Non conoscevo niente
dell’Autore né delle sue opere. Ora che ne ho una in mano, so ancora meno di entrambi e forse, a lettura
compiuta, non saprò se mi mancava o no. Un incontro casuale, prima che col suo
autore, con un suo romanzo: Dettagli di un sorriso. Un “noir”, dicono.
Gli incontri casuali
riserbano sorprese, a volte negative, a volte solo piene di punti
interrogativi, perché se non hai già pronto un protocollo per la schedatura, lo
scritto permane in un limbo di quesiti e saltabecca da una casella a un’altra,
finché l’oblio finirà per tingerlo di una patina neutra. Ma se scrivi le tue
impressioni, impressioni senza pretese, positive o negative o incerte o ambivalenti, qualcosa del testo
resterà scritta dentro di te. Quale migliore omaggio all’Autore, après tout!
Comincio, dunque, a
leggere diligentemente una pagina dopo l’altra, galleggiando a pelo di discorso,
fino a cogliere i segni di una geografia fisica che mi pare familiare e
tuttavia aliena. Una fisicità che scorre
in trasparenze discorsive contestuali, che io riscopro nella mia quotidiana
esperienza come in un fondo irrisolto, che mi spinge a frugare nei
circuiti narrativi e lessicali altrui – e ciò va annoverato come loro pregio –
quel mio fondo che mi elegge pianta straniera, mai acclimatata del tutto nella sola terra nativa,
ospite ostica. Straniera e avventizia perenne, annuso nella traspirazione di altri vegetali,
locali o allogeni, i fumi delle mie vibrazioni respinte in una sorta di chimismo
ancestrale.
Il filo di Arianna per
addentrarmi in questo libro dovrei cercarlo raggomitolato nel titolo. Ma questa è una tecnica di lettura che non mi si confà.
Nella tecnica
compositiva del fumetto, la rappresentazione del dettaglio racconta più di
tante parole e fornisce informazioni plastiche sulla psicologia e sullo stato
emotivo dei personaggi. E a furia di dettagliare la presunta unità-identità
individuale s’infrange talora irreversibilmente, perciò nel fumetto nessuno
muore mai davvero. Il fumetto schizzofrenizza la presunta compattezza
dell’altrettanto presunta realtà, assume il dettaglio a categoria esplicativa
e/o motivazionale del tutto, rappresenta l’alterazione febbrile, il reale
patologico. Il noir letterario corrisponderebbe a questo disegno. È a questo che il titolo, Dettagli di un sorriso, vuole alludere?
Forse.
Comincio invece come
lettore ingenuo e credo che solo strada facendo perderò, se la perderò, la mia
ingenuità, vera o presunta che sia.
Ed ecco un, anzi il personaggio, Valdo, baldo e baldanzoso, tutto sciolto nella propria
autocontemplazione attiva. Norman, di cognome, uomo del Nord e forse anche uomo
di norma… Al tempo.
Un personaggio alle prese con la propria schizofrenia.
Giornalista sui generis, delinquente in subordine e serial killer, troneggia nel
testo evocando figure di carta, spettri umani senza vapore di vita.
Se la racconta –il
Valdo-io narrante - questa storia senza storia, da capocomico pressoché
solitario in un proscenio deserto, intento a trascinare un vuoto di senso da
capitolo a capitolo. D'altronde nella follia solipsista tutto si tiene, anche
il tutto di niente: ciò che è dato come
la cifra dell’esistente e del pensiero che lo pensa. Questo inferisco.
Però, da delinquente
colto, il Valdo tenta persino di connettere la sua vocazione criminale con un mitico e fumoso
ritorno della rimossa ferita prodotta da violenza paterna. Ci fa sapere anche
che lui opta per la parte femminile, per via del giusto omaggio alla posizione ideologica
progressista, lui freddo carnefice di donne! Quasi ricupero atroce di quel bimbo che anela a
identificarsi con quello stesso padre feritore.
Il “Freud”
semplificato funziona sempre come passe-par-tout dell’animo più oscuro. Almeno
un po’ sembra fornire spiegazioni rapide
e razionali. Poi, buio.
Ma il lato “bello”
cioè “etico” del personaggio Valdo è questo: chiamarsi fuori dal suo atroce
pantano e tratto tratto snocciolare, a se stesso e per noi, le sue considerazioni morali desunte, pare, dal suo tastare il polso alla
“gente”, peraltro contumace, destinataria ipotetica e improbabile dei suoi
motti.
Se l’intenzione
dell’Autore era quella di scattare dei flash sul vuoto umano
che l’individualismo culturale planetario introduce nella crosta carnea della
socialità contemporanea, anche in quella isolana - solo apparentemente fissata
in immaginari modelli recessivi e
rassicuranti - possiamo ammettere che vi sia riuscito. Ma a che prezzo! Al
prezzo di sottrarre al lettore ogni lavoro dialettico diverso dalla meccanica
che, repressa e autoalimentata, tracima verso la soluzione criminosa e la
celebrazione egotistica. Ma quale
crimine, poi? Si può dire crimine, e
tremarne, se si continua a trafficare in un “verbale” annientamento di figurine
di carta, silouettes senza carattere, macchine per giustificare un gesto che pretende
di spendersi come definitivo, letale?
Manca il racconto,
non dico verosimile, ma quello dell’inquietudine, se non della lacerazione.
Insomma l’Autore-Valdo se la racconta facile. Ma in qualche tratto la parola
del soliloquio, usuale, reiterata, carica di assilli e allusioni, apre un
proscenio onirico “alla Beckett”, da cui fuoriesce un flusso che, per la sua indifferenza
logica, per l’escussione sequenziale e talora lucidamente demenziale di asserti
e marcature macroscopiche, si apre a una sorta di poesia capace di
sostenere ogni gratuità, oscurità, caduta di senso.
In fondo lo Scrittore
lascia trapelare il sospetto che il dire e il fare narrati siano tutt’uno col
farnetico del protagonista e con la sua
sterile ansia demiurgica e punitiva, quasi da giustiziere della notte, ma senza
giustizia, senza parvenza d’amore, senza riscatto possibile e senza un vero
suolo di gravità. Così la sua paura e lo scambiare una maschera accosciata sui
gradini di una chiesa per il fantasma d’un idolo morto. Eccolo lì il Valdo,
selvatico e/o dominatore, uomo-norma del suo cerebrale proscenio.
E lì il linguaggio ben
padroneggiato dall’Autore, e venato d'ironia, si snoda veloce lungo una corsia che si
staglia tra un buon italiano medio e l’inclinazione ben temperata in direzione di uno slang malavitoso, in
sintonia col tempestare delle musiche di “stretta osservanza jazz”, col fluire
del whisky e dei suoi fumi, omaggio all’americanismo culturale che si vende meglio del nostro vino.
Nessun commento:
Posta un commento