Sembra una
bestemmia, ma non lo è, nel senso che la poesia “non serve” non pùò “stare a
servizio” di alcuno o alcunché, altrimenti non è. Vive senza rossori quella che
doppiò i passaggi al limite di tale non voluta condizione.
Prescindendo dalla discussa
e discutibile categoria estetica del «bello stile», comporre testi “con le
righe corte”, o esercitare altre attività, non destinate alla sussistenza
materiale o al raggiungimento di fini esterni a esse, vale per la gioia, per la
passione, per il gusto e il tormento di quel fare, che non è strumento per
altri fini, a meno di aggiungerli in
subordine
Invece parecchie
persone non comprendono perché ci sia chi spende il suo tempo in cose così
inutili come le poesie, mentre – sempre secondo costoro - vi sarebbero tante
cose utili da fare per rendere comoda la vita propria e altrui; come se dal
canto loro non si registrasse mai dispersione di tempo in attività “inutili” o
semplicemente ricreative. I più, mentre moraleggiano sull’utile, concepiscono
le loro ricreazioni come consumo di cose, in cui l’attività del pensare resta sospesa
a una goduria vuota, a uno sbadiglio.
Riferisco alcuni stralci di conversazioni.
Qualcuno osserva: Le poesie non sono neppure come
un racconto, che di solito è una storia scritta in modo comprensibile. Invece non sai mai bene di che argomento parlino, le poesie. Anche l’ordine delle
parole è tutto scombinato. E tu devi fare una fatica del diavolo a riordinare
tutte le parti del discorso come Dio comanda per capirci alcunché. Sono perfidi
i poeti.
Però – dice un altro – le poesie che esprimono
sentimenti ed emozioni attirano e qualche volta ti accorgi che certi sentimenti
espressi con così belle parole sembrano essi stessi belli, dolori e sofferenze
comprese. E allora ti identifichi. Inoltre ci sono poesie che ti dipingono
paesaggi molto gradevoli: sembrano acquerelli, raffinati dipinti.
Dice un terzo:
Allora preferisco il dipinto e non un
succedaneo. E poi, che cosa intendi con “belle parole”, le frasi
incomprensibili?
Il mio momento di godimento – assicura un
quarto – io non voglio sciuparlo andando
dietro a un segno muto che mi propone dei rompicapo a ogni riga. Io voglio godere in compagnia e voglio qualcosa che arrivi dritto
all’ orecchio e al cuore e magari accenda la mia voglia di muovermi.
Bravo! – Esclama un quinto – Sono d’accordo
con te. Io credo che le sole poesie che meritano attenzione e passione siano le
canzoni. Le ascolto dovunque e in continuazione. Se sono in lingua straniera,
mi godo solo la musica e il ritmo.
La discussione
potrebbe continuare all’infinito. Qualunque cosa si voglia intendere con
“poesia” pare che la sola parola evochi in un buon numero di persone moti di
sospetto e di rifiuto.
Or bene, il punto di
vista, secondo cui abbiamo cose ben più utili da conseguire, riposa su una
concezione strumentale della vita e del senso attribuitole. Si basa su uno
schema povero che non contempla il forte contributo dato dalle attività di
immaginazione e di operatività non finalizzate, libere, alle risoluzioni ben
riuscite di problemi assai spinosi della vita umana
Sono convinta che le
opinioni sopra riferite e altre consimili sono l’esito di un miscuglio
deprecabile di atteggiamenti culturalmente indotti, quindi non reminiscenze di primitivi
e rozzi pregiudizi cronologicamente obsoleti, ma il prodotto ambivalente e
confuso della civiltà(!) presente, tutta involta nell’ossessione monetaria che
strangola le genti.
Quei discorsi fanno
tornare in mente quell’atteggiamento che, non molti anni fa, ho osservato da
parte di adulti verso i genitori di quei figli maschi che frequentavano le
scuole di danza. La danza, a differenza della poesia, si poteva proporre come professione
a tutti gli effetti, benché di esito avventuroso. Tuttavia allora, chi avviava i figli
maschi in quella direzione era guardato come se li volesse femminilizzare o
sollecitarli alla (dio salvi!) pratica omosessuale. «Fare il ballerino» era contiguo
a «fare l’attrice» e entrambi erano pensati come abbastanza prossimi alla
professione delle meretrici, sia pure di un certo rango.
