martedì 27 agosto 2024

COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per i ritorni" - Romanzo di Bianca Mannu

 

Cosmo

La sorte ha fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi genitori materni. Perciò il mio ombelico mentale e affettivo è, fin dai miei primi anni, la casa di nonna Annetta con quanto ci stava dentro e attorno.

Proprio quella casa, con tutte le sue pietre, usci, angoli e meandri, con tutte le voci umane e animali, con tutti i rumori, con tutti i suoni, gli echi e i tramestii, con tutti gli odori e i sapori; con le ore del giorno alle sue porte, con le notti da presepio senza vento sul tetto, col cielo appoggiato sui pianori dei colli circostanti come il prezioso coperchio d’una scatola di fango dissimulato nel lucore rossastro dei lumi, con le minuscole inferriate a croce per il cui mezzo la casa si affacciava sul retro, offrendosi avaramente all’incanto dei pleniluni spalmati sull’oliveto d’argento, immobile come un reperto nella sua teca. Quella casa, dalla geometria primordiale, aperta ai quattro punti cardinali, eppure difesa dalle sue “amazzoni” (nonna Annetta e le ziette), ora esiste tale solo nella mia mente, perché l’ho amata e coltivata nella memoria, quasi come “su log’e s’anima”.

E ho amato il fangoso paese che la conteneva – Gesòli - di cui la casa dei nonni era una specie di centro sociale e commerciale e, direi, anche un portale d’ingresso e di vigilanza verso stranieri e forestieri, aggressivi o mansueti che fossero.

Ho amato la sua gente, non come folla, ma come persone individuate e individuabili; anche quelle che m’incutevano qualche timore. Forse perché erano osservabili da vicino? Non so.

Faccio un esempio: tziu Cosiminu. Tziu Cosiminu Prata. Lo designavano così, col nome e col cognome.

Sentito pronunciare più volte, senza aver individuato la persona, un nome così mi parlava di bonomia, mi evocava un’immagine ilare, amichevole.

Ed ecco che una sera, ospite dei nonni, avevo percorso in discesa la piccola rampa di scale che dalla lolla menava alla pedana di legno posta dietro il bancone della mescita. Credo che mi fossi soffermata sul penultimo gradino per vedere meglio e anche per essere meglio notata. Perché le mie apparizioni erano oggetto di notifica e di convenevoli da parte di diversi astanti.

“Ah, ahn! Teneis istrangius! Sa pipìa de Domtiilla, beru?” rivolti alla zia Dora. E a me: «Come ti chiami? Ti piace stare dai nonni, eh? E Gesòli? Ti piace Gesòli? Gesòli è una città … eh eh?  Che … se ne trovano poche. Vero?».

Ecco, io esistevo! Non ero un ente senza consistenza e senza ombra, come in genere succede ai bambini, specialmente a quelli poco fastidiosi. Mi si chiedeva inoltre del babbo, della mamma, mi si raccomandavano i saluti per loro. Ne ricavavo una sensazione così netta e bellissima, come in nessun altro luogo e in nessun altro tempo mi è accaduto.

Però quella particolare sera c’era molta animazione - ignoro il perché - tra gli avventori della mescita, disposti in gruppetti circolari, bicchieri in mano. Fra costoro notai una persona che mi pareva discordante rispetto al contesto. Infatti il suo cranio calvo e la sua faccia erano bianchi e lucidi a paragone delle altre facce e degli altri crani, cotti dal sole e segnati dalla fatica.

Aveva un grosso ventre sulle gambe corte, indossava calzoni, panciotto e giacca di panno, invece che brache di fustagno coperte di toppe. Ma ciò che m’incuriosì erano una specie di barbetta a collana che gli cerchiava il grasso collo da un orecchio all’altro e due occhialini pinza-naso assolutamente alieni rispetto alla mia esperienza in fatto di occhiali. Da lì scoccava l’occhiata arcigna dei suoi piccoli occhi puntati su di me in modo malevolo, mi pareva.

Mi sarei aspettata di sentirgli usare un idioma forestiero e insieme autoritario come la sua espressione; oppure sonoro e un po’ arrogante come quello dei castagnai e dei “gabilli”.

Sì, perché anche costoro affollavano al momento la mescita. Arrivavano dal “Cabesusu”, conducevano le greggi a svernare attraverso la Trexenta nel Campidano, al pascolo brado. Tornavano d’estate, dopo il raccolto, per il pascolo delle stoppie.

Invece l’uomo parlava con lo stesso accento dei locali, senza un briciolo di prestigio in più nel tono; piuttosto con maggiore rozzezza, mi parve. Conclusi che era un cittadino di Gesòli. Perciò mi avvicinai a zia Dora e all’orecchio le chiesi chi fosse “quell’uomo cattivo”.

«Cattivo?» E zia Dora passò in rassegna i clienti con un’occhiata. «Indicamelo. Ma non fare gesti, eh!»

«Quello con gli occhialini», le soffiai tra i capelli.

«Ma, no. Quello è tziu Cosiminu Prata. Sembra a te così, ma è bravo». E mi sbolognò dal bar.

Qualche anno più tardi realizzai di aver trovato il sosia vivente del ritratto di Camillo Benso, Conte di Cavour, stampato in un mio libro scolastico.

Capitò anche che fossi mandata a casa sua, una volta: la zia Dora gli inviava per mio tramite il suo orologio per una riparazione.

