Ricuperato l’ultimo salario di “aiuto
meccanico” nell’officina mineraria di Montopinosu, dove era tornato a lavorare
dopo la smobilitazione, Alfano s’imbarcò come passeggero di terza classe su una
vecchia nave a vapore in rotta per Napoli.
La camerata di terza puzzava quasi come
quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era
soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante
assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo
fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del
fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente
- come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle
retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava
di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a
fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio
restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e
vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante
crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo
stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare
ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la
roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume
della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della
famiglia e tardo irredentista, Valerio.
“Va’, imbecille. Così impari!”
aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E
s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il
freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un
cuoio sospetto.
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla
propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione
voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
La notizia dell’armistizio giunse quasi
di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era
subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello
Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale
militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva
chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni
facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri
cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente
incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’
abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la
gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava,
sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni
momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza,
per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita.
Un
pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del
tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la
vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma
integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza
provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo
riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e
un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un
sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale
d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da
se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania
continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano
verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo
coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e
turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel
delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza,
rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di
quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che
Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata
nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa
della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha
tuttavia una fine!”
si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio
redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che
riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi
Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente
a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da
allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva
preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle
rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso.
Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe
lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una
prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le
buscherà”
rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività
fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo
cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in
disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta
risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e
acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba
spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio
si protrasse di due interminabili
giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi
di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che
s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
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