Ma «fare il poeta» era
un’espressione ancor meno diffusa e tollerata nei ceti medio-bassi della
società e certo neppure indicava un’attività apprezzata; ancora maggiore
sprezzo era posto verso la ragazza che avesse dichiarato di voler «fare la poetessa»
e non la madre di famiglia o la suora.
Un’attività così,
slegata dalla ricerca del guadagno era pressoché inconcepibile per un giovane “normale”,
a meno che non fosse praticata da un
ricco nobile, cui per privilegio di classe, era lecita ogni stranezza. Dunque essere/diventare
poeta, fra coloro che dovevano guadagnarsi la pagnotta lavorando, implicava
essere piuttosto uno scioperato inconcludente.
Ancora adesso il
comporre versi non è considerato, da noi
in Italia, una professione. Non dà reddito, perché pare che i testi in versi
non siano ben accolti nei mercatini rionali o nei market, dove circola gran
folla. Ciò non m'inquieterebbe se non intuissi l'approfondirsi dello iato tra le culture così dette di nicchia e la cultura di massa sempre più svilita ed evasiva come un placebo che deve addormentare il tormento di vivere in deprivazione.
Quando i giovani
vengono interpellati circa il loro destino professionale, nessuno dichiara apertamente
di voler diventare poeta. E perché mai dovrebbe, dato che la poesia, in
qualunque veste non spettacolare, non è un bene d’uso, “non serve” a creare uno
status? Divenire cantanti, sì, personaggi
dello spettacolo, sì, modelli e
indossatori, sì, magari per raggiungere la pur breve notorietà tramite una "comparsata" negli show. Perché se hai il fisico, la loquela te la fai sul campo
e così il repertorio da mostrare e i trucchi del mestiere, e quando sei nella
ruota, incroci la domanda del gran pubblico. E allora tutte le sciocchezze che
dici e fai sono per un momento quasi vangelo. Puoi firmare un libro sulle tue
gesta private coi particolari in cronaca, troverai l'editore, invaderai gli scaffali di librerie e supermercati, presenzierai come autore nei talk show.
Malgrado le note
controindicazioni, qualche schizzato insiste nel voler fare poesia/ versi e di
voler dedicare a tale attività, compresi studio e riflessione che vi si collegano, tutto il suo tempo.
Se sei di questo
avviso, dormi poco, frequenta libri, maneggia carta e penna e cimentati, dopo
il lavoro e nelle pause festive consentite. Vedi se ciò che emerge rinforza il
tuo intento. Magari sul momento ti servirà da consolo e lo scalderai per un’esito possibile come il
sottotenente Drogo scaldava, morendovi,
il suo eroico scontro con i Tartari.
Se ami la
concretezza, se hai abbastanza soldi o una famiglia che foraggia i tuoi “capricci”
e “sperimentalismi vuoti”, puoi affittare un locale e sul frontespizio
dell’ingresso puoi affiggere un’insegna:
«POETA» Poesie per ogni occasione! Nascite e
battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni –
promozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi personalizzati. per ogni Nascite e
battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni –
prmozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi t
Ecco, t’inventi una nuova
professione!
Qualcuno leggerà l’insegna
e cercherà di dare una sbirciatina per farsi un’idea dell’allestimento, ma
sopra tutto vorrà adocchiare la faccia del pazzoide che si propone. Ma non è
detto che le commissioni non arrivino, per esempio, ad opera degli strambi
danarosi che vogliono stupire gli amici e magari appioppare loro una propria foto
con didascalia in versi.
Costi personalizzati – hai scritto? Dovrai
essere competitivo rispetto ai
prestampati del trend commerciale. Dovrai inventarti un cottimo.
E così, da poeta ti
trasformi in artigiano-scriba di te stesso, alle prese con le ballate e gli strambotti
e le ineludibili esigenze e scadenze imposte dai committenti. Se reggi e se gli
affari crescono, puoi sempre assumere poeti salariati e mettere su un’industria
niente male, con tanto di catena di montaggio.
Ma di essere poeta già hai cessato da un bel po’.
