lunedì 13 aprile 2015

La poesia “non serve” a niente.- Come un borborigmo di Bianca Mannu


Sembra una bestemmia, ma non lo è, nel senso che la poesia “non serve” non pùò “stare a servizio” di alcuno o alcunché, altrimenti non è. Vive senza rossori quella che doppiò i passaggi al limite di tale non voluta condizione.
Prescindendo dalla discussa e discutibile categoria estetica del «bello stile», comporre testi “con le righe corte”, o esercitare altre attività, non destinate alla sussistenza materiale o al raggiungimento di fini esterni a esse, vale per la gioia, per la passione, per il gusto e il tormento di quel fare, che non è strumento per altri fini, a meno di aggiungerli  in subordine
Invece parecchie persone non comprendono perché ci sia chi spende il suo tempo in cose così inutili come le poesie, mentre – sempre secondo costoro - vi sarebbero tante cose utili da fare per rendere comoda la vita propria e altrui; come se dal canto loro non si registrasse mai dispersione di tempo in attività “inutili” o semplicemente ricreative. I più, mentre moraleggiano sull’utile, concepiscono le loro ricreazioni come consumo di cose, in cui l’attività del pensare resta sospesa a una goduria vuota, a uno sbadiglio.
Riferisco alcuni stralci di conversazioni.

Qualcuno osserva: Le poesie non sono neppure come un racconto, che di solito è una storia scritta in modo comprensibile. Invece non sai mai bene di che argomento parlino, le poesie. Anche l’ordine delle parole è tutto scombinato. E tu devi fare una fatica del diavolo a riordinare tutte le parti del discorso come Dio comanda per capirci alcunché. Sono perfidi i poeti.

Però – dice un altrole poesie che  esprimono sentimenti ed emozioni attirano e qualche volta ti accorgi che certi sentimenti espressi con così belle parole sembrano essi stessi belli, dolori e sofferenze comprese. E allora ti identifichi. Inoltre ci sono poesie che ti dipingono paesaggi molto gradevoli: sembrano acquerelli, raffinati dipinti.

Dice un terzo: Allora preferisco il dipinto e non un succedaneo. E poi, che cosa intendi con “belle parole”, le frasi incomprensibili?

Il mio momento di godimentoassicura un quartoio non voglio sciuparlo andando dietro a un segno muto che mi propone dei rompicapo a ogni riga. Io voglio  godere in compagnia  e voglio qualcosa che arrivi dritto all’ orecchio e al cuore e magari accenda la mia voglia di muovermi.

Bravo! – Esclama un quinto – Sono d’accordo con te. Io credo che le sole poesie che meritano attenzione e passione siano le canzoni. Le ascolto dovunque e in continuazione. Se sono in lingua straniera, mi godo solo la musica e il ritmo.

