giovedì 21 gennaio 2021
Verbi e di-verbi: Malcontento also Solitudes for sale di Bianca Mannu

mercoledì 20 gennaio 2021
Malcontento also Solitudes for sale di Bianca Mannu
Malcontento
… Eh sì - bisogna fare i conti
con il caro-energia
con il caro-gas
e il prezzo dell’abba
di condotta …
A hundred problems and ... only
Dal tuo cellulare -
più assoluto dell’aria
che respiri -
percorri abbuiata i litorali dei social
dove pulsano miasmi e marasmi
delle digestioni e delle indigestioni
contrapposte – robe da curve
da stadio universale
Solitudes for sale
Anche tu – incredula come già
fosti d’ogni miope devozione -
pratichi adesso il monadismo
agglutinata alla poltiglia
del
sedicente postmodernismo
Da sola non muovi mezza biglia!
Parteggi ai derby di tutti gli
uguagliati
contro tutti … gli altri conformati
all’uguaglianza opposta
Ciascuno: alone for sale
Non si ha nulla appena in vista
non si percorre alcuna pista
né s’impasta alcuna pasta …
Si sta soli e - ad uno ad uno -
si è formata una muraglia
parata contro la marmaglia
dell’omologa faglia antagonista
For sale – solitudes …
Nello “stare contro” in ressa
-
visti così da una finestra -
pare quasi d’andare ad una festa!
Ma son guai per chi dai cori
tenti
staccarsi con “ma, signori”!
Dal nessuno calpestabile
passa al niente evaporabile …
Povero! and... alone lies paved! (povero e solo
giace asfaltato)
Lo
squarciagola cadenzato
ne fa strame in “inherit” stampato!
Tutto cessa in caratteri di stampa?
Macché! Invece - chi sa come?! –
ci lascia più d’uno in caratteri reali
anche lo scalpo con la zampa:
Go out of business!
.

martedì 19 gennaio 2021
Sa matana de sas dies=La fatica dei giorni - Altana e Mannu
N.- Un’atera donosa poesia istichida de versos prenos de sutzu chi nos istrinat Bianca Mannu, torrados in sarda undighina dae Antoni Altana.
Sa matana de sas dies
Portiscione de cudda
Incravada de rughe
in meriagu a suguzada brama
chi non cuntzedit nudda
a melodias de lughe
in rebotadas de abbusadu drama
tempu in filos de bau
cosit ribbas a ispau
in orijas diurnas che un’ama.
Dies chi s’assimizant
a ateras che giaos chi giaos fizant
in buca de mantessi
amprosa giaitadura
furisteras a chizas ispantadas…
sunt peressi peressi
rosarios de misura
bessidos in sas ribbas acutadas…
e paghe maleita
a isalenu e frita
cun mudores las tramat apedradas
tra seredda de ojos
in s’acuddala de rudes abbojos
La fatica dei giorni
Processione di giorni crocifissi
alla fretta meridiana del pasto
che nulla concede a melopèe
conviviali di drammi abusati.
Tempo contratto sul filo di bava:
crinale che incide e sutura
i due lobi coscritti del giorno.
come chiodi ad altri chiodi
alla bocca della stessa chiodaia.
E, inospiti, sgranano …
Dissimile è il rosario dei pensieri
Sorti agli estremi taglienti …
… degli orli.
Una pace cattiva li esala
e li intesse di silenzi petrosi
con l’ansito assiduo degli occhi
inselvati in un “oltre” profano.
Da Quot dies- pag 6.

