lunedì 13 aprile 2015

La poesia “non serve” a niente.- Come un borborigmo di Bianca Mannu


Sembra una bestemmia, ma non lo è, nel senso che la poesia “non serve” non pùò “stare a servizio” di alcuno o alcunché, altrimenti non è. Vive senza rossori quella che doppiò i passaggi al limite di tale non voluta condizione.
Prescindendo dalla discussa e discutibile categoria estetica del «bello stile», comporre testi “con le righe corte”, o esercitare altre attività, non destinate alla sussistenza materiale o al raggiungimento di fini esterni a esse, vale per la gioia, per la passione, per il gusto e il tormento di quel fare, che non è strumento per altri fini, a meno di aggiungerli  in subordine
Invece parecchie persone non comprendono perché ci sia chi spende il suo tempo in cose così inutili come le poesie, mentre – sempre secondo costoro - vi sarebbero tante cose utili da fare per rendere comoda la vita propria e altrui; come se dal canto loro non si registrasse mai dispersione di tempo in attività “inutili” o semplicemente ricreative. I più, mentre moraleggiano sull’utile, concepiscono le loro ricreazioni come consumo di cose, in cui l’attività del pensare resta sospesa a una goduria vuota, a uno sbadiglio.
Riferisco alcuni stralci di conversazioni.

Qualcuno osserva: Le poesie non sono neppure come un racconto, che di solito è una storia scritta in modo comprensibile. Invece non sai mai bene di che argomento parlino, le poesie. Anche l’ordine delle parole è tutto scombinato. E tu devi fare una fatica del diavolo a riordinare tutte le parti del discorso come Dio comanda per capirci alcunché. Sono perfidi i poeti.

Però – dice un altrole poesie che  esprimono sentimenti ed emozioni attirano e qualche volta ti accorgi che certi sentimenti espressi con così belle parole sembrano essi stessi belli, dolori e sofferenze comprese. E allora ti identifichi. Inoltre ci sono poesie che ti dipingono paesaggi molto gradevoli: sembrano acquerelli, raffinati dipinti.

Dice un terzo: Allora preferisco il dipinto e non un succedaneo. E poi, che cosa intendi con “belle parole”, le frasi incomprensibili?

Il mio momento di godimentoassicura un quartoio non voglio sciuparlo andando dietro a un segno muto che mi propone dei rompicapo a ogni riga. Io voglio  godere in compagnia  e voglio qualcosa che arrivi dritto all’ orecchio e al cuore e magari accenda la mia voglia di muovermi.

Bravo! – Esclama un quinto – Sono d’accordo con te. Io credo che le sole poesie che meritano attenzione e passione siano le canzoni. Le ascolto dovunque e in continuazione. Se sono in lingua straniera, mi godo solo la musica e il ritmo.

