Si suppone che di un libro premiato da
una fondazione prestigiosa non possa dirsene che bene. E Maria di Isili
di Cristian Mannu , vincitore del premio Italo Calvino per il 2015, sembra un
ottimo prodotto. Ma pur sempre un prodotto, ossia un oggetto fabbricato per la
vendita, che rincorre un gusto, una propensione del pubblico, già in atto. Si
inserisce in una tendenza, peraltro riaccesasi nel secondo dopoguerra in seguito alla diffusione di teorie
etnografiche volte alla riscoperta e alla rivalutazione delle culture e
tradizioni popolari, una volta completamente ignorate, se non osteggiate dalle
culture dominanti. Il processo di ridefinizione
teoretica a livello di ricerca storiografica, etnografica e linguistica in senso strutturale, si è parzialmente
riversato nelle concezioni comuni, dando luogo a una vulgata semplificatrice
che contrappone in modo ideologico acritico “la piccola patria”(J. Hessen), il villaggio
locale, come esperienza e luogo di valori giusti e genuini, agli statalismi
soffocanti, agli ecumenismi religiosi, agli internazionalismi sociali
variamente colorati. L’internazionalismo mercantile postbellico ha globalizzato
tale tendenza, ha collegato il ricupero o il desiderio di revival dei tratti localistici
all’industria chiamata turismo. Quest’industria organizza la possibilità di
fruizioni esotiche per i visitatori di culture diverse, trasceglie quelle
sopravvivenze culturali ancora misconosciute e/o misteriose o stimate tali, le adatta,
spesso snaturandole e falsificandole, ai
preventivati gusti generici del fruitore medio e alla commerciabilità. Ed ecco
che, senza problemi rifà il trucco alle vecchie storie mediante l’esibizione
rivisitata, depurata, teatralizzata di certi aspetti rituali di antichi stili
di vita popolare, attribuendo loro la patina dorata dell’atteggiamento
nostalgico costruito ad arte, sulla base dell’insoddisfazione provocata dagli
irrisolti problemi del mondo reale vivente e sulla ben calcolata tendenza a
spostare il desiderio di evasione sul terreno del mito a buon mercato.
Questo stesso processo decreta anche la scelta
tematica, il confezionamento e la sorte di molte delle opere di scrittura
narrativa e poetica. Infatti oggidì uno scrittore alla sua prima prova non può,
forse, esimersi dall’annusare l’aria che tira. È questa, per gli scrittori sardi, esordienti o meno, a
mandare il vento in poppa (non particolarmente gagliardo) a quei vascelli di
carta che solcano le correnti del mito e mantengono la barra del linguaggio in
una sorta di terra di mezzo tra monodie e polifonie piuttosto soporifere, che
non richiedono alcuno sforzo interpretativo, anzi vanno a riempire i vuoti e l’accidia culturali, carezzano il vello dei
patiti del localismo civettando con le sgrammaticature più ridicole.
Ora mi sto chiedendo se le centrali
della cultura letteraria nazionale (storici della
letteratura, critici, talent scout, editori, fondazioni e associazioni
culturali, giornali quotidiani e loro inserti, i premi, le riviste, ecc.)
abbiano consapevolezza di come il loro
imprimatur arruoli, per esempio, gli autori sardi, al compito di corifei di una
cultura volta all’indietro, e ottusamente ripiegata sul proprio già da sempre
infelice ombelico, dominato dalla consuetudine irrigidita a istinto, e questo,
più che vissuto, propinato come fato nei testi. L’apparente
indifferenza mercantile circa le tematiche si accorda “convenientemente”
con le pur nebbiose indicazioni anzidette e quasi suggerisce quale sia il gradito volto che la Sardegna debba
mostrare al mondo e alla sua stessa gente, impoverita di tutto, ma specialmente
defraudata degli strumenti adeguati al conseguimento generalizzato di una
formazione culturale capace di sceverare concettualmente il mito dalla realtà,
il simbolo dall’oggetto, di decodificare
i meccanismi sottesi al mondo reale, tanto quelli delle epoche superate quanto
quelli che sono attivi nel presente.
Dentro un tale stampo,
i sardi sembrano colpiti dall’incantesimo che li relega in un’indeterminatezza
temporale e storica, nella quale le
psicologie personali rispondono ancora a categorie rudimentali ossificate,
barbariche insomma.