La discussione potrebbe continuare all’infinito. Qualunque cosa si voglia intendere con “poesia” pare che la sola parola evochi in un buon numero di persone moti di sospetto e di rifiuto.
Or bene, il punto di vista, secondo cui abbiamo cose ben più utili da conseguire, riposa su una concezione strumentale della vita e del senso attribuitole. Si basa su uno schema povero che non contempla il forte contributo dato dalle attività di immaginazione e di operatività non finalizzate, libere, alle risoluzioni ben riuscite di problemi assai spinosi della vita umana  
Sono convinta che le opinioni sopra riferite e altre consimili sono l’esito di un miscuglio deprecabile di atteggiamenti culturalmente indotti, quindi non reminiscenze di primitivi e rozzi pregiudizi cronologicamente obsoleti, ma il prodotto ambivalente e confuso della civiltà(!) presente, tutta involta nell’ossessione monetaria che strangola le genti.
Quei discorsi fanno tornare in mente quell’atteggiamento che, non molti anni fa, ho osservato da parte di adulti verso i genitori di quei figli maschi che frequentavano le scuole di danza. La danza, a differenza della poesia, si poteva proporre come professione a tutti gli effetti, benché di esito avventuroso. Tuttavia allora, chi avviava i figli maschi in quella direzione era guardato come se li volesse femminilizzare o sollecitarli alla (dio salvi!) pratica omosessuale. «Fare il ballerino» era contiguo a «fare l’attrice» e entrambi erano pensati come abbastanza prossimi alla professione delle meretrici, sia pure di un certo rango.
Ma «fare il poeta» era un’espressione ancor meno diffusa e tollerata nei ceti medio-bassi della società e certo neppure indicava un’attività apprezzata; ancora maggiore sprezzo era posto verso la ragazza che avesse dichiarato di voler «fare la poetessa» e non la madre di famiglia o la suora.
Un’attività così, slegata dalla ricerca del guadagno era pressoché inconcepibile per un giovane “normale”,  a meno che non fosse praticata da un ricco nobile, cui per privilegio di classe, era lecita ogni stranezza. Dunque essere/diventare poeta, fra coloro che dovevano guadagnarsi la pagnotta lavorando, implicava essere piuttosto uno scioperato inconcludente.
Ancora adesso il comporre versi  non è considerato, da noi in Italia, una professione. Non dà reddito, perché pare che i testi in versi non siano ben accolti nei mercatini rionali o nei market, dove circola gran folla. Ciò non m'inquieterebbe se non intuissi l'approfondirsi dello iato tra le culture così dette di nicchia e la cultura di massa sempre più svilita ed evasiva come un placebo che deve addormentare il tormento di vivere in deprivazione.    
Quando i giovani vengono interpellati circa il loro destino professionale, nessuno dichiara apertamente di voler diventare poeta. E perché mai dovrebbe, dato che la poesia, in qualunque veste non spettacolare, non è un bene d’uso, “non serve” a creare uno status? Divenire  cantanti, sì, personaggi dello spettacolo, sì, modelli  e indossatori, sì, magari per raggiungere la pur breve notorietà tramite una "comparsata" negli show. Perché se hai il fisico, la loquela te la fai sul campo e così il repertorio da mostrare e i trucchi del mestiere, e quando sei nella ruota, incroci la domanda del gran pubblico. E allora tutte le sciocchezze che dici e fai sono per un momento quasi vangelo. Puoi firmare un libro sulle tue gesta private coi particolari in cronaca, troverai l'editore, invaderai  gli scaffali di librerie e supermercati, presenzierai come autore nei talk show.
Malgrado le note controindicazioni, qualche schizzato insiste nel voler fare poesia/ versi e di voler dedicare a tale attività, compresi studio e riflessione che vi  si collegano, tutto il suo tempo.
Se sei di questo avviso, dormi poco, frequenta libri, maneggia carta e penna e cimentati, dopo il lavoro e nelle pause festive consentite. Vedi se ciò che emerge rinforza il tuo intento.  Magari sul momento ti servirà da consolo e lo scalderai per un’esito possibile come il sottotenente Drogo  scaldava, morendovi, il suo eroico scontro con i Tartari.
Se ami la concretezza, se hai abbastanza soldi o una famiglia che foraggia i tuoi  “capricci”  e “sperimentalismi vuoti”, puoi affittare un locale e sul frontespizio dell’ingresso puoi affiggere un’insegna:
«POETA» Poesie per ogni occasione! Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – promozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi personalizzati. per ogni Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – prmozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi t
Ecco, t’inventi una nuova professione!
Qualcuno leggerà l’insegna e cercherà di dare una sbirciatina per farsi un’idea dell’allestimento, ma sopra tutto vorrà adocchiare la faccia del pazzoide che si propone. Ma non è detto che le commissioni non arrivino, per esempio, ad opera degli strambi danarosi che vogliono stupire gli amici e magari appioppare loro una propria foto con didascalia in versi.
Costi personalizzati hai scritto? Dovrai essere competitivo rispetto ai prestampati del trend commerciale. Dovrai inventarti un cottimo.
E così, da poeta ti trasformi in artigiano-scriba di te stesso, alle prese con le ballate e gli strambotti e le ineludibili esigenze e scadenze imposte dai committenti. Se reggi e se gli affari crescono, puoi sempre assumere poeti salariati e mettere su un’industria niente male, con tanto di catena di montaggio.  Ma di essere poeta già hai cessato da un bel po’.
Dunque non si può essere poeti al ritmo (presunto) industriale, a meno di replicare in copia il tuo limitato prodotto in “giambi ed epodi”, lasciando al compratore/lettore il compito di personalizzare, cioè di mettere del suo nell’interpretazione del testo. Ciò che già avviene ad opera di quelli che leggono e regalano libri di versi, ma in piccola percentuale. Infatti i libri di poesie restano per gran parte invenduti, perché leggere poesia significa soggiacere all’esigenza di decodificare con senso, cioè, come sopra, “personalizzare”.  
Chi può personalizzare, cioè smarcare sul testo il suo testo? Colui/colei che si avvale di una pre-formazione educativa, della sensibilità e della  cultura di base aperta a una dimensione di senso che non prevede il semplice consumo, ma il godimento dell’inquietudine e della ricerca di quanto, di sé come altro, nel testo si allude o si elude, si dice o si tace, si libera o si inchioda. Può, chi sa interrogarlo e magari scuoterlo e farlo suonare e vivere con la propria vita. 
Ecco, la “voglia di assaporare poesia, di chiedere poesia alla poesia” non nasce come il pelo sulla tua pelle; piuttosto implica una formazione culturale che neppure cresce negli orti o nei vasi dei balconi.
Mia cara italianissima Patria, culla di poeti eccelsi, come puoi coltivare una pianta così nelle scuole-pollaio? Come farla fiorire tra la ferraglia che si dice trasudi “valore aggiunto” debordante profitto già infeudato, o pensare che si possa pomparla e vendere come fosse petrolio o anche propinarla come si vendono ai turisti i paesaggi ritoccati in cartolina sul Web?  
Dunque la famosa frase del poeta latino Orazio - Carmina non dant panem – continua a funzionare adesso come allora.
Infatti i poeti diventano poeti gestendo in sordina la propria poeticità (bulbo delicato), intanto che praticano l’insegnamento, magari di letteratura e critica letteraria, ma persino di storia, di psicologia, di architettura, nelle università o altrove; e ve ne sono altri, maestri e prof., glottologi e linguisti travestiti da precari, persino economisti e filosofi, ingegneri e consulenti d’affari, attori, registi e – chi sa? -presidenti di società partecipate e altri che intanto fanno i giornalisti, altri i contabili presso supermercati e grandi magazzini.
Tutti costoro hanno intanto, come tutti, un corpo vorace che corre dietro al pane ed eventuale companatico. (Per carità di Patria, evito di accennare al mecenatismo istituzionale!) Dunque anche coloro che scaldano il sogno di divenire “poeti per i non poeti”  ed eventuali fruitori, sono costretti a fare i poeti della domenica e dei sonni brevi. Finché direttamente, ma sopra tutto indirettamente, i sopravvissuti dell’avventura (siano solo poeticamente morti  gli altri!) non incontrino il vento buono, non tanto del mercato, quanto piuttosto dei circoli e delle riviste specialistiche. Lì talvolta, sebbene non frequentemente, (se il bulbo poetico non si è infrollito) è possibile mettere insieme pane, companatico e altro ancora, persino con i versi in cima.
Lì, forse, la poesia, se non ha gemmato, forse gemma. Ma quando, dove e come gemma, non si sa. Nessuno pare in ansiosa attesa del verso che verrà.
Nascerà quasi di certo una piccola foresta di poeti colti che si leggeranno reciprocamente nei salotti buoni di gente altolocata, lucida ben vestita e profumata che discuterà in punta di forchetta le figure allusive, gli anacoluti, le anastrofi col seguito di epistrofi e assonanze… Qualche verso farà di certo il botto con l’onda lunga che minacci di uscire dal cancello… «Bello! Bello!» E intanto  col seguito di «oh», la bella gente si osserverà scambievolmente trucco, toilettes e indizi di sociale promozione,  degusterà cibi sopraffini e nettare di- vino.

E i poeti? La loro carriera l’hanno fatta, se l’hanno fatta, in un altrove impoetico. A filo di arenili, in acque. Acque mosse dai sussulti delle borse piene di opzioni per i prototipi e i modellini di mirabolanti gadget, virtualmente pronti a moltiplicare la forza di lavoro di sparuti (e fortunatissimi!) drappelli di tecnici e operai in tuta bianca, dove, tra torme di naufraghi di tutte le professioni, oscilla alla deriva come  un’ inservibile scialuppa, la poesia.

sabato 4 aprile 2015

Ballata dei “penultimi” - inedita di Bianca Mannu


Un tetto sulla testa
e sotto il vecchio corpo
gonfio di sonno ancora
difendo – caldo – un letto
fornito di coperte -
lenzuola di bucato.
E ancora sopra –
come viene sera –
il mio tiepido affetto
dispone uno stuoino -
morbido e di formato esiguo -
per il sonno e le moine
del mio tenero gattino
di velluto bicolore
nari rosa - ammaliatore.

Anche oggidì com’era ieri
il mio pasto appresterò
se il mio denaro non darò
al gratta e vinci del gabelot
ed il suo – del micio intendo –
dal mio boccone toglierò
in cambio della gioia
per il suo ron ron.

Per oggi e per i trenta
prossimi tramonti
pagati mutuo e  condominio.
Né per fissa o schizofrenia
le quote metto nella scansia
per acqua gas ed energia.
Ficco in busta ricuperata
piccole pile di nichelini
per il mio traffico in telefonia.