La discussione potrebbe continuare all’infinito. Qualunque cosa si voglia intendere con “poesia” pare che la sola parola evochi in un buon numero di persone moti di sospetto e di rifiuto.
Or bene, il punto di vista, secondo cui abbiamo cose ben più utili da conseguire, riposa su una concezione strumentale della vita e del senso attribuitole. Si basa su uno schema povero che non contempla il forte contributo dato dalle attività di immaginazione e di operatività non finalizzate, libere, alle risoluzioni ben riuscite di problemi assai spinosi della vita umana  
Sono convinta che le opinioni sopra riferite e altre consimili sono l’esito di un miscuglio deprecabile di atteggiamenti culturalmente indotti, quindi non reminiscenze di primitivi e rozzi pregiudizi cronologicamente obsoleti, ma il prodotto ambivalente e confuso della civiltà(!) presente, tutta involta nell’ossessione monetaria che strangola le genti.
Quei discorsi fanno tornare in mente quell’atteggiamento che, non molti anni fa, ho osservato da parte di adulti verso i genitori di quei figli maschi che frequentavano le scuole di danza. La danza, a differenza della poesia, si poteva proporre come professione a tutti gli effetti, benché di esito avventuroso. Tuttavia allora, chi avviava i figli maschi in quella direzione era guardato come se li volesse femminilizzare o sollecitarli alla (dio salvi!) pratica omosessuale. «Fare il ballerino» era contiguo a «fare l’attrice» e entrambi erano pensati come abbastanza prossimi alla professione delle meretrici, sia pure di un certo rango.
Ma «fare il poeta» era un’espressione ancor meno diffusa e tollerata nei ceti medio-bassi della società e certo neppure indicava un’attività apprezzata; ancora maggiore sprezzo era posto verso la ragazza che avesse dichiarato di voler «fare la poetessa» e non la madre di famiglia o la suora.
Un’attività così, slegata dalla ricerca del guadagno era pressoché inconcepibile per un giovane “normale”,  a meno che non fosse praticata da un ricco nobile, cui per privilegio di classe, era lecita ogni stranezza. Dunque essere/diventare poeta, fra coloro che dovevano guadagnarsi la pagnotta lavorando, implicava essere piuttosto uno scioperato inconcludente.
Ancora adesso il comporre versi  non è considerato, da noi in Italia, una professione. Non dà reddito, perché pare che i testi in versi non siano ben accolti nei mercatini rionali o nei market, dove circola gran folla. Ciò non m'inquieterebbe se non intuissi l'approfondirsi dello iato tra le culture così dette di nicchia e la cultura di massa sempre più svilita ed evasiva come un placebo che deve addormentare il tormento di vivere in deprivazione.    
Quando i giovani vengono interpellati circa il loro destino professionale, nessuno dichiara apertamente di voler diventare poeta. E perché mai dovrebbe, dato che la poesia, in qualunque veste non spettacolare, non è un bene d’uso, “non serve” a creare uno status? Divenire  cantanti, sì, personaggi dello spettacolo, sì, modelli  e indossatori, sì, magari per raggiungere la pur breve notorietà tramite una "comparsata" negli show. Perché se hai il fisico, la loquela te la fai sul campo e così il repertorio da mostrare e i trucchi del mestiere, e quando sei nella ruota, incroci la domanda del gran pubblico. E allora tutte le sciocchezze che dici e fai sono per un momento quasi vangelo. Puoi firmare un libro sulle tue gesta private coi particolari in cronaca, troverai l'editore, invaderai  gli scaffali di librerie e supermercati, presenzierai come autore nei talk show.
Malgrado le note controindicazioni, qualche schizzato insiste nel voler fare poesia/ versi e di voler dedicare a tale attività, compresi studio e riflessione che vi  si collegano, tutto il suo tempo.
Se sei di questo avviso, dormi poco, frequenta libri, maneggia carta e penna e cimentati, dopo il lavoro e nelle pause festive consentite. Vedi se ciò che emerge rinforza il tuo intento.  Magari sul momento ti servirà da consolo e lo scalderai per un’esito possibile come il sottotenente Drogo  scaldava, morendovi, il suo eroico scontro con i Tartari.
Se ami la concretezza, se hai abbastanza soldi o una famiglia che foraggia i tuoi  “capricci”  e “sperimentalismi vuoti”, puoi affittare un locale e sul frontespizio dell’ingresso puoi affiggere un’insegna:
«POETA» Poesie per ogni occasione! Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – promozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi personalizzati. per ogni Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – prmozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi t
Ecco, t’inventi una nuova professione!
Qualcuno leggerà l’insegna e cercherà di dare una sbirciatina per farsi un’idea dell’allestimento, ma sopra tutto vorrà adocchiare la faccia del pazzoide che si propone. Ma non è detto che le commissioni non arrivino, per esempio, ad opera degli strambi danarosi che vogliono stupire gli amici e magari appioppare loro una propria foto con didascalia in versi.
