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Invece quella
sera speciale, di cui ho iniziato a parlare, la macchina organizzativa
familiare andava a meraviglia. Perciò io quietamente occupavo la mia posta
ludica e di osservazione nella “lolla”. E anche quella sera, come forse altre
precedenti e certamente posteriori, Marta si dava da fare per apparecchiare con
tutti i crismi delle grandi occasioni, così come nonna esigeva. E perciò aveva
portato sul tavolo il cestino delle posate cesellate che qualche ora prima
aveva trattato con la cenere e l’aceto. E ora le osservava alla luce della
lampada facendole balenare per cogliervi qualche eventuale opacità, che
peraltro si affrettava a eliminare alitandoci sopra e strofinando con un
tovagliolo immacolato.
Aveva sistemato
anche la sedia per nonno Augusto. Pur essendo simile ad altre, giudicate più
comode fra tutte, quella di nonno si distingueva per certi segni tattili che
sapeva solo lui; perché ci teneva appeso il bastone quando si muoveva
liberamente nella lolla;
perché sul suo fondo ci stava legato un cuscino. Però questa volta il cuscino
non era il solito cuscino liso e anche macchiato, ma era rivestito d’una fodera
nuova che mi pareva ricamata e molto bella.
Intanto che
percepivo con i sensi e l’aiuto della memoria quanto entrava nel mio raggio, mi
dedicavo al mio gioco preferito: quello di accostare le sedie a formare una
specie di lettuccio. Mi ci arrampicavo e acciambellavo avvolgendomi nel drappo
di ciniglia. Le sedie, ai miei movimenti, si scostavano. E io ricominciavo da
capo, finché mi stancavo e mi lasciavo cogliere dal sonno. Ma quella sera,
essendo presente anche mio babbo, non volevo addormentarmi. Così, quando Marta
pietosamente cercò di portarmi a letto, io mi ribellai gridando: «“Voglio
esserci anch’io!». Lei mi mollò e sparì. Forse mi appisolai ancora sulle sedie
e dentro il drappo. Ma poi, come risvegliata dalla densità del silenzio che si
era prodotto nella mescita e che tracimava nella lolla, senza essere seguito dall’atteso brusio indicante
l’irruzione della famiglia, la chiamai a gran voce. Uscì a razzo dal
dormitorio delle zie recando non so che panno o asciugamani.
«Dove sono tutti?» le chiesi.
«Ah, dunque sei proprio sveglia! Sono tutti di là, nel salotto buono».
«Tutti là? Anche babbo e mamma?»
«Certo».
«Ci sono i Finanzieri?»
«Ma no, che dici! C’è il fidanzato di tua zia Irene … Anche i parenti e
la pronuba. Vieni, dai!»
Tutta la
famiglia s’era raccolta lì con gli ospiti. Evidentemente erano entrati dal
retro del Tabacchi e nella confusione dei convenevoli s’erano un po’
dimenticati di me.
C’era una
foresta di piedi che si spostavano con riluttanza verso le sedie e un confuso
stormire di voci che andavano affievolendosi per fare posto a voci soliste che
scandivano le loro battute, cui faceva
seguito il coro delle risate e dei commenti. Quando si fece un po’ d’ordine,
presi posto sulle ginocchia di babbo e mi guardai intorno. Mancavano zia Daria
e suo marito, Amelio. A mio modo sapevo fare i giusti conti. Però non avevo
ancora realizzato ciò che col tempo mi divenne, inequivocabilmente, chiaro: che
i due erano “la bestia nera” di mia madre. E, perciò, dove era presente l’una
gli altri non si mostravano, e viceversa.
Dal chiodo di
quell’assenza vedevo anche pendere - momentaneamente innocuo - l’ambiguo senso
di certe ruvide espressioni materne al mio indirizzo, quando, in casa, a
Vineanova, ne avevo combinata qualcuna.
Al momento,
stando alle apparenze, nessuno sembrava notare o risentire della loro mancanza.
E io facevo solo il notaio per mio conto.
C’erano - quella
sera - parecchie persone a me ignote, da cui ebbi distratte carezze sui
capelli, e c’era, ovviamente, il famoso fidanzato di zia Irene, Rinuccio. Il
quale, senza colpa alcuna, destò in me un’istintiva, immediata, inspiegabile
avversione. Ricordo nitidamente questo mio sentimento, perché un evento
successivo e imprevedibile mi costrinse a far pace con la sua immagine.
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