Impressioni di Bianca Mannu
Comincia con il bel
titolo che picchia sull’immaginazione e allusivamente anticipa la durata e la
costanza di un accadere grafito sulle pagine, continua con la nota preliminare
di Mimmo Cangemi quasi prologo e anticipazione che sembra far corpo con il seguito.
Dichiarandosi compagno dell’Autore per età, esperienze e contesto, Cangemi asserisce
di ritrovare la sua storia nelle pagine del libro e intanto, dissimulata
nell’onda affettiva della comunanza, sembra porgere una chiave di lettura dell’opera
alludendo a certa sua marca realistica.
Infatti attribuisce all’opera di Pagnotta il valore di testimonianza diretta, d’inoppugnabile e raro documento di un mondo soppiantato
da un altro, vincente perché seduttivo, ma amorale, superficiale, veloce e
smemorato.
Intanto l’Autore, findall’esordio
è già tutto dentro il suo luogo e il suo tempo primigenio, quieto paese di poche anime con le “rughe” strette ( sarebbero
“arrugas” per noi sardi) e le diverse loro animazioni secondo il levare e
declinare del sole: paese-mondo.
Capitolo dopo
capitolo, ciascuno contrassegnato o annunciato da un motto allusivo o
immaginifico, si srotolano le figure mobili di un arazzo che emana suoni, odori,
che si illumina colorandosi o mimetizzandosi nella tinta prevalente d’un
sentimento percepito come corale, si abbuia popolandosi di bisbigli e di ombre.
Instaura un tempo lento la scrittura di Franco
Pagnotta, tale che le sue scansioni, malgrado il comparire e lo scomparire delle
figure, persino drammatico ma senza drammaturgia, sembra non alterare una sorta
di fissità da presepe, notturno, diurno, con neve, con pioggia, con sole… Gli
interni sono volteggi d’ombre: mani, fronti, sagome chiuse in atti semplici e
insieme contegnosi, umide luci di occhi al tremolio di candele. In questo
durare del vivere nella bolla allucinata del borgo contadino, nondimeno si
sogna: si sogna il buon raccolto che la grandine distrugge, si sogna la tavola
imbandita abitualmente sguarnita, si sogna un giocattolo che resta appeso al
cordino del giocattolaio, si sogna la pace e intanto si va in guerra o si
scontano i suoi esiti, si sogna una vita lunga, per quanto difficile e
duramente ripetitiva, ma da consumare con ostinazione nel cerchio familiare e
nella relativa uguaglianza nella miseria dei compaesani e invece si muore da
vivi nell’emigrazione.
A mano a mano che la
memoria fluisce nella pacata discorsività della scrittura, avverti la sua cadenza
di canto che si deposita come retaggio etico ed epico, preteso attestato di
realtà, ma anche e sopra tutto condensato di valori assoluti e termine di
confronto (però già ipostatizzato e perciò perso) con il mondo-altro che
l’Autore evoca in allusioni fantasmatiche e negative, quasi che un demone perverso l’abbia deposto
e disposto alla distruzione del virtuoso, mite, benevolo e pacifico mondo dei
cafoni, condannati, non si sa come né perché, alla loro insensata e fatale
povertà.
Come poema -
elaborato, articolato e passato attraverso il filtro personale, talora onirico,
a tratti d’una intensità struggente, sempre nostalgico e mitopoietico - il
testo si dipana e fluisce tramite un uso del linguaggio sorvegliatissimo e
sapientemente modulato, che prende andamento pacato di magro fiume di piana a
lambire atmosfere narrative e descrittive di densa tenerezza.
Ma questa appena
detta, che appare ed è una qualità della scrittura di Franco Pagnotta, a mano a
mano che il tessuto dell’opera fluisce verso la chiusa, si aggruma talora in
ridondanza sentimentale. Essa è poeticamente giustificata finché l’io
narrante–poetante ricopre il ruolo di fanciullo ingenuo e sognatore, diventa
astrazione ideologicamente sovradeterminata quando l’io poetico vestendo i
panni dell’adulto giovane al compimento degli studi superiori compiuti fuoriborgo
– lo si vedrebbe smaliziato circa l’interdipendenza delle disparità
sociali e dei loro differenti modelli
culturali - sembri incapace di considerare realisticamente le sue esperienze,
tanto da gettarle, quasi da ottuagenario, nel buio utero della più buia
nostalgia.
Ci saremmo aspettati
che l’Autore, pur salvando l’incanto degli
amorosi sensi relativi al paesello, elaborasse
narrativamente e poeticamente più mature e “pensate” relazioni socio-storiche (e, lato sensu, politiche) che articolavano
due realtà solo astrattamente antinomiche e contrapposte.
Ecco che il discorso,
invece di asciugarsi in un quadro narrativamente e dialetticamente propenso a
cogliere un minimo di oggettività, si
restringe quasi soffocato da un eccesso sentimentale con effetti distorcenti che ledono la resa artistica. Il peso non
sorvegliato dell’atteggiamento pre-giudicante combinato con le prescelte
soluzioni formali azionate dall’enfasi affettiva, imprime al discorso una
notevole divaricazione rispetto al contenuto
(condizioni reali e cause), posto in posizione recessiva, misconosciuto,
quasi convitato spettrale al festino insistito dei sentimenti, indicato come dato impenetrabile, mezza verità,
bloccato rispetto alle sue spinte dinamiche (disagi, desideri, tensioni) verso
l’incontro con la parola di verità, quanto si voglia partecipata e,
narrativamente e/o poeticamente, risolta.
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