Lo sguardo
insistentemente rétro di parecchi autori di questo primo quindicennio, e Cristian Mannu fra essi, denuncia questo blocco e la fuga circolare in
una bolla nostalgica di una presunta identità selvaggia, quale riferimento genetico collettivo regionale, contenitore assoluto
di potenziali germi creativi, ma
ciecamente fissato sulla propria impossibilità di sviluppo.
Il romanzo di C. Mannu,
Maria di Isili, rientra
nettamente in questo quadro. L’Autore vi aggiunge di suo un rilevante eccesso
di enfasi, solo apparentemente epica, in realtà fissata su figure poco emblematiche, mancanti di
spessore e di motivazioni, tutte centrate su una generica patologia emozionale. La
scelta monodica - per cui ogni personaggio offre la sua versione o parziale o personale
degli eventi (anzi la “canta”quasi alla maniera delle prefiche) - vorrebbe snodarsi
in polifonia narrativa, ma questa, anziché aprirsi a una rappresentazione
dialettica articolata e complessa, si risolve in comparizioni monologanti, in
cui protagonisti e comprimari restano prigioni della staticità insormontabile e della solitudine monadica. I personaggi femminili, emanazioni di volontà altrui -
quelle dell’Autore, si presume – sono privi di psiche, ridotti a sostanziale lacrimatoio
del micro mondo della mal assortita parentela. Maria, ingannevole vessillo di
un femminino inesistente (così Isili,le cui uniche coordinate fisiche sono le
impressioni fugaci del visitatore del ventoso sito archeologico del territorio),
non riesce neppure ad essere credibile stereotipo della vittima, manca di vero
e proprio ruolo, non emette il minimo barlume di intelligenza, neppure quella
del sentimento. Lei, sua madre e sua sorella restano crocifisse alla propria indefettibile
subalternità al richiamo sessuale dell’adolescenza, il cui naufragio scivola in
autocensura falsa e tardiva, mai nell’autocoscienza di un calcolo erroneo, di
un’ingenuità che può riscattarsi. Da
queste numerose défaillances si ricava la netta percezione che l’Autore,
preoccupato di racimolare gli ingredienti forti ritenuti necessari a stimolare palati
ottusi, teso a lanciare appetitose promesse dal titolo, non ha dominato la materia
del narrare e la taratura psicologica dei personaggi. L’oggettività dei fatti e dei troppi misfatti emerge dall’escussione delle voci narranti – ed è, nel suo eccesso di
brutalità gratuita, tutto il melos della vicenda. Essa si può riassumere
così: Ethos - il più torvo custode e ingigantito topos dell’immaginario collettivo
assorbito da soggetti perversi - vince
su Eros. Eros, possibile motore della vita, si profila in modo elementare e coattivo nei diversi soggetti e pare risolversi nel semplice atto sessuale che, concludendosi in riproduzione, si
proietta all’esterno, creando il viluppo tragico. La soluzione catartica, se
mai possibile, è assolta da Tanatos, morte inflitta, procurata o pervenuta per
cedimento del corpo, per vergogna, per crudele stupidità. Essa travolge tutti i
personaggi, tranne Evelina, sorella di Maria . Il romanzo potrebbe concludersi così. Invece
l’Autore vuole realizzare una saga con rigenerazione della stirpe. E “pour cause”, dato che Maria si
è negata ogni comunicazione! La narrazione si trascina in epistole finali molto
succinte e di cattivo stile narrativo, quasi un rattoppo al fine di collegare, come
una sorta di resipiscenza affettiva da parte di Evelina, le quattro generazioni evocate. Resipiscenza senza spiegazioni, una questione
di consanguineità nella quasi ignoranza della storia familiare. Parlano gli oggetti,
la casa grande, i beni, come richiamo da un lato; dall’altro parla il
sangue, cioè l’avvenuta trasmissione - per via genetica, parrebbe - della
creatività artistica dell’ava in una nipote che, non si capisce il perché, ha
per nome Maria di Isili, benché nata e allevata
nel Continente. Lei sembra sapere
già come valorizzare la sua ereditata risorsa e come introdursi nel mercato.
Il cerchio è stato
chiuso, ma il medioevo culturale ha continuato a insistere all’insaputa dell’Autore.
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