mercoledì 13 luglio 2016

Su "GLI ANNI DEI SOGNI BREVI" di Franco Pagnotta

Impressioni di Bianca Mannu

Comincia con il bel titolo che picchia sull’immaginazione e allusivamente anticipa la durata e la costanza di un accadere grafito sulle pagine, continua con la nota preliminare di Mimmo Cangemi quasi prologo e anticipazione che sembra far corpo con il seguito. Dichiarandosi compagno dell’Autore per età, esperienze e contesto, Cangemi asserisce di ritrovare la sua storia nelle pagine del libro e intanto, dissimulata nell’onda affettiva della comunanza, sembra porgere una chiave di lettura dell’opera alludendo a certa  sua marca realistica. Infatti attribuisce all’opera di Pagnotta il valore di testimonianza diretta,  d’inoppugnabile e raro documento di un mondo soppiantato da un altro, vincente perché seduttivo, ma amorale, superficiale, veloce e smemorato.
Intanto l’Autore, findall’esordio è già tutto dentro il suo luogo e il suo tempo primigenio, quieto paese di  poche anime con le “rughe” strette ( sarebbero “arrugas” per noi sardi) e le diverse loro animazioni secondo il levare e declinare del sole: paese-mondo.
Capitolo dopo capitolo, ciascuno contrassegnato o annunciato da un motto allusivo o immaginifico, si srotolano le figure mobili di un arazzo che emana suoni, odori, che si illumina colorandosi o mimetizzandosi nella tinta prevalente d’un sentimento percepito come corale, si abbuia popolandosi di bisbigli e di ombre.
 Instaura un tempo lento la scrittura di Franco Pagnotta, tale che le sue scansioni, malgrado il comparire e lo scomparire delle figure, persino drammatico ma senza drammaturgia, sembra non alterare una sorta di fissità da presepe, notturno, diurno, con neve, con pioggia, con sole… Gli interni sono volteggi d’ombre: mani, fronti, sagome chiuse in atti semplici e insieme contegnosi, umide luci di occhi al tremolio di candele. In questo durare del vivere nella bolla allucinata del borgo contadino, nondimeno si sogna: si sogna il buon raccolto che la grandine distrugge, si sogna la tavola imbandita abitualmente sguarnita, si sogna un giocattolo che resta appeso al cordino del giocattolaio, si sogna la pace e intanto si va in guerra o si scontano i suoi esiti, si sogna una vita lunga, per quanto difficile e duramente ripetitiva, ma da consumare con ostinazione nel cerchio familiare e nella relativa uguaglianza nella miseria dei compaesani e invece si muore da vivi nell’emigrazione.
A mano a mano che la memoria fluisce nella pacata discorsività della scrittura, avverti la sua cadenza di canto che si deposita come retaggio etico ed epico, preteso attestato di realtà, ma anche e sopra tutto condensato di valori assoluti e termine di confronto (però già ipostatizzato e perciò perso) con il mondo-altro che l’Autore evoca in allusioni fantasmatiche e negative,  quasi che un demone perverso l’abbia deposto e disposto alla distruzione del virtuoso, mite, benevolo e pacifico mondo dei cafoni, condannati, non si sa come né perché, alla loro insensata e fatale povertà.
Come poema - elaborato, articolato e passato attraverso il filtro personale, talora onirico, a tratti d’una intensità struggente, sempre nostalgico e mitopoietico - il testo si dipana e fluisce tramite un uso del linguaggio sorvegliatissimo e sapientemente modulato, che prende andamento pacato di magro fiume di piana a lambire atmosfere narrative e descrittive di densa tenerezza. 
Ma questa appena detta, che appare ed è una qualità della scrittura di Franco Pagnotta, a mano a mano che il tessuto dell’opera fluisce verso la chiusa, si aggruma talora in ridondanza sentimentale. Essa è poeticamente giustificata finché l’io narrante–poetante ricopre il ruolo di fanciullo ingenuo e sognatore, diventa astrazione ideologicamente sovradeterminata quando l’io poetico vestendo i panni dell’adulto giovane al compimento degli studi superiori compiuti fuoriborgo – lo si vedrebbe smaliziato circa l’interdipendenza delle disparità sociali  e dei loro differenti modelli culturali - sembri incapace di considerare realisticamente le sue esperienze, tanto da gettarle, quasi da ottuagenario, nel buio utero della più buia nostalgia.
Ci saremmo aspettati che l’Autore, pur salvando l’incanto degli
amorosi sensi  relativi al paesello, elaborasse narrativamente e poeticamente più mature e “pensate” relazioni socio-storiche  (e, lato sensu, politiche) che articolavano due realtà solo astrattamente antinomiche e contrapposte.
Ecco che il discorso, invece di asciugarsi in un quadro narrativamente e dialetticamente propenso a cogliere un minimo di oggettività,  si restringe quasi soffocato da un eccesso sentimentale con effetti distorcenti   che ledono la resa artistica. Il peso non sorvegliato dell’atteggiamento pre-giudicante combinato con le prescelte soluzioni formali azionate dall’enfasi affettiva, imprime al discorso una notevole divaricazione rispetto al contenuto  (condizioni reali e cause), posto in posizione recessiva, misconosciuto, quasi convitato spettrale al festino insistito dei sentimenti,  indicato come dato impenetrabile, mezza verità, bloccato rispetto alle sue spinte dinamiche (disagi, desideri, tensioni) verso l’incontro con la parola di verità, quanto si voglia partecipata e, narrativamente e/o poeticamente, risolta. 

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