Sottraggo preliminarmente
 fin dal giorno di Sanpaganino
una quota un po’pesante-
quella inerente la salute
medicamenti e terapie di conforto.
Penso proprio non farne a meno
fino a che… non sarò morto.

A giusto proposito – e non per facezia –
ancora sottraggo questa  inezia
 (e mi prendo tutto l’agio 
per adeguare adagio adagio
il colmo al tempo del “mai danno”)
per il  prezzo della bara
con doglianze e esequie incluse –
scelte tra le più parsimoniose.

Questo – sia detto per inciso –
perché voglio che la gente
assegnata a mia cura in  sorte
non affretti la mia morte
né troppo soffra la premura
per il costo eccessivo
di mia eventuale… sepoltura.

Infine sento l’obbligo morale -
la morale è al presente 
un problema personale –
… Sento l’obbligo di fare
 uno storno generoso
per mio figlio inoperoso
e per la suocera esodata
dalla legge di Fornero.
E per questo mica basta
solo spremerci un pensiero!

Né più mi basta la pensione
Ancora per questo lavoro a ore
e la paga arriva in nero.
Sono perciò anche evasore.

Temo ancora di  sapere
che alla fine delle fiere
mancherà uno spiccioletto
– che so?- per il caffè domenicale…
Per il cine o per teatro … Manco detto!
Devo inoltre defalcare
euro  dieci ciascun mese
per il canone TV
ch’è il mio unico giornale
mia sola fonte culturale!

E i libri? – domandate.
Certo i libri sono pane
per la mente … 
Ma adesso siamo gente
che non può pensare a niente.           
Imbestiata nello sbarco del lunario-
stiamo in braccio dell’erario.
Siamo gente ormai sconfitta
gente da “finale di partita”.

Eppure eppure eppure - 
sono forzato a certe misure
draconiane nelle spese
che saltano fuori a fine mese.
Confesso che una quota delle verdure
viene dai mucchi di spazzatura
e che gli scarti del macellaio
li addebito al gatto
che non testimonia né fa il notaio.

Il tempo passa e non giunge a Cadice
Doppiati in apice
i passaggi al limite
della sopravvivenza –
facciamo scienza
dello scampare nuovi accidenti
dei paradossi pecuniari 
nello smussare unghie e denti
ai conti dell’algebra sociale
nel confondere resti ed esiti
dell’aritmetica personale!

Anche il respiro divide in quattro
l’io infurbito  e vanta questo:
“Permanendo tale contesto
sono contento che non accresco 
la triste fila dei barboni
la torma di larve
che dorme in cartoni
non i drappelli degli abusivi
ritenuti molto invasivi
né la coda degli affamati
presso le mense e i patronati.

Se stringo il morso ai miei bisogni -
se ogni mio volo ho nel fango annegato
se tra le ortiche ho mollato i miei  sogni -
sono e mi sento – non dirò emancipato
dall’orda  grigia dei “vivi a perdere” -
ma - sia pur precariamente - 

traverso i tanti disagi… fortunatamente!


Nota. "Lunga, troppo lunga", obietterà qualcuno. "Per essere in forma di poesia, non è neppure poetica", dirà un'altra. 
Tutto vero, dico io. E aggiungo che non mantiene neppure  le rime, cambia di ritmo e in certi punti arranca faticosamente.
 Ma provatevi a negare, voi che avete il cuore tenero, che la vita dei poveri diavoli abbia dei ritmi perfetti e si presenti con un'estetica inappuntabile.
Il povero diavolo è in genere abbastanza inerme, perché impotente a mutare con un atto di volontà la sua sorte. Ma non ditemi che non è arrabbiato col mondo e con i suoi simili. Quando gli attribuiamo dei sentimenti teneri per i suoi aguzzini anonimi, o è psicologicamente, diciamo debole, oppure la nostra cattiva coscienza finge di credere che lui sia contento così.


giovedì 2 aprile 2015

Proposta per una interessante lettura: LA SOCIETÀ INDIVIDUALIZZATA di Z. Bauman

Riporto un breve passo dal capitolo Usi della povertà:
«Sappiamo che, svincolata dalle briglie della politica e dai condizionamenti locali, l’economia in via di rapida globalizzazionee sempre più extraterritoriale produce differenze di riccheza e di reddito sempre maggiori tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della popolazione mondiale, così come all’interno di ogni singola società. Sappiamo anche che essa emargina fette sempre più consistenti della popolazione, le quali non solo sono costrette a vivere in povertà, miseria e indigenza, ma anche permanentemente espulse da quello che la società considera un lavoro economicamente razionale e socialmente utile, e in questo modo rese economicamente e socialmente ridondanti.»

Ecco sinteticamente quanto mi pare di aver capito di questa preziosa raccolta di saggi

Il mondo contemporaneo presenta una complessità inedita.  Esso prefigura destini orrendi per una parte rilevantissima di esseri  umani, se questa stessa umanità non si rende ragione dei meccanismi emarginanti in atto e s’imbestia nel restare prigioniera dell’idea che il gioco economico del profitto decide di tutto, e in forza di tale condizione, imposta dalla struttura di potere, tollera come conseguenza razionale che un gran numero di esseri umani risulti ridondante, ossia destinato al macero della condizione di povertà e depressione, come esito ineluttabile.
Questo, speriamo  eventuale, destino non è per nulla inscritto  nel così detto progresso tecnologico, né nel naturale egoismo degli umani e dei gruppi sociali che competono  per  mettere le mani sulle risorse- queste sono solo conseguenze di un meccanismo più pervasivo, anonimo e potente che imprime la sua logica a tutti gli aspetti della società. Il motore è la ricerca del massimo profitto  tramite il mercato, cioè lo scambio di ogni cosa usabile contro denaro reale o virtuale, il quale è esso stesso merce dematerializzata,  convertitore universale di ogni altra cosa o animale o persona o parti di essi in quanto merce.
Chi ha molto  denaro  può vendere denaro e fare grandissimo profitto, senza produrre qualità di valore aggiunto, con l’agio pagato dai compratori di denaro. Da me, per esempio, che chiedo il mutuo per la casa o per mettere su il mio laboratorio di sartoria o un’officina per riparazioni.
Che cosa avviene alle persone che entrano nel mercato come venditori di merce/lavoro non richiesto, non in corso o deprezzato? E a quelli stessi che per iniziare un’attività hanno acceso un prestito e poi non realizzano?
Pure i bambini lo sanno: costoro non possono accedere  allo stesso mercato in veste di compratori. Nello stesso tempo sia pure proponendosi come liberi venditori di abilità lavorative, non trovano chi voglia acquistarle. Ciò significa che tali soggetti rimangono ai margini del mercato o ne escono totalmente, vivendo molto precariamente di sussidi, finché i sussidi e supporti personali ci saranno.