martedì 12 gennaio 2021
Irredenti - da Sulla gobba del tempo - di Bianca Mannu
Irredenti
Come
rimessi a nuovo - sutura ombelicale
sensi
sangue saliva voce
lobi del
cervello e animali umori -
mi
furono promessi giorni
redenti
dai ceppi del servaggio
Astucci -
invece - pieni dei doveri dell’adesso
e
condotti di ripetute negazioni
per il
dopo e l’indomani
e tutti
i giorni appresso
Mi
transita in corsa - invisibile nume –
il nome
“homo” evocato invocato
imprecato
sprezzato strizzato
revocato
spezzato senso della vita
E alla
fine della fuga - scoppiata
in una
sincope del tempo - animali morti
sono i
giorni - intoccabili grevi ispidi
alla
pelle-sudario anticipato
per
sedizioni covate o sopraggiunte o riesumate
dal
cuore rancoroso degli imperi
Alitava
a fiotti - rigurgito di rancio -
dalla
bocca contratta nel respiro
il
vapore del tempo incatenato
all’inutile
pulsare della luce
che mi
accendeva il corpo
e ne
inventava l’ombra sul mio deserto
irto di
guerre e fraternità in conflitto
Ma più
assoluto s’annuncia l’annullarsi
del
tempo - troppo vasto e insieme nullo e repentino -
su una
soglia senza segno di lutto
e senza
voglia di resurrezione

giovedì 31 dicembre 2020
I miracoli di Bachisio - dalla silloge Dove trasvola il falco - Bianca Mannu
Capodanno 2001- 2002
Barbagia innevata. Un terzetto di amiche decidono di salutare il vecchio anno e di accogliere il nuovo sulla neve barbaricina. Fu così che il gestore dell'hotel le condusse in montagna dove sperimentarono gli effetti emotivi di una vera e propria tormenta. Parecchia adrenalina sul momento, ma l'esito fu relativamente felice. Il tono della composizione è da filastrocca. L'acrostico reca il nome non italianizzato della persona: Bachis. Molto diffuso nella zona.
Miracoli di Bachisio
E meno male che c’era Bachisio
che di - miracoli ne fa quanto Efisio.
Faceto raccontava questo e quello
ma non cedeva d'un solo capello!
Bordeggiava i dirupi con la gip
- e …
A
salti sgommando
doppiava i tornanti
Chiamandosi in gara con la gravità
e col vento …
Hi! Ohi, mamma! Ah!- noi vedevamo tutto il firmamento.
In quella trappola di ferri
tonanti
Si ballava – noi - come baccanti!
E meno male che c’era Bachisio
Che - di miracoli - ne fa più d’Efisio.
Da sopra il gippone antidiluviano
ci ha franato verso il piano.

domenica 27 dicembre 2020
Il fiume vero da Quot dies di Bianca Mannu
IL “FIUME VERO”
Abbracciando
rotondità
bianche di
ciottoli,
andava il
“fiume vero”.
Scioglieva,
modestamente sommesso,
un chiacchierio
d’acque basse
nella chiarità
selenica
d’argini senza
memoria d’erbe,
rassegnati alla
falcidia metallica
della solarità
incombente.
Soffriva con
bonaccia sospetta
la seduzione
bifida d’un ponte
rozzamente
arcionato alle anche
per un connubio
forzato,
da cui usciva
indenne,
il fiume,
rabbrividendo
di luci
moltiplicate
nei cauti
guizzi prospettici.
E fra gobbe si
perdeva
di corrugamenti
brulli
spatolati
d’opunzie,
aggiogando
l’occhio –
infantilmente
aguzzato –
alla
divinazione misterica
d’un canneto o
d’un anfratto
ansioso di
nozze clandestine
con l’umidore
indocile
di vena
assottigliata
saviamente
rapita – consenziente –
all’aerea
voracità
di bianca luce
ventosa.
O forse la
pupilla contratta
del mare
auspicava
tranquillo
l’agguato.
Ma il volo dei
corvi
annunciava
elicoidale
la ricorrenza
imminente
della siccità
deprecata;
e la prossimità
del mare,
intuita nella
melma
salmastra dei
pozzi,
uno sfregio
restava
d’inattingibile
freschezza.
Vinta la frode,
imposta
dal denotato
libresco,
adesso il “mio
fiume” esibiva
sopra il nome
lo schiaffo:
l’esistenza
ribelle di borro.
Se ora mostrava
ad incanto
l’obliqua
castità di mandorlo
in fioritura
sterilmente precoce,
la sassaia
calcinata del greto,
muta, narrava
discontinua irruenza
di predaci
piovaschi autunnali.