Dunque non si può
essere poeti al ritmo (presunto) industriale, a meno di replicare in copia il
tuo limitato prodotto in “giambi ed epodi”, lasciando al compratore/lettore il
compito di personalizzare, cioè di mettere del suo nell’interpretazione del
testo. Ciò che già avviene ad opera di quelli che leggono e regalano libri di
versi, ma in piccola percentuale. Infatti i libri di poesie restano per gran
parte invenduti, perché leggere poesia significa soggiacere all’esigenza di
decodificare con senso, cioè, come sopra, “personalizzare”.
Chi può
personalizzare, cioè smarcare sul testo il suo testo? Colui/colei che si avvale
di una pre-formazione educativa, della sensibilità e della cultura di base aperta a una dimensione di senso
che non prevede il semplice consumo, ma il godimento dell’inquietudine e della
ricerca di quanto, di sé come altro, nel testo si allude o si elude, si dice o
si tace, si libera o si inchioda. Può, chi sa interrogarlo e magari scuoterlo e
farlo suonare e vivere con la propria vita.
Ecco, la “voglia di
assaporare poesia, di chiedere poesia alla poesia” non nasce come il pelo sulla
tua pelle; piuttosto implica una formazione culturale che neppure cresce negli
orti o nei vasi dei balconi.
Mia cara italianissima
Patria, culla di poeti eccelsi, come puoi coltivare una pianta così nelle
scuole-pollaio? Come farla fiorire tra la ferraglia che si dice trasudi “valore
aggiunto” debordante profitto già infeudato, o pensare che si possa pomparla e vendere come
fosse petrolio o anche propinarla come si vendono ai turisti i paesaggi ritoccati in
cartolina sul Web?
Dunque la famosa frase
del poeta latino Orazio - Carmina non dant
panem – continua a funzionare adesso come allora.
Infatti i poeti
diventano poeti gestendo in sordina la propria poeticità (bulbo delicato),
intanto che praticano l’insegnamento, magari di letteratura e critica
letteraria, ma persino di storia, di psicologia, di architettura, nelle università
o altrove; e ve ne sono altri, maestri e prof., glottologi e linguisti
travestiti da precari, persino economisti e filosofi, ingegneri e consulenti
d’affari, attori, registi e – chi sa? -presidenti di società partecipate e
altri che intanto fanno i giornalisti, altri i contabili presso supermercati e
grandi magazzini.
Tutti costoro hanno
intanto, come tutti, un corpo vorace che corre dietro al pane ed eventuale
companatico. (Per carità di Patria, evito di accennare al mecenatismo
istituzionale!) Dunque anche coloro che scaldano il sogno di divenire “poeti
per i non poeti” ed eventuali fruitori, sono
costretti a fare i poeti della domenica e dei sonni brevi. Finché direttamente,
ma sopra tutto indirettamente, i sopravvissuti dell’avventura (siano solo
poeticamente morti gli altri!) non
incontrino il vento buono, non tanto del mercato, quanto piuttosto dei circoli e
delle riviste specialistiche. Lì talvolta, sebbene non frequentemente, (se il
bulbo poetico non si è infrollito) è possibile mettere insieme pane,
companatico e altro ancora, persino con i versi in cima.
Lì, forse, la poesia,
se non ha gemmato, forse gemma. Ma quando, dove e come gemma, non si sa. Nessuno
pare in ansiosa attesa del verso che verrà.
Nascerà quasi di
certo una piccola foresta di poeti colti che si leggeranno reciprocamente nei
salotti buoni di gente altolocata, lucida ben vestita e profumata che discuterà
in punta di forchetta le figure allusive, gli anacoluti, le anastrofi col
seguito di epistrofi e assonanze… Qualche verso farà di certo il botto con
l’onda lunga che minacci di uscire dal cancello… «Bello! Bello!» E intanto col seguito di «oh», la bella gente si osserverà
scambievolmente trucco, toilettes e indizi di sociale promozione, degusterà cibi sopraffini e nettare di- vino.
E i poeti? La loro
carriera l’hanno fatta, se l’hanno fatta, in un altrove impoetico. A filo di
arenili, in acque. Acque mosse dai sussulti delle borse piene di opzioni per i prototipi
e i modellini di mirabolanti gadget, virtualmente pronti a moltiplicare la
forza di lavoro di sparuti (e fortunatissimi!) drappelli di tecnici e operai in
tuta bianca, dove, tra torme di naufraghi di tutte le professioni, oscilla alla
deriva come un’ inservibile scialuppa,
la poesia.
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