La distribuzione delle risorse per accedere ai consumi  è dunque ineguale. Ma l’inegualglianza si è approfondita in misura abissale coinvolgendo una grande massa di persone – i poveri . Questa massa cresce e minaccia di non poter più essere riequilibrata, anzi è già divenuta strutturale.

Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che il meccanismo della necessaria ridistribuzione dei beni e dei servizi prodotti  è strutturato in un modo tale che la ricchezza continua  ad accumularsi in modo esponenziale, ma concentrandosi nelle mani di pochissimi, mentre il gruppo sociale che pure ha prodotto e produce risulta impoverito, ossia può contare su una quota minima dei beni prodotti. Per contro l’incremento della povertà chiama alle restrizioni delle fonti sociali di beni e servizi. Il livello politico amministrativo s’incarica di legiferare quelle medesime restrizioni: limita, privatizza, e restringe il ventaglio dei servizi garantiti, smette di prevedere e provvedere  forme di sostegno sociale dirette alla crescente massa dei poveri.
Anzi una società cosi diseguale tende a disfarsi, come orpelli dannosi, di parecchie forme di solidarietà sociale, di cura dei piccoli e degli anziani, dell’assistenza e della scolarità  universale, della salvaguardia delle diversità  e della dignità umana, insomma di tutto ciò che in qualche modo è stato il fiore all’occhiello dell’Occidente per qualche decennio del secolo scorso.

Il pericolo di un imbarbarimento irreversibile minaccia, secondo Bauman, non solo le macrostrutture, ma persino i rapporti interpersonali della vita quotidiana, lavorativa e sociale. A questo livello, messe all’angolo le ragioni della fondamentale uguaglianza nei diritti basilari, le ragioni del legame e della condivisione civile, il gruppo sociale si polverizza in individui impauriti e soli in un mondo cieco e sordo.

Sull’individuo vanno a scaricarsi  tutte le difficoltà , le tensioni  e le responsabilità, che sono invece il portato delle aporie strutturali. Ideologicamente si enfatizza la sua autonomia, la sua libera decisione e responsabilità, invece lo si rende a sua volta cieco, sordo e imbelle rispetto al proprio essere sociale. Lo si allontana dalla comprensione e volontà di azione politica in senso ampio e alto.

«…essere un individuo de iure significa… non poter cercare le cause delle proprie sconfitte al di fuori della propria indolenza e infingardaggine….Convivere quotidianamente con il rischio dell’autocensura e del disprezzo di sé non è facile…»

D’altra parte Bauman non si esime dall’indicare la  forte subordinazione della struttura politica esistente nei confronti  dei potentati economico–finanziari. La subalternità della politica nelle società postmoderne è non solo ideologica, ma funzionale perché  funge appunto da agenzia per il mantenimento dell’ordine pubblico, essendo la politica lenta e legata ad ambiti territoriali ristretti, fisicamente adeguata all’esercizio del controllo dissuasivo/repressivo  a garanzia della suprema mobilità dei capitali; mentre dovrebbe essere il meccanismo solerte ed efficace di regolazione dell’economia, garante della salvaguardia fisica e sociale dei cittadini, custode di quella ecologica e conservativa dei territori.

L’economia finanziarizzata in realtà, non solo  si libera da ogni ceppo territoriale, ma si slega da ogni responsabilità umana e sociale inseguendo senza più freni la valorizzazione crescente dei  suoi profitti, sussumendo sotto di sé ogni attività umana mercificabile e in prima istanza occupando le fonti e i percorsi dell’informazione e della formazione culturale,con cui garantirsi la relativa e universale tranquillità rispetto all’intangibilità del profitto.


«Il “principio dell’ordine” nel gergo politico dei nostri tempi significa poco più che lo smaltimento delle scorie sociali, dei relitti della nuova “flessibilità” della sopravvivenza e della vita stessa.»

venerdì 27 marzo 2015

Condizione : Poesia?

Quando si arriva a istituire una giornata, persino internazionale, in riferimento a un che di esistente, cosa o persona o animale o attività, allora significa che quell'entità esiste, ma si trova in condizione precaria o perfino a rischio di estinzione.E' questo, secondo me, il caso della poesia.
Qualcuno, fatto forte dall'ascolto di innumerevoli reading pubblici di testi poetici, potrebbe asserire che io mi sbagli o non sappia che cosa sia poesia. Probabilmente non so davvero che cosa sia. So che in effetti si producono molti testi che esaltano, enfatizzano sentimenti, affetti, emozioni, visioni, paesaggi interiori ed esteriori, con frasi ricchissime di aggettivi encomiastici nei confronti dell'oggetto o della situazione cui si vuole alludere o che si vuole descrivere, tal che, se io per un certo spazio di tempo potessi liberarmi dai pregiudizi acquisiti con la mia esperienza, potessi dimenticare ciò che quotidianamente vedo e tocco e da cui più spesso mi ritraggo ferita e irritata, se avessi una percezione vergine come se provenissi da un altro universo, penserei che gli umani sono in maggioranza poeti, ossia enti fatti di gas leggeri, ma in continuo sobbollimento emotivo, profumati di essenze speciali e rare, appassionatamente felici dei loro impeti o, all'opposto, delicatissimamente infelici per la loro indicibile mitezza o perché l'altezza dei desideri e appetiti della loro anima, sempre squisiti, in ricerca spasmodica di cose eccelse, tuttavia dissimulate nella semplicità del quotidiano, li costringesse a un'eterna tensione dello spirito. Penserei che dimorano in luoghi paradisiaci, emancipati da ogni lordura,  tali che la loro parola sonora, nel suo scaturire dall'anima, restituisca l'immediata bellezza/bontà essenziale degli oggetti (sentimenti, paesaggi fisici e interiori) del loro dire/verseggiare, così come immaginano che siano; e che tutto ciò manifesti ai lettori/spettatori,  come in uno speciale e magico proscenio, il fulgore dell'anima poetante. Estasi della contemplazione! 
Ecco che allora il mio desiderio corre all'indietro, oppure si mette a rivoltare altrettanto spasmodicamente i tappeti, le falde, i cassetti, le scansie  e persino i ripostigli dell'appartamento letterario, alla ricerca di un reperto trascurato, magari derubricato dai piani alti del senso levigato (e forse anche troppo liso),  di alcunché dimenticato sotto la pila degli scarti, degli oggetti irrimediabilmente danneggiati dalle pedate trascendenti o dai denti del realismo malsano o dalla beffa incandescente che scompiglia gli alfabeti e non vuole dire niente.  O sì? 

Nota Questa nota precede cronologicamente, ma anche logicamente, la "Canzonetta" di Aldo Palazzeschi

Ritardo

Non s'è levato ancora
dai tombini
verso i piani alti
il volo
delle blatte bionde
in quell'ora fatata
che
l' ampiezza fulgida del giorno
riduce a sbadiglio
serale
tra cemento di muri
asfalto e banchine
marcati
d' escrementi canini.