sabato 19 dicembre 2020
Il sogno di una cosa - Bianca Mannu
IL SOGNO D’UNA COSA
Troppo
chiaro il giorno:
raffiche
di luce
sulla
fatica di fare
e
sull’occhio torbido
di
tinte abituali.
Di
qua dal mare aperto
e
dai deserti
i
duri prodigi
del
bisogno stringente
orchestrano
usuali
gesti
e suoni
nell’alterno
fuggire
e
tornare del sole.
Persino
gli orrori,
impastati
con
pane e saliva,
abitano
la bonomia
familiare
dei nomi
gridati
nei vicoli,
e
quelli, additando,
ancora
concertano
eventi
d’uomini e cose
sempre
– già detti
e
un poco già vissuti.
Ma la notte …
solo la notte
ha
occhi di stelle!
Ma
la notte,
notte
del Sud,
nascendo
vetrosa
dalla
spenta luce,
s’ingravida
di prodigi
orfani
dei bagliori
accecanti
del giorno;
e
sosta in attesa
sulla
soglia degli occhi,
davanti
alla bocca
di
miele inatteso …
E il sogno,
concrezione
spettrale
di
speranze tenaci,
insiste
sul fondo scuro
della
luce assente.

mercoledì 25 novembre 2020
- Foemina - inedita di Bianca Mannu
Senza volerlo
nacque
Nel nascere bagnò
con l’urina
il suo primo vagito
Padre e madre
si tennero avvertiti
ch’era – pazienza! - una bambina
dalla naia indenne
non dalle trappole bastarde …
Così padre e madre
si spartirono a quarti
mezza gioia acerba:
che lei potesse eludere
la sorte trepidante e obliqua
tesa a misura di lumi sospesi
come doni feroci
all’ala notturna della morte
Lei - esclusa la tiepida poppata -
di gioia non ne ebbe alcuna –
solo il morso freddo d’un febbraio
di piombo e di mitraglia
E non s’avvide dell’ottuso gioco
dell’alternativa avara
Per una ed altre lei
scampate alla mattanza universale
la morte sarebbe arrivata
in mimesi – senza bagliori – in vita
e a poco a poco
Noticina - Un mio testo, di qualche anno fa, rielaborato al di fuori delle occasioni esterne. Benché i rituali abbiano la loro importanza, non li amo. Non amo nemmeno gli accenti vittimistici, perché sembrano attribuire fatalità e inamovibilità a condizioni diffuse, sottilissime, dall'apparenza psicologica anodina, ma ambiguamente costrittive perché si presentano come libere scelte. Esse sono iscritte in un clima generale, che trova nella sordità giuridica, politica, sociale e culturale la perpetuazione della più ancestrale demarcazione della perseguita e organizzata minorità femminile.
Non ascoltarti, o donna, quando più rassomigli alle immagini che ti vengono proposte come autentiche, come tue con l'approvazione generale. Usa il senso critico, anche quando ami.
Simbolo matematico di infinito, tanto simile al simbolo scelto per rappresentare la femminilità contemporanea.