Non mi rendevo ragione del perché lei prediligesse gli orologi maschili, pur essendo la gemella di zia Ottilia e si abbigliasse come lei, molto femminilmente, per la messa della domenica. Vero è che, a una mia più matura osservazione, zia Dora appariva alquanto impacciata e quasi fuori posto dentro le sagome di certi vestiti destinati a sottolineare il portamento femminile e a esprimere un buon pizzico di elegante civetteria. Proprio questa mi affascinava invece in zia Ottilia, combinata con quella sua voce sommessa, ma limpida, e quel suo fraseggio signorile, quasi mai brusco. Zia Dora aveva invece un parlare sbrigativo, secco, che non ammetteva repliche; e per quanto fosse piccola e esile, manifestava un contegno spigoloso e poco aggraziato. Dunque, malgrado la gemellanza, le due ziette si somigliavano poco ai miei occhi. E ancora meno quando, in virtù della tradizione e della moda paesana, uscivano insieme abbigliate, calzate e incappellate in un’identica foggia.

Quanto al signor Cosimino (mai avrei dato dello “zio” a quell’uomo!), in quella circostanza fece mille convenevoli e cerimonie, idealmente destinati alla committenza, a cui opposi un assoluto mutismo costringendolo a un rapido commiato. Capii che non era orologiaio di professione, ma “per passione e per compiacere le amicizie di riguardo”. Così aveva detto stringendo le labbra con sussiego e come rivolto a un pubblico che non vedevo, ma parlando italiano, questa volta. Però, tanto allora che dopo, conservai nei suoi riguardi la prima negativa impressione, non del tutto esente, nel seguito, dagli effetti di certi liberi discorsi che mia madre intrecciava con sua madre o con mio padre.

In effetti il vecchio orologiaio, tziu Titinu Porru, era morto e non ve n’era un altro in paese. In tal modo Cosimino Prata arrotondava il suo non troppo lauto stipendio, senza dare a intendere di averne bisogno e poter ben figurare nel gruppo dei notabili.

Era, niente meno, un impiegato del Comune. Sedeva alla scrivania di un ufficio pieno di carte legate con dei nastri anneriti. Intingeva la penna dentro grossi calamai di vetro e ogni po’ dava dei colpi secchi di timbro sui fogli. E quella volta zia Dora ne ebbe uno che arrotolò con cura dentro un altro foglio, per il quale ringraziò con deferenza prima di congedarsi.

Era questa la ragione della pallida e pingue burbanza dell’uomo e del suo distinto, ma frusto, abbigliamento.

In coincidenza mi torna distintamente alla memoria anche tziu Titinu, perché, sordo com’era, si faceva gridare le parole dentro una specie di trombetta che teneva appoggiata all’orecchio. Ciò mi meravigliava non poco. E così una volta mi ero accostata a lui per veder da vicino quel curioso strumento. Egli mi fece della domande e io, per rispondergli, mi vidi costretta a guardare il lungo e folto pelame delle sue orecchie. Non fu un bel vedere. Ma in compenso tziu Titinu aveva un sorriso angelico e di lui altro non vidi né seppi.

Invece, anni dopo – non ricordo più circostanze e ragioni - capitai più volte nella casa del signor Cosimino, in sua assenza e in sua presenza. Forse avrò frequentato qualcuno dei suoi figli minori di cui non conservo alcun ricordo. Ma rammento bene che in quelle occasioni potei avvertire, in modo quasi palpabile, la tensione di ansia che la sua sola ombra proiettava sui suoi familiari. Al suo sopraggiungere tutte le voci si affievolivano e subito iniziava nei suoi confronti una specie di pantomima di atti servizievoli e di untuosa affettività.

Mi capitò di osservarlo mentre serviva messa o partecipava ai rosari e alle giaculatorie (poiché nonna Annetta esigeva che io frequentassi i riti parrocchiali durante la mia permanenza a Gesòli). Ebbene, facevo confronti. Gli uomini – anche quelli molto devoti – erano composti e un po’ rigidi. Lui, no. Si prostrava, atteggiava il volto alla beatitudine delle statue dei santi. Insomma, i suoi atti di devozione mi parevano carichi di svolazzi che neppure il prete.

Tutta la sua famiglia, del resto, era mobilitata nei servizi ecclesiastici. Lui dava ordini al campanaro e controllava il funzionamento dell’orologio del campanile. I figli maggiori - un giovane e due ragazze, molto somiglianti fra loro, ma fisicamente allampanati e unti come la loro madre - cantavano nel coro e ripetevano il catechismo ai più piccoli. Ma il giovane suonava anche l’organo a canne durante i riti cantati. La moglie non faceva niente. Con i piedi pesanti e il capo piegato a nord-est, era come un’ombra di martire ai piedi del pulpito.

Nessuno di loro aveva negli occhi una luce di gioia.

Una volta, mia cugina Marianna (nella circostanza lei poteva contare allora circa dieci anni d’età e io qualcuno di meno) mi spifferò maliziosamente all’orecchio che la zia Dora amoreggiava con l’organista. Non le credetti. Zia Dora, la carabiniera, capace di ridurre alla timidezza gli ubriachi?! Lei era ai miei occhi refrattaria a ogni smanceria affettiva. Io, che andavo al cinema di Vineanova con i miei genitori, sapevo bene con quale languore le donne dei film abbracciavano i loro innamorati!

Nessun riscontro decisivo si palesò a favore o contro le nostre infantili illazioni e, naturalmente, l’argomento fu presto dimenticato.

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