No, ancora no.
Perché i venti
-sfuggiti di mano
a un inverno
gravato
da numerosa figliolanza -
son monelli di strada.

Impazzano
pallidi e sfrontati birichini
nei vortici di vuoto
tra sfiati di ipogei
e angoli nascosti,
intorno agli attoniti
lampioni
a rialzare le vesti
troppo presto leggere
alle signore
a gonfiare
come velacci
le giubbe di quelli
che
i i cani trascinano
attaccati ai guinzagli
in siti meschini e olenti
di deiezioni,
fatte sfatte rifatte
per oscuro senso
e puntiglio di specie,
quali echi e messaggi,
indistinti
eppure singolari,
tramite e oltre
l' umana stravaganza.


Nota Composizione tratta dalla silloge FABELLAE di B. Mannu, edita nel 2006. "Ritardo" si riferisce alle tardive manifestazioni della primavera metropolitana e meteorologica.  Chiari, credo, i riferimenti al vissuto, non solo personale, ma alle esperienze degli abitanti delle città, dove si fa anche esperienza di bruttezza e degrado.
Mi riesce spesso difficile capire perché molti poeti continuino a ispirarsi a situazioni paesaggistiche e psicologiche assolutamente incongruenti con le loro esperienze reali. Essere poeti significa forse costrizione alla cecità e alla incapacità di esprimere "poeticamente" il senso della differenza tra desideri e condizioni dell'esperienza anche fisica, concreta? Ancora una volta, che relazione può esistere tra così detta Poesia e così detta Realtà. Ovvero esiste, ed è auspicabile, una relazione (aggiornata al tempo del postmoderno) tra poesia e verità (in minuscolo).B.M.

Non so se posso, ma riporto qui di seguito il
bellissimo commento di Maria Concetta Rosa Giannalia.
Spesso accade che alcuni dilettanti di versi, scambino la poesia con una necessaria ricerca di certa bellezza oleografica e banalizzante, ispirata all'idea astratta ma condivisa di ciò che , nel luogo comune, è la primavera. Per intenderci la stessa immagine che ce ne ha dato Botticelli. A quella dunque si riferiscono, anche se da quel quadro ci distanziano ormai secoli di cambiamenti culturali, fisici, meteorologici e soprattutto simbolici. I simboli presenti nel quadro noi forse non li intendiamo più, così interpretiamo quelle immagini alla luce della nostra cultura intrisa di consumismo e materialismo. E' chiaro quindi che riproporre quelle visioni estatiche e idealizzanti della primavera significa non  parlare della contemporaneità, della nostra quotidianità. Ma questi "poeti" si piacciono e non sono toccati dall'orrore del luogo comune. Eccoci dunque invasi da aeree danze vibranti, da nuvole rosate, da freschi zefiri di primavera, da sentori floreali e via poetando, mentre il nostro odorato percepisce accarezzanti folate di escrementi canini  ad ogni passeggiata mattutina e la nostra vista è offesa continuamente da un paesaggio urbano ed extraurbano totalmente devastato. Non può quindi essere cantata "questa "bellezza. La bellezza deve necessariamente stare altrove. Dove? Questo è  il compito della  poesia.

giovedì 26 marzo 2015

Da LASCIATEMI DIVERTIRE (Canzonetta) di Aldo Palazzeschi

...Cucù rurù,
rurù cucù
cuccuccurucù!
Cosa sono queste indecenze,
queste strofe bisbetiche?
licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa
Tarataratarata,
Paraparaparapa,
Laralaralarala!
Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura delle altre poesie....

Bubububu,
Fufufufu,
Friu!
Friu!
Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive 
quel fesso?

Bilobilobilobilobilo,
blum!
Filofilofilofilofilo,
flum!
bilolù. Filolù.
U.
.......... 

domenica 22 marzo 2015

Altro estratto da I RACCONTI DI BIANCA - MANNU

Da La domenica di Marta


Intravide il grigiore del cielo senza sollevare le palpebre verso le fessure dell’avvolgibile. Richiuse gli occhi dopo aver sbirciato l’orologio grande sul comò. Si massaggiò le tempie doloranti, le palpebre che sentiva grevi e gonfie come vesciche. Le strizzò per farne uscire un po’ di lacrima stagnante. Si voltò contro il muro per sfuggire al chiarore latteo del giorno e crearsi una notte fittizia. Sentiva di essere pallida e gonfia e sapeva che, se si fosse guardata allo specchio, avrebbe visto la ruga segnare più nettamente del solito, sulla violacea trasparenza dell’occhiaia, l’orbita dell’occhio destro: quasi una profonda cicatrice. E avrebbe colto l’espressione attonita e contrariata del medesimo occhio nel guardare se stesso irrimediabilmente imprigionato dentro quel solco curvo.
Si accoccolò forgiandosi un grembo di lenzuola sulle reni, esauste per la pressione della vescica. Doveva alzarsi. Lo fece piano tenendo gli occhi chiusi: una sonnambula. Entrò nel bagno, evitò lo specchio e si abbandonò a quel po’ di benessere espulsivo. L’odore della terra umida s’era infilato dallo spiraglio della finestra. Se pioveva, pioveva senza rumore.

Alcuni estratti da I RACCONTI DI BIANCA - MANNU

Da Fiela
Un tipo col camice bianco e con una specie di fionda infilata a collana sul collo, assicura che mi chiamo Giuseppa Antonia Bisolfa, nata, mi pare che abbia detto, a Zerfaliu nel 1950 ( ma io non mi ricordo e dunque non confermo) da una certa Antonia Palitta del luogo e da Pietro Bisolfa di Lugo di Romagna, persone e luoghi che non credo di aver mai sentito nominare e di cui non ricordo neppure un’ombra.
Ma questo bel tipo in vestaglia bianca, che si fa chiamare Dootorerdas – che razza di nome! … io ci metto in mezzo una “m” per farlo incazzare, quando sono di malumore perché lui mi rompe i coglioni per forzarmi ricordare cose di quando ero poco più che in fasce… - dice che le cose stanno così. Sì, anch’io penso che queste tali Giuseppa, Antonia e anche Fiela abbiano avuto nascita e fasce. “Ma, caro Dootorerdas , io che c’entro?”
“Uffa, non sono Dootorerdas, ma Dottor Erdas, mettitelo in testa una volta per tutte!”
“Ok, ok! Ma non strilli così, Dottorrrerdas, che mi fa mancare il respiro…”
Ecco lui  a ribattere che là(?) c’è la chiave delle mie stranezze, ma specialmente – insiste  - la “chiave di volta”… 
Che roba è questa chiave? Io conosco quella dell’uscio, quelle inglesi che servono per stringere i dadi di un tavolino con i piedi di ferro, quella del gas, quella del lucchetto dove stanno chiusi contatori della luce e dell’acqua … Quella di volta, mai sentita nominare. Ma se la chiave è lì - Zerfaliu o Lugo di Romagna oppure nel tempo andato ?- col cavolo che la ripeschiamo!  