lunedì 9 novembre 2020
Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu
Nel mio articolo precedente ho indicato nella
nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi
ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui
siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.
Quale sarà mai stato il
tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di
farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del
percorso attuale,(fase due, morbida o
durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti
quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si
potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo
“spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe
eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.
Già se ne percepiscono i
rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli
imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a
conteggiare i propri utili (dato che non
potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al
sostegno verso i più diseredati). Vorrà
risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo
preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti
a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi
margini di fronte alle persone che
sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto
paradisiache o, per così dire, niente affatto
umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza
trasformatrice che inerisce la massa
degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata,
vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati
pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in
presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il
personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà
timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale
inutile, chiudiamo i ranghi!
Non vado oltre. Voglio
andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei
non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un
fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio
periferico. Com’era il loro “prima” ?
Esemplifico e semplifico,
chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque,
caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media,
suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria
del bisogno del “tu” solitario si
coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come
moltitudine temibile.
Torno al «tu»: non hai un
lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh, adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un
altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi
col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a
dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando
piove … I tuoi familiari e tu stesso
potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere
ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le
famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto. Molto
del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente
familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati
“benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …
La
povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta
con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla
vista dei più, così le crisi di
coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.
Evito di fare riferimento
a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano nella piccola illegalità, cioè quella
ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di
tutti (anche dei benestanti che non si
ritengono mai tali) e lascia spazi (più
presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso
buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente
la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che
la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e
cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.
Il demagogo è sempre
pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze
antropologiche ineguagliabili, purtroppo decidue, precarie per causa e colpa di
quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie
e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna
sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì,
perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e
minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito,
magari scientifico!)
Perché la precarietà è il denominatore
comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica,
come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e
comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da
noi. E se per il magnate il senso di
precarietà surclassa di parecchio il suo
spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di
lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma
emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei
registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità
del suo essere fisico … e molto prima che il dissesto esistenziale abbia compiuto il
suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il
senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le
leggi e la cultura pongono a suo subordine.
Tale il sentimento che
anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che
non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di arginare l’incombente senso di perdita che fa
tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e
generazionale.
La libertà è una spinta
che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di
ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia
sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già
dentro una classe, un ceto. Ed è la
società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli,
a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono
nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente
i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente
stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.
Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il
quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla
potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e
doppia tragedia, sanitaria ed economica
in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci
doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica) su cui rifondarsi per poter uscire dalla
tempesta con danni contenuti.
Da qui si zompa sul
problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè sulla necessità di formare adeguatamente le
teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed
etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti
esistenti.
Costoro esprimono il ceto
politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo
sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse
economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una
ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi
meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.
Tanto per dirla tutta,
come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato
anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione
dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti,
per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che
l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili
nelle categorie più immediate del profitto privato.
L’attuale compagine di
governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua
componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere una parziale responsabilità nell’aver
colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit
iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei
confronti della sua storia e del suo antico elettorato.

martedì 3 novembre 2020
Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu
Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.
Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.
Allorché un evento inatteso, macroscopico e
pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente
scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in
un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci
a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di
difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di
conflitti malsani e con tentativi più o
meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente
rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise
disposizioni.
È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha
una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso:
prima e dopo.
Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del
“prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del
quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche
tratto che simboleggia e ricopre il
tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca
impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.
L’altro
senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico
diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza
del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di
obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.
Questo
tempo è come quello che lo scrittore
Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito
circa settant’anni or sono, ma vivo come
fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato
dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità
dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di
una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale.
Noi
siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come
animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al
presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo, la sua specifica
temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del
“prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi
imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei
confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di
pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di
ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece procede per cinquanta e più sfumature di
grigio.
Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con
chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per
danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di
accettare le politiche di solidarietà
sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e
di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni
che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.
Detto
ciò, andrebbe sottolineata
l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto
alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno
di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le
condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà,
le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza
insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle
terapie. Diversi studi condotti negli
Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza
pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il
ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella
privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro
ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.
Il
nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte
Sul
persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle
istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono
varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e
al crescere di economie distorcenti.
Poiché
le possibilità di altre pandemie (già
questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il
sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è
articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione
degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria
capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma
occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra
uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo
profitto.
Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale più matura e responsabile, governeranno meglio i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.
Ma
occorre cominciare ora e non riaprire le
vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione
(non premiale) dell’evasione fiscale.
Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione,
avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario
minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro
debito.
