martedì 27 dicembre 2016

Bianca legge MARIA DI ISILI di Cristian Mannu -1°Premio Italo Calvino 2015

Si suppone che di un libro premiato da una fondazione prestigiosa non possa dirsene che bene. E Maria di Isili di Cristian Mannu , vincitore del premio Italo Calvino per il 2015, sembra un ottimo prodotto. Ma pur sempre un prodotto, ossia un oggetto fabbricato per la vendita, che rincorre un gusto, una propensione del pubblico, già in atto. Si inserisce in una tendenza, peraltro riaccesasi nel secondo dopoguerra  in seguito alla diffusione di teorie etnografiche volte alla riscoperta e alla rivalutazione delle culture e tradizioni popolari, una volta completamente ignorate, se non osteggiate dalle culture dominanti. Il processo di ridefinizione teoretica a livello di ricerca storiografica, etnografica  e linguistica in senso strutturale, si è parzialmente riversato nelle concezioni comuni, dando luogo a una vulgata semplificatrice che contrappone in modo ideologico acritico  “la piccola patria”(J. Hessen), il villaggio locale, come esperienza e luogo di valori giusti e genuini, agli statalismi soffocanti, agli ecumenismi religiosi, agli internazionalismi sociali variamente colorati. L’internazionalismo mercantile postbellico ha globalizzato tale tendenza, ha collegato il ricupero o il desiderio di revival dei tratti localistici all’industria chiamata turismo. Quest’industria organizza la possibilità di fruizioni esotiche per i visitatori di culture diverse, trasceglie quelle sopravvivenze culturali ancora misconosciute e/o misteriose o stimate tali, le   adatta, spesso snaturandole e falsificandole,  ai preventivati gusti generici del fruitore medio e alla commerciabilità. Ed ecco che, senza problemi rifà il trucco alle vecchie storie mediante l’esibizione rivisitata, depurata, teatralizzata di certi aspetti rituali di antichi stili di vita popolare, attribuendo loro la patina dorata dell’atteggiamento nostalgico costruito ad arte, sulla base dell’insoddisfazione provocata dagli irrisolti problemi del mondo reale vivente e sulla ben calcolata tendenza a spostare il desiderio di evasione sul terreno del mito a buon mercato
Questo stesso processo decreta anche la scelta tematica, il confezionamento e la sorte di molte delle opere di scrittura narrativa e poetica. Infatti oggidì uno scrittore alla sua prima prova non può, forse, esimersi dall’annusare l’aria che tira. È questa, per  gli scrittori sardi, esordienti o meno, a mandare il vento in poppa (non particolarmente gagliardo) a quei vascelli di carta che solcano le correnti del mito e mantengono la barra del linguaggio in una sorta di terra di mezzo tra monodie e polifonie piuttosto soporifere, che non richiedono alcuno sforzo interpretativo, anzi vanno a riempire i vuoti e l’accidia culturali, carezzano il vello dei patiti del localismo civettando con le sgrammaticature più ridicole. 
Ora mi sto chiedendo se le centrali della cultura letteraria nazionale (storici della letteratura, critici, talent scout, editori, fondazioni e associazioni culturali, giornali quotidiani e loro inserti, i premi, le riviste, ecc.)  abbiano consapevolezza di come il loro imprimatur arruoli, per esempio, gli autori sardi, al compito di corifei di una cultura volta all’indietro, e ottusamente ripiegata sul proprio già da sempre infelice ombelico, dominato dalla consuetudine irrigidita a istinto, e questo, più che vissuto, propinato come fato nei testi.  L’apparente  indifferenza mercantile circa le tematiche si accorda “convenientemente” con le pur nebbiose indicazioni anzidette e quasi suggerisce quale  sia il gradito volto che la Sardegna debba mostrare al mondo e alla sua stessa gente, impoverita di tutto, ma specialmente defraudata degli strumenti adeguati al conseguimento generalizzato di una formazione culturale capace di sceverare concettualmente il mito dalla realtà, il simbolo dall’oggetto,  di decodificare i meccanismi sottesi al mondo reale, tanto quelli delle epoche superate  quanto  quelli che sono attivi nel presente.
Dentro un tale stampo, i sardi sembrano colpiti dall’incantesimo che li relega in un’indeterminatezza temporale e storica, nella  quale le psicologie personali rispondono ancora a categorie rudimentali ossificate, barbariche insomma.