Una cosa vera – magari non sarà tanto buona – l’ho imparata davvero da Dootoerdas: che quelli o quelle che mi abitano hanno nomi. Una  è Antonia, un’altra Giuseppa e un’altra ancora, che è quella che mi frequenta di  più  e più a lungo di tutte è Fiela. Questa è l’unica che mi piace.


domenica 15 marzo 2015

Selfie introduction di I RACCONTI di BIANCA



Su I racconti di Bianca EdizioniTHOTH
dice KatiaMelis nella dotta prefazione al libro: “…Bianca Mannu pare rivendicare a sé, al suo passato, al presente e al futuro di molte altre donne quel senso di libertà fuori da ruoli precostituiti opprimenti, capaci di appiattire e, poi, soffocare, ogni velleità di essere e di sentirsi essere.”
Dice Maria Rosa Giannalia in una recensione “Le sei donne protagoniste dei racconti scandagliano in profondità la consapevolezza delle rispettive esistenze, in situazioni diverse,  tutte legate dall'angoscia della quotidianità che incalza le loro vite….. Scannerizzando le proprie vite, apparentemente diverse, le sei protagoniste ricercano e trovano il nucleo essenziale del proprio esistere. E fatalmente si accorgono  di nonesistere o meglio di esistere solo in quanto “che cosa” e non in quanto “chi”. 
Dice Florio Frau: “È il linguaggio che evoca e crea. E fa pur sì che le vicende siano fantasmi di luce, vita di parole. E il linguaggio è il mare magnum in cui e con cui vive il nostro essere, si crea, si manifesta. Più si è “bravi “ nel servirsi della propria lingua in ogni fase, più sarà reale, credibile, il nostro esser, linguisticamente, “veri”.
Dice Alessandro Carta (in Gazzetta del Sulcis/Iglesiente): “Due sono gli elementi che emergono in maniera evidente…:la figura della donna sempre dignotosa e compassata; il pieno rispetto della grammatica … e del lettore, che non viene avvinghiato ( negli stereotipi narrativi) ma lasciato libero di godersi una sana lettura”.
Che cosa dico io in veste di autrice?
Questi racconti non sono nati in tempi ravvicinati fra loro e nemmeno in un passato recentissimo. I più antichi hanno quasi trent’anni, i pù recenti tre o quattro anni.E ciò potrebbe essere rilevato esaminando le temperature  linguistiche e gli apporti culturali che vi risultano involti. Sono donne le protagoniste.
Com’è noto, dietro ogni personaggio si nasconde l’autore o l’ autrice col suo vissuto e le sue problematiche, il suo modo di pensarsi vivere e di concepire il mondo: un sostrato più o meno intriso di cultura, di esperienza e di idee che s’impasta, si definisce, si altera, si complica e assume figura entro la logica del meccanismo linguistico aprendosi alla condivisione quale messaggio narrativo.
 Nel mio caso il narrare non insiste sulla scena dell’azione, ma interroga e s’interroga, scavando nelle motivazioni e nella natura dei contraccolpi psicologici e corporali che il vivere procura, e non cerca di confezionar(si) facili consolazioni.
Come autrice sono colpevole del fatto di concedere poco ai meccanismi della narrazione filmica, degli intrecci e dei colpi di scena. Per conseguenza mi permetterò, ribadendo i suggerimenti di chi mi ha esaminato e commentato, di indicare alcune chiavi di lettura.
Il protagonismo dei sei personaggi femminili si sviluppa nell’ambito di un antagonismo col maschile, colto in certe apparenze morbide, recessivo nell’intreccio narrativo. Ma il timbro della virilità autoritaria viene disteso in sottofondo ed è offerto nelle impronte della propria incombenza tramite gli elementi dati come oggettivi  (il mondo così come appare), quasi a mimarne  una condizione apparentemente neutra, entro la quale la protagonista gestisce la propria fondamentale solitudine e un senso di sé ambivalente, incerto, persino faticoso e doloroso. Il dialogo col partner (Altro, come custode del more solito) si sviluppa per lo più come monologo interiore, dunque si svolge  prevalentemente in modo virtuale e persino sommesso, ma, proprio perciò, lucido.
Chi vorrà leggere “I racconti” noterà anche che lo sfondo in cui ha modo di svolgersi l’azione, o la sua rimemorazione, è quello di una coscienza che acquista una certa trasparenza in situazioni in cui può sottrarsi, almeno parzialmente, ai condizionamenti esterni (nel sogno, nella malattia, nello stato di innamoramento, nel lutto, nella delusione amorosa), in quanto "luoghi" nei quali il linguaggio subisce meno la censura del controllo morale, ius patri. Essa ricupera quei messaggi del corpo e della psiche che sono portatori di istanze di verità, parzialmente li traduce in considerazioni lucide o nell’aspirazione ad attingerle, sapendole appena valide “per la comunicazione interna”, ma quasi prive di cittadinanza fuori da quel contesto solitario.
Buona lettura a chi è interessato!



giovedì 12 marzo 2015

Verbi e di-verbi: Donne in cammino?- Riflessioni di Bianca

La chiamano festa, anche se non come festa è cominciata.
 Ma se alle donne si dedica una festa (o più), significa due cose: 1° che le donne sono ancora concepite come una quota subalterna del genere umano (a chi verrebbe in mente, infatti, di istituire una festa dell’uomo?);  2° che la comunità sociale gestisce e maschera nei  loro confronti un atteggiamento ambivalente, coperto da un gesto vagamente riparatore – la festa – sintomo di un non riconosciuto senso di colpa e di forme surrettizie di proscioglimento del genere maschile da ogni responsabilità morale e storico-culturale rispetto alla sua componente femminile. Avendo attribuito alla donna, la funzione vicaria di divulgatrice della tradizione e dei valori del gruppo sociale – che pure, per molti versi, la mortificano e ne cancellano la rilevanza –   si indica la sua psicologia e la sua mentalità come le radici ancestrali dell’autoesclusione e si oscura il fatto che psicologie, mentalità e ruoli sono prodotti di occhiute strategie di potere maschilista. 
Uscendo dal terreno squisitamente ideologico e moraleggiante, basta passare alla lettura di alcuni dati ISTAT, recentissimi: la metà (50%) della popolazione femminile in Italia è disoccupata; a parità di formazione, di competenze, di meriti e di tempi di lavoro, le sue retribuzioni raggiungono il livello del 50% in meno rispetto agli omologhi di sesso maschile.
Qualcuno si chiederà: che cosa c’entra tutto questo col fatto che alcune poetesse e alcuni poeti si incontrino per celebrare la ricorrenza con la lettura di poesie dedicate alle donne?
C’entra col fatto che il genere femminino solo in epoca contemporanea (cioè dalla Rivoluzione Francese in poi) cominci a ripensare e rivendicare i propri ruoli in tutti i campi della vita, cultura, arte, scienza comprese.
La “festa della donna”  ha senso come segno di questa sua recente irruzione verso la riappropriazione della propria inalienabile soggettività e di tutti i diritti conculcati nei secoli e ancora oggi.

