martedì 5 luglio 2016

Bianca Mannu legge DETTAGLI DI UN SORRISO - romanzo di Gianni Zanata

Non conoscevo niente dell’Autore né delle sue opere. Ora che ne ho una in mano, so  ancora meno di entrambi e forse, a lettura compiuta, non saprò se mi mancava o no. Un incontro casuale, prima che col suo autore, con un suo romanzo: Dettagli di un sorriso. Un “noir”, dicono.
Gli incontri casuali riserbano sorprese, a volte negative, a volte solo piene di punti interrogativi, perché se non hai già pronto un protocollo per la schedatura, lo scritto permane in un limbo di quesiti e saltabecca da una casella a un’altra, finché l’oblio finirà per tingerlo di una patina neutra. Ma se scrivi le tue impressioni, impressioni senza pretese, positive o negative o incerte o ambivalenti, qualcosa del testo resterà scritta dentro di te. Quale migliore omaggio all’Autore, après tout!
Comincio, dunque, a leggere diligentemente una pagina dopo l’altra, galleggiando a pelo di discorso, fino a cogliere i segni di una geografia fisica che mi pare familiare e tuttavia aliena. Una fisicità che scorre in trasparenze discorsive contestuali, che io riscopro nella mia quotidiana esperienza come in un fondo irrisolto, che mi spinge  a frugare nei circuiti narrativi e lessicali altrui – e ciò va annoverato come  loro pregio –  quel mio fondo che mi elegge pianta straniera, mai acclimatata del tutto nella sola terra nativa, ospite ostica. Straniera e avventizia perenne,  annuso nella traspirazione di altri vegetali, locali o allogeni, i fumi delle mie vibrazioni respinte in una sorta di chimismo ancestrale.   
Il filo di Arianna per addentrarmi in questo libro dovrei cercarlo  raggomitolato nel titolo. Ma questa è una  tecnica di lettura che non mi si confà.
Nella tecnica compositiva del fumetto, la rappresentazione del dettaglio racconta più di tante parole e fornisce informazioni plastiche sulla psicologia e sullo stato emotivo dei personaggi. E a furia di dettagliare la presunta unità-identità individuale s’infrange talora irreversibilmente, perciò nel fumetto nessuno muore mai davvero. Il fumetto schizzofrenizza la presunta compattezza dell’altrettanto presunta realtà, assume il dettaglio a categoria esplicativa e/o motivazionale del tutto, rappresenta l’alterazione febbrile, il reale patologico. Il noir letterario corrisponderebbe a questo disegno. È a questo che il titolo,  Dettagli di un sorriso, vuole alludere? Forse.   
Comincio invece come lettore ingenuo e credo che solo strada facendo perderò, se la perderò, la mia ingenuità, vera o presunta che sia.
Ed ecco un, anzi il personaggio, Valdo, baldo e baldanzoso, tutto sciolto nella propria autocontemplazione attiva. Norman, di cognome, uomo del Nord e forse anche uomo di norma… Al tempo.
Un personaggio  alle prese con la propria schizofrenia. Giornalista sui generis, delinquente in subordine e serial killer, troneggia nel testo evocando figure di carta, spettri umani senza vapore di vita.
Se la racconta –il Valdo-io narrante - questa storia senza storia, da capocomico pressoché solitario in un proscenio deserto, intento a trascinare un vuoto di senso da capitolo a capitolo. D'altronde nella follia solipsista tutto si tiene, anche il tutto di niente: ciò che  è dato come la cifra dell’esistente e del pensiero che lo pensa. Questo inferisco.
Però, da delinquente colto, il Valdo tenta persino di connettere la sua vocazione criminale con un mitico e fumoso ritorno della rimossa ferita prodotta da violenza paterna. Ci fa sapere anche che lui opta per la parte femminile, per via del giusto omaggio alla posizione ideologica progressista, lui freddo carnefice di donne! Quasi ricupero atroce di uasiquel bimbo che anela a identificarsi con quello stesso padre feritore.
Il “Freud” semplificato funziona sempre come passe-par-tout dell’animo più oscuro. Almeno un po’ sembra fornire spiegazioni rapide  e razionali.  Poi, buio.
Ma il lato “bello” cioè “etico” del personaggio Valdo è questo: chiamarsi fuori dal suo atroce pantano e tratto tratto snocciolare, a se stesso e per noi,  le sue considerazioni morali  desunte, pare, dal suo tastare il polso alla “gente”, peraltro contumace, destinataria ipotetica e improbabile dei suoi motti.
Se l’intenzione dell’Autore  era  quella di scattare dei flash sul vuoto umano che l’individualismo culturale planetario introduce nella crosta carnea della socialità contemporanea, anche in quella isolana - solo apparentemente fissata in immaginari modelli  recessivi e rassicuranti - possiamo ammettere che vi sia riuscito. Ma a che prezzo! Al prezzo di sottrarre al lettore ogni lavoro dialettico diverso dalla meccanica che, repressa e autoalimentata, tracima verso la soluzione criminosa e la celebrazione egotistica.  Ma quale crimine, poi?  Si può dire crimine, e tremarne, se si continua a trafficare in un “verbale” annientamento di figurine di carta, silouettes senza carattere, macchine per giustificare un gesto che pretende di spendersi come definitivo, letale?  
Manca il racconto, non dico verosimile, ma quello dell’inquietudine, se non della lacerazione. Insomma l’Autore-Valdo se la racconta facile. Ma in qualche tratto la parola del soliloquio, usuale, reiterata, carica di assilli e allusioni, apre un proscenio onirico “alla Beckett”, da cui fuoriesce un flusso che, per la sua indifferenza logica, per l’escussione sequenziale e talora lucidamente demenziale di asserti e marcature macroscopiche, si apre a una sorta di poesia capace di sostenere ogni gratuità, oscurità, caduta di senso.
In fondo lo Scrittore lascia trapelare il sospetto che il dire e il fare narrati siano tutt’uno col farnetico del  protagonista e con la sua sterile ansia demiurgica e punitiva, quasi da giustiziere della notte, ma senza giustizia, senza parvenza d’amore, senza riscatto possibile e senza un vero suolo di gravità. Così la sua paura e lo scambiare una maschera accosciata sui gradini di una chiesa per il fantasma d’un idolo morto. Eccolo lì il Valdo, selvatico e/o dominatore, uomo-norma del suo cerebrale proscenio.
E lì il linguaggio ben padroneggiato dall’Autore, e venato d'ironia, si snoda veloce lungo una corsia che si staglia tra un buon italiano medio e l’inclinazione ben temperata in  direzione di uno slang malavitoso, in sintonia col tempestare delle musiche di “stretta osservanza jazz”, col fluire del whisky e dei suoi fumi, omaggio all’americanismo  culturale che si vende meglio del nostro vino.


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