Costi personalizzati hai scritto? Dovrai essere competitivo rispetto ai prestampati del trend commerciale. Dovrai inventarti un cottimo.
E così, da poeta ti trasformi in artigiano-scriba di te stesso, alle prese con le ballate e gli strambotti e le ineludibili esigenze e scadenze imposte dai committenti. Se reggi e se gli affari crescono, puoi sempre assumere poeti salariati e mettere su un’industria niente male, con tanto di catena di montaggio.  Ma di essere poeta già hai cessato da un bel po’.
Dunque non si può essere poeti al ritmo (presunto) industriale, a meno di replicare in copia il tuo limitato prodotto in “giambi ed epodi”, lasciando al compratore/lettore il compito di personalizzare, cioè di mettere del suo nell’interpretazione del testo. Ciò che già avviene ad opera di quelli che leggono e regalano libri di versi, ma in piccola percentuale. Infatti i libri di poesie restano per gran parte invenduti, perché leggere poesia significa soggiacere all’esigenza di decodificare con senso, cioè, come sopra, “personalizzare”.  
Chi può personalizzare, cioè smarcare sul testo il suo testo? Colui/colei che si avvale di una pre-formazione educativa, della sensibilità e della  cultura di base aperta a una dimensione di senso che non prevede il semplice consumo, ma il godimento dell’inquietudine e della ricerca di quanto, di sé come altro, nel testo si allude o si elude, si dice o si tace, si libera o si inchioda. Può, chi sa interrogarlo e magari scuoterlo e farlo suonare e vivere con la propria vita. 
Ecco, la “voglia di assaporare poesia, di chiedere poesia alla poesia” non nasce come il pelo sulla tua pelle; piuttosto implica una formazione culturale che neppure cresce negli orti o nei vasi dei balconi.
Mia cara italianissima Patria, culla di poeti eccelsi, come puoi coltivare una pianta così nelle scuole-pollaio? Come farla fiorire tra la ferraglia che si dice trasudi “valore aggiunto” debordante profitto già infeudato, o pensare che si possa pomparla e vendere come fosse petrolio o anche propinarla come si vendono ai turisti i paesaggi ritoccati in cartolina sul Web?  
Dunque la famosa frase del poeta latino Orazio - Carmina non dant panem – continua a funzionare adesso come allora.
Infatti i poeti diventano poeti gestendo in sordina la propria poeticità (bulbo delicato), intanto che praticano l’insegnamento, magari di letteratura e critica letteraria, ma persino di storia, di psicologia, di architettura, nelle università o altrove; e ve ne sono altri, maestri e prof., glottologi e linguisti travestiti da precari, persino economisti e filosofi, ingegneri e consulenti d’affari, attori, registi e – chi sa? -presidenti di società partecipate e altri che intanto fanno i giornalisti, altri i contabili presso supermercati e grandi magazzini.
Tutti costoro hanno intanto, come tutti, un corpo vorace che corre dietro al pane ed eventuale companatico. (Per carità di Patria, evito di accennare al mecenatismo istituzionale!) Dunque anche coloro che scaldano il sogno di divenire “poeti per i non poeti”  ed eventuali fruitori, sono costretti a fare i poeti della domenica e dei sonni brevi. Finché direttamente, ma sopra tutto indirettamente, i sopravvissuti dell’avventura (siano solo poeticamente morti  gli altri!) non incontrino il vento buono, non tanto del mercato, quanto piuttosto dei circoli e delle riviste specialistiche. Lì talvolta, sebbene non frequentemente, (se il bulbo poetico non si è infrollito) è possibile mettere insieme pane, companatico e altro ancora, persino con i versi in cima.
Lì, forse, la poesia, se non ha gemmato, forse gemma. Ma quando, dove e come gemma, non si sa. Nessuno pare in ansiosa attesa del verso che verrà.
Nascerà quasi di certo una piccola foresta di poeti colti che si leggeranno reciprocamente nei salotti buoni di gente altolocata, lucida ben vestita e profumata che discuterà in punta di forchetta le figure allusive, gli anacoluti, le anastrofi col seguito di epistrofi e assonanze… Qualche verso farà di certo il botto con l’onda lunga che minacci di uscire dal cancello… «Bello! Bello!» E intanto  col seguito di «oh», la bella gente si osserverà scambievolmente trucco, toilettes e indizi di sociale promozione,  degusterà cibi sopraffini e nettare di- vino.

E i poeti? La loro carriera l’hanno fatta, se l’hanno fatta, in un altrove impoetico. A filo di arenili, in acque. Acque mosse dai sussulti delle borse piene di opzioni per i prototipi e i modellini di mirabolanti gadget, virtualmente pronti a moltiplicare la forza di lavoro di sparuti (e fortunatissimi!) drappelli di tecnici e operai in tuta bianca, dove, tra torme di naufraghi di tutte le professioni, oscilla alla deriva come  un’ inservibile scialuppa, la poesia.

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