C’entra per il fatto che la poesia, cioè il dire e scrivere con bello stile, risulti uno spazio privilegiato in cui la sensibilità femminile si senta valorizzata. Ma occorre anche non nascondersi che questa pratica può risultare un rifugio appartato e salvo da un vero coinvolgimento nella vita reale e quindi suscettibile di un uso eminentemente conservatore. Ciò che però sfocia pericolosamente nell’artifizio e nella cecità culturale.  Invece tutti sappiamo che la cultura, come la poesia che si proclami tale, non può esimersi dal misurarsi con le verità, le verità che scottano, e che proprio questo incrocio implichi l’altro ineludibile incrocio, quello con la bellezza. Verità, poesia, bellezza, si cercano ed è proprio della poesia la possibilità di coniugare le altre due con la maestria della parola, di modo che nessuna resti tradita, tale che il giusto, il bello, il desiderabile siano non già un prodotto ossificato, ma un procedimento creativo sempre all’opera, come il cammino  della donna.

Donne in cammino?- Riflessioni di Bianca


La chiamano festa, anche se non come festa è cominciata. Ma se alle donne si dedica una festa (o più), significa due cose: 1° che le donne sono ancora concepite come una quota subalterna del genere umano (a chi verrebbe in mente, infatti, di istituire una festa dell’uomo?); 2° che la comunità sociale gestisce e maschera nei  loro confronti un atteggiamento ambivalente, coperto da un gesto vagamente riparatore – la festa – sintomo di un non riconosciuto senso di colpa e di forme surrettizie di proscioglimento del genere maschile da ogni responsabilità morale e storico-culturale rispetto alla sua componente femminile. Avendo attribuito alla donna, la funzione vicaria di divulgatrice della tradizione e dei valori del gruppo sociale – che pure, per molti versi, la mortificano e ne cancellano la rilevanza –   si indica la sua psicologia e la sua mentalità come le radici ancestrali dell’autoesclusione e si oscura il fatto che psicologie, mentalità e ruoli sono prodotti di occhiute strategie di potere maschilista. 
Uscendo dal terreno squisitamente ideologico e moraleggiante, basta passare alla lettura di alcuni dati ISTAT, recentissimi: la metà (50%) della popolazione femminile in Italia è disoccupata; a parità di formazione, di competenze, di meriti e di tempi di lavoro, le sue retribuzioni raggiungono il livello del 50% in meno rispetto agli omologhi di sesso maschile.
Qualcuno si chiederà: che cosa c’entra tutto questo col fatto che alcune poetesse e alcuni poeti si incontrino per celebrare la ricorrenza con la lettura di poesie dedicate alle donne?
C’entra col fatto che il genere femminino solo in epoca contemporanea (cioè dalla Rivoluzione Francese in poi) cominci a ripensare e rivendicare i propri ruoli in tutti i campi della vita, cultura, arte, scienza comprese.
La “festa della donna”  ha senso come segno di questa sua recente irruzione verso la riappropriazione della propria inalienabile soggettività e di tutti i diritti conculcati nei secoli e ancora oggi.

C’entra per il fatto che la poesia, cioè il dire e scrivere con bello stile, risulti uno spazio privilegiato in cui la sensibilità femminile si senta valorizzata. Ma occorre anche non nascondersi che questa pratica può risultare un rifugio appartato e salvo da un vero coinvolgimento nella vita reale e quindi suscettibile di un uso eminentemente conservatore. Ciò che però sfocia pericolosamente nell’artifizio e nella cecità culturale.  Invece tutti sappiamo che la cultura, come la poesia che si proclami tale, non può esimersi dal misurarsi con le verità, le verità che scottano, e che proprio questo incrocio implichi l’altro ineludibile incrocio, quello con la bellezza. Verità, poesia, bellezza, si cercano ed è proprio della poesia la possibilità di coniugare le altre due con la maestria della parola, di modo che nessuna resti tradita, tale che il giusto, il bello, il desiderabile siano non già un prodotto ossificato, ma un procedimento creativo sempre all’opera, come il cammino accidentato e insidioso delle donne.

