fissandolo con crudele oggettività.
“Infatti. E nulla ci si deve più aspettare da lui” gli fece sponda lo stesso Serafino, restando chino sugli stecchi che assemblava pazientemente con sottili pezzi di rafia e con una voce così impersonale come se parlasse di un altro.
La montagnola delle gabbiette cresceva sensibilmente, ossessivamente. Ora anche Alfano osservava il fratello con doloroso spavento. Pietro, Pietrino per tutti i familiari - quelle rare domeniche che poteva tornare a casa da Montorgiu - scuoteva il capo. “Mamma, babbo, non aspettate più; portatelo a Cagliari. Al costo della visita ci penso io”.
Pietrino dovette tornare di lì a poco perché era arrivata la cartolina di chiamata alle armi. L’Italia entrava in guerra e lui a Cagliari doveva andarci per forza, per vestire la divisa e partire.
Fu così che, un po’ per accompagnare Pietrino e un po’ con la speranza di ottenere da uno specialista una cura che riportasse il ragazzo alla normalità, partirono in quattro per Cagliari. All’arrivo Pietro scomparve dietro il portone di una bassa, ma ampia e grigia costruzione: la caserma. Loro tre montarono su un tram a cavalli e ritornarono alla Marina, non lontano dalla stazione ferroviaria.
La visita non chiarì un bel niente, ma costò intero l’ultimo salario di Pietrino. Ebbero una ricetta per un ricostituente. Fu tutto. Verso l’ora della partenza videro un soldato avvicinarsi alla loro panchina … Serafino fece uno scatto di gioiosa sorpresa: “Pietrì, sembri un altro! Ma io ti preferisco in borghese”.
“Anch’io mi preferirei come piace a te” gli rispose il fratello con ironia un po’ amara. Però si diceva rallegrato perché gli avevano concesso tre ore per salutare il fratello malato. Non sapeva ancora la precisa data di partenza, ma disse loro che era meglio che non tornassero nel capoluogo. Perché tanto il saluto si sarebbe ridotto in un agitare il fazzolettino sul molo e piangere come a un funerale.
Nonna Magdalena - racconta mio padre - pianse silenziosamente per giorni e giorni; e ricominciava ogni volta che Alfano ripartiva per la miniera di Montopinosu, perché le pareva che i figli – tanto quello che era partito, quanto il più cagionevole dei tre che restavano in paese, come quest’altro che arrivava per ripartire - glieli strappassero ripetutamente e senza fine dalla carne viva delle viscere. 


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