Lo sguardo insistentemente rétro di parecchi autori di questo primo quindicennio, e  Cristian Mannu fra essi,  denuncia questo blocco e la fuga circolare in una bolla nostalgica di una presunta identità selvaggia, quale riferimento  genetico collettivo regionale, contenitore assoluto di  potenziali germi creativi, ma ciecamente fissato sulla propria impossibilità di sviluppo.
Il romanzo di C. Mannu, Maria di Isili, rientra nettamente in questo quadro. L’Autore vi aggiunge di suo un rilevante eccesso di enfasi, solo apparentemente epica, in realtà fissata su figure poco emblematiche, mancanti di spessore e di motivazioni, tutte centrate su una generica patologia emozionale. La scelta monodica - per cui ogni personaggio offre la sua versione o parziale o personale degli eventi (anzi la “canta”quasi alla maniera delle prefiche) - vorrebbe snodarsi in polifonia narrativa, ma questa, anziché aprirsi a una rappresentazione dialettica articolata e complessa, si risolve in comparizioni monologanti, in cui protagonisti e comprimari restano prigioni della staticità insormontabile e della solitudine monadica. I personaggi femminili, emanazioni di volontà altrui - quelle dell’Autore, si presume – sono privi di psiche, ridotti a sostanziale lacrimatoio del micro mondo della mal assortita parentela. Maria, ingannevole vessillo di un femminino inesistente (così Isili,le cui uniche coordinate fisiche sono le impressioni fugaci del visitatore del ventoso sito archeologico del territorio), non riesce neppure ad essere credibile stereotipo della vittima, manca di vero e proprio ruolo, non emette il minimo barlume di intelligenza, neppure quella del sentimento. Lei, sua madre e sua sorella restano crocifisse alla propria indefettibile subalternità al richiamo sessuale dell’adolescenza, il cui naufragio scivola in autocensura falsa e tardiva, mai nell’autocoscienza di un calcolo erroneo, di un’ingenuità che può riscattarsi.  Da queste numerose défaillances si ricava la netta percezione che l’Autore, preoccupato di racimolare gli ingredienti forti ritenuti necessari a stimolare palati ottusi, teso a lanciare appetitose promesse dal titolo, non ha dominato la materia del narrare e la taratura psicologica dei personaggi. L’oggettività dei fatti e dei troppi misfatti emerge dall’escussione delle voci narranti – ed è, nel suo eccesso di brutalità gratuita, tutto il melos della vicenda.  Essa si può riassumere così: Ethos - il più torvo custode e ingigantito topos dell’immaginario collettivo assorbito da soggetti perversi -  vince su Eros. Eros, possibile motore della vita, si profila in modo elementare e coattivo nei diversi soggetti e pare risolversi nel semplice atto sessuale  che, concludendosi in riproduzione, si proietta all’esterno, creando il viluppo tragico. La soluzione catartica, se mai possibile, è assolta da Tanatos, morte inflitta, procurata o pervenuta per cedimento del corpo, per vergogna, per crudele stupidità. Essa travolge tutti i personaggi, tranne Evelina, sorella di Maria .  Il romanzo potrebbe concludersi così. Invece l’Autore vuole realizzare una saga con rigenerazione  della stirpe. E “pour cause”, dato che Maria si è negata ogni comunicazione! La narrazione si trascina in epistole finali molto succinte e di cattivo stile narrativo, quasi un rattoppo al fine di collegare, come una sorta di resipiscenza affettiva da parte di Evelina, le  quattro generazioni evocate.  Resipiscenza senza spiegazioni, una questione di consanguineità nella quasi ignoranza della storia familiare. Parlano gli oggetti, la casa grande, i beni, come richiamo da un lato; dall’altro parla il sangue, cioè l’avvenuta trasmissione - per via genetica, parrebbe - della creatività artistica dell’ava in una nipote che, non si capisce il perché, ha per nome Maria di Isili, benché nata e allevata  nel Continente.  Lei sembra sapere già come valorizzare la sua ereditata risorsa e come introdursi nel mercato.
Il cerchio è stato chiuso, ma il medioevo culturale ha continuato a insistere all’insaputa dell’Autore.

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