martedì 10 marzo 2015

Tra lingua, storia e politica

Considero che a marzo i temi della “questione femminile” tornano per qualche giorno alla ribalta mediatica, dove sembra stancamente ripetersi il rito della donna tuttofare, santificata a parole e perciò meglio ingannata. Questo rito festivo, ora molto banalizzato e commercializzato, serve anche a far calare un siparietto attivatore e complice della distrazione sonnambolica sulla condizione femminile, ponendo l’accento sulle macroscopiche discrasie che affliggono i paesi, diciamo culturalmente non occidentalizzati. Come se da noi, nell’Occidente, detto democratico e super industrializzato, avessimo conquistato davvero la parità di genere.
Riprendiamo i riferimenti extralinguistici di una parola: MASCHILISMO, entrata ormai nel vocabolaro quotidiano.
Mica è sempre esistita questa parola!  Anche se l’effetto linguistico è proprio quello risultante  dalla sua codifica.
Incardinata nel sistema dei suoni, dei segni, della morfologia, della sintassi, dei significati e delle loro relazioni, dei riferimenti e delle pratiche attinenti -  è come vi fosse da sempre inscritta e, come tale, suscettibile di usi retroattivi, fattuali e ipotetici, la parola «MASCHILISMO» è invece figlia della storia recente, anzi attuale e già misconosciuta o dimenticata.
Compare assai tardi rispetto alla nozione di «FEMMINISMO», a torto ritenuta di significato opposto e quasi da esso derivata.
Andiamo per gradi.
Una prima definizione riguarda il FEMMINISMO come movimento politico, culturale e sociale, che pone in discussione gli esistenti rapporti di potere tra i sessi.
La nascita di tale movimento conosce alcuni antefatti durante la Rivoluzione Francese, ma vede il proprio sviluppo teorico e pratico durante l’800 in Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia.
In realtà sarebbe corretto parlare di «femminismi»  tenendo conto della variegatura delle posizioni assunte nei diversi contesti e tempi dalle sue maggiori rappresentanti.
Cito testualmente da Wichipedia:
“Le origini del termine “femminismo” si possono rintracciare in due ambiti diversi:
·        all’interno della letteratura medica francese, in cui veniva usato per riferirsi a un indebolimento del corpo maschile;
·        nel contesto delle mobilitazioni per il diritto di voto in Francia.”
Hubertine Auclert lo utilizzò nella sua rivista <La Citoyenne> il 13 febbraio del 1881.
Nel citato sito Internet potete trovare un’ampia documentazione storico teorica del movimento femminista  in Europa e nel mondo, nelle sue diverse fasi di sviluppo, espansione, riflusso e intrecci con altre battaglie civili e politiche.
Che ne è dell’accezione «MASCHILISMO»?
Di certo non è un movimento, né un partito politico, né un’associazione o un’entità che si sia data un nome o un simbolo per contestare o  realizzare alcunché.
Allora bisogna ragionarci un po’ su.
Intanto il suffisso «ismo» indica che il termine non fa riferimento a una condizione naturale, ma a una posizione ideologica, culturale, politica. E, sotto questo riguardo, sembra omologo a «FEMMINISMO».
Ma come abbiamo accertato, quest’ultimo termine fa riferimento a eventi e atteggiamenti storicamente inediti che hanno dato vita a veri e propri sommovimenti organizzati di persone,  volti a denunciare la crisi e/o a scuotere certi assetti sociali consolidati mediante lotte molto concrete, talvolta drammatiche e sanguinose.
Perché questa differenza nei riferimenti fattuali?
L’origine  o passaggio dalle culture matriarcali alle culture androcentriche o patriarcali si perde nella notte dei tempi. E su tale tema la parola specifica spetta alle scienze antropologiche,  capaci forse  di dar voce a tracce molto ambigue e obsolete.
Noi, civiltà del simbolo, abbiamo conosciuto  solamente ordinamenti sociali economici e giuridici fondati sulla centralità del patriarca, sulla subordinazione ad esso della soggettività femminile, fino alla perdita di ogni forma di auto percezione indipendente.
La civiltà androcentrica non si è definita come tale, si è ritenuta, anzi si è posta e imposta come «la civiltà» tout court, senza limitazioni e aggettivazioni.
Agli albori della divisione sociale del lavoro, le donne costituivano il gruppo sociale già discriminato e privato dell’immagine autoctona della propria soggettività. Così parrebbe. 
La società patriarcale si rappresentava e ha continuato a rappresentarsi come olistica fino allo sviluppo del Capitalismo, allorché, per impulso coercitivo a liberare le forze produttive cristallizzate nel vecchio ordinamento feudale, ha scoperchiato il vaso di Pandora, che ora, a singhiozzi, tenta di richiudere o di controllare.
In quelli e in  questi moti di rinnovata lotta delle classi, di emergenza di nuove soggettività variamente organizzate, il movimento delle donne non poteva non trovare la via per emergere e intessere con l’assetto preesistente rapporti assai  articolati e ambivalenti e anche lottare duramente contro di esso e contro i suoi   ordinamenti.
Come sempre le lotte si sviluppano a vari livelli: dall’astrazione teorica alla concretezza corporea e viceversa, in faticosi intrecci, nei quali i corpi dei singoli soggetti/persona sono coinvolti, attraversati e feriti non solo dalle tensioni liberatorie e/o assoggettanti, ma dalle insidie, anche fisiche, che i lottanti mettono in campo.
Le parole in uso assumono allora una valenza importante, altre vengono forgiate sul campo, perché siano incisive o pregne del significato e della tensione del momento. I movimenti progressisti hanno bisogno specialmente di parole rivelatrici di verità trascurate … 
Andando alla ricerca di documentazioni sulla parola  «MASCHILISMO», mi riesce solo di puntare la piccola luce della mia debole pila su vapori di lotta ancora caldi e fumanti, benché col fiato corto del riflusso … 
Inequivocabilmente avverto il tono del dispregio che incrocia quello dell’arroganza per quanto ha la pretesa di voler sopravvivere alla propria già decretata morte storica e per quanto spinge per dare fiato alla propria esigenza vitale …
La parola «MASCHILISMO» pare esser nata nel fuoco della battaglia nella quale molte donne, armate della scoperta di una soggettività possibile, si sono rivoltate ai loro antichi focolari … vogliose d’un’umanità meno schiacciata sul disegno di un’ insormontabile impronta animalesca … ancorché dipinta di sacro per meglio incutere la fissità panica dell’assoluto.
Scoperta di una soggettività che attende la sua ripresa, la sua riattivazione;  perché le cose della storia non sono mai assodate per sempre.
Modestamente, com’è giusto che sia, mi sono piegata sul dizionario dell’uso, quello formato da vari e pesanti volumi …
Accanto alle sue notazioni terminologiche vedo un (CO) come comune e una data: 1937… Data del conio? C’entrano in qualche modo i futuristi? 
E dopo la parola capofila, ecco una piccola teoria di termini derivati e  contratti, con «ista»,  «ismo», «istico» in coda, e quasi tutti accompagnati da numeri che sembrano date della nostra era cristiana … Sono quelle date che scendono sui piedi del secolo passato e che ci hanno conosciuto  già adulti?
Sì, credo proprio che la parola «MASCHILISTA» e i suoi derivati siano il segno di una lotta, tutt’altro che relegata alla lingua, la quale attende ancora di svilupparsi e portarsi a compimento.
In questo vespro della democrazia italiana, in cui il vecchio e il becero si spaccia per nuovo, e il buono non ha avuto abbastanza vita da produrre i suoi frutti, tutti i gatti sembrano bigi e impegnati a strapparsi i bocconi reciprocamente, e che non sia dato niente altro alla platea degli italiani viventi se non di assistere a questo desolante spettacolo...  Ebbene, su questo palcoscenico, femminismo e maschilismo  sembrano potersi disporre in semplice funzione oppositiva, come due astrazioni prive d’anima e confuse dalla nebbia esalante dalla  palude dell’esistente … che appare, ma non è affatto, neutra.
Più d’uno, capitano o centurione, con facile “benaltrismo”, continua a ingannarsi, specialmente  a ingannare, inducendo l’idea che i diritti civili siano inconciliabilmente alternativi rispetto a quelli economici e viceversa. Non diamogli credito: non è disinteressato. Ricordiamoci che nel frattempo i cesari  distruggono i presupposti materiali  e umani per gli uni e per gli altri.
Che fare?
Dovremmo rammentarci anche che il cesare di turno ha solo  il fiato che gli diamo. E ha nessuna importanza se il suo cognome inizi con R o B o X,  mentre importa che si dichiarino FEMMINISTI (e di quale femminismo!) uomini di potere che si circondano di figure femminili ancillari,  le quali tornano buone per rappresentare invece la presunta, culturalmente imposta e psicologicamente introiettata minorità costitutiva intellettuale e sociale del genere femminile.