domenica 4 novembre 2018

DA NONNA ANNETTA – romanzo di Bianca Mannu - dal cap.XIV - Ricordi di guerra


Ricuperato l’ultimo salario di “aiuto meccanico” nell’officina mineraria di Montopinosu, dove era tornato a lavorare dopo la smobilitazione, Alfano s’imbarcò come passeggero di terza classe su una vecchia nave a vapore in rotta per Napoli. 

La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. 
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. 
Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
 
Nota - A parte i nomi di fantasia, i ricordi sono quelli autentici che mio padre - reduce della Grande Guerra e operaio metalmeccanico, migrante dalla Sardegna verso i centri industriali del continente, (da Napoli a Genova a Torino) - narrava a noi figlie curiose ... 
Anni 1920-30: l'Italia diventava fascista,  lui, no. Anzi,  sospettato dagli scherani locali 
Ammalatosi e impedito di lavorare, fu costretto a tornare in Sardegna e spendere in un colpo solo tutti i risparmi per curare una pleurite che lo stava uccidendo. Palesò la sua fede antifascista e abbandonò perciò il lavoro presso le industrie fascisticizzate.(B. M.)

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