mercoledì 27 gennaio 2021

Giornata della Memoria : In quadri - inediti di Bianca Mannu


 Nota - La documentazione storica, la letteratura e la poesia, (per il tramite dei suoi grandi Testimoni - cito per tutti Primo Levi), la pubblicistica sulla ricerca storica, la cinematografia, il teatro, la riflessione filosofica, la musica (col ricupero e la diffusione di quanto anche in condizioni di prigionia si produsse e fu memorizzato) sono la materia fondamentale su cui fondare la nostra memoria. Le Istituzioni statuali hanno il dovere di valorizzare ulteriormente e diffondere tali produzioni, così come di cercare nella contemporaneità i nessi viventi con quella memoria. E ciò viene fatto, malgrado le costrizioni della pandemia. 

Ma l'esercizio della memoria non può essere un rituale volto al passato. Ci sono, nella nostra vita quotidiana tutti i motivi per la nostra vigilanza sulle Shoah del momento presente, che sembrano e non sono meno orride, solo perché l'assetto mondiale attuale ha spezzettato le guerre e le persecuzioni e per un po' le porta sotto i nostri sguardi distratti, quasi incalliti alla sopportazione dei misfatti quotidiani. Chi sono gli espropriati, i perseguitati, le vittime designate del nostro tempo? Quelli che - nel tratto che i nostri occhi si prendono per tergere la sclera - sono già cancellati in un silenzio di spalle sollevate? Non si tratta di commemorare con poesie e racconti inventati per un contesto che risulta- ovviamente - appreso, distante dal vissuto immediato  e consegnato a una nicchia storica. E' troppo facile gridare adesso contro le leggi razziali del 1938! Ci sono milioni di bambini che muoiono di fame, che ammalano e che non possono essere curati, perché sembra primario il business dei medicinali... 

Che atteggiamento assumiamo, oggi, nei confronti delle diaspore che attraversano un'Europa quasi sorda e i suoi popoli chiusi nelle proprie paure e nei propri egoismi? Giorno della memoria è la coscienza critica da usare con lucida razionalità e cuore partecipe verso le inadempienze, le chiusure e gli affarismi del nostro tempo. Ricordiamoci che ci furono e ci sono molti gruppi etnici che subiscono quello che subirono ebrei, zingari, e altri popoli di diversi continenti, settant'anni or sono. 

Basandomi su questo genere di considerazioni e sentendomi concittadina dei viventi calpestati, non spezzo lance poetiche per quelli che già furono vittime e che, consapevoli, soffrirono e morirono affidandoci, col loro ricordo, l'impegno a non permettere repliche. Io mi chiedo che cosa o chi sono io, adesso, a chi mi voglio accostare, quali casi e ragioni hanno fatto sì che io sopravvivessi, senza meriti.

 Ecco, per chi voglia, la mia memoria di allora, testimone di quella casualità che decise fossi piccola  e fossi tra coloro che non furono oggetto di pogrom.         

1 - Quadri di storia patria 


Della razza iniziava appena la buriana
ma noi non avevamo il naso a uncino:
ci credevamo nati dal ceppo latino
e di entrare in Asse per virtù romana
 
Doti? Stimate meno che patacche
dal crucco  smargiasso - come poi si seppe –
che dopo il ‘18 si credette ariano
per stare al pari del bianco americano
 
Il nostro Lui - uscito maestro dalla scuola -
non volendo nel parlare parere fioco
gridò per un decennio a squarciagola
 
Fattosi di Cesare delfino e dux
s’insediò sopra tutti in alto loco
indi per poco fu maestro ai crucchi
 
E fu la guerra dei fascisti ciuchi.
Allora per forza toccò alla ciurma
degli animali sani bandir la schiuma
dei fascisti insani e cacciar dall'Italia 
cani nazisti e abbaianti crucchi .
 
2 - Quadri d’infanzia   

Io minuscola e presa in altra cura
immersa nel tempo di guaste stagioni
guizzavo sul suolo creduto a mia misura
sotto i baleni e in ambiti prigioni          
 
Un po’ di valle e un po’ di monte:   
uno sfondo per ubicare
il corpo mio d’infante
poco oltre il cortile familiare …
 
Più mitico ancora delle Colonne d’Ercole
il caso mi donò - con la voce paterna -
il “mare” in figura ed in parola nobile
con alone affettuoso di lucerna.
 
Per essa - dipinta come la madia
d’azzurro innocente giù in cucina –
s’apri di valli una felice Arcadia
sparsa di gente quieta e cittadina.
 
Un boato lacerò questa mia fola.
Dal cielo: “Bombe!” urlò tra la gragnuola
fuggendo a frotte scalza nella notte
la gente ansante verso boschi e grotte.

Me spaurita - issata su due braccia -
presi sonno come legno sul mare  -
sparso di fuochi e guizzi di lampare -
che col silenzio cedeva su bonaccia.

Nella veglia a sprazzi ricordavo
confusamente di tremare
spiando in cielo false stelle 
e l’aria ascoltando paventare
l’arrivo alto e orrido  di quelle!

 
 
3 - Ciò che resta …

Esistere per noi e me
- scarsi di corpo e magri indizi
d’anima in un culo di mondo –
pur nell’oscuro spavento
di mire ed abusi detonanti
dagli inspiegati Altrove -
… esistere era bazzicare “liberi”
tra il brullo monte delle capre
e uno spicchio appena ilare di valle:
china d’erbe  sotto l’incombere -
ignoto e a strappi - dell’ inferno …
 
Era come antiche lepri esistere! -
o tortore o pernici o persino faine -
ignare di doppiette spietate tra le siepi …
Ad ogni schiocco era un filare a vanvera
a scrollarsi l’ottuso panico dal cuore
aizzato dalla memoria immemore
che calcola prima d’ogni matematica
 
Scansarsi per un riflesso tanto antico
da sembrar connaturato al vivo:
scansare fossi d’ombra
e sfuggire all’ammicco d’ogni luce
irrigidirsi al pulsare timido di foglie …
Scansarsi sempre  non sapendo da che -
mingere panico – ma credersi … salvati
nel dare uno strillo fuor dalla paura

Triste oggidì: apprendi con stupore 
che non bastò la fifa in quelle ore:
farsi eredi d’un archiviato figuro
è come battere fuori tempo
su uno scassatissimo tamburo.


giovedì 21 gennaio 2021

mercoledì 20 gennaio 2021

Malcontento also Solitudes for sale di Bianca Mannu

Noticina -Esito di molte scoraggiate riflessioni sull'attuale spappolamento sociale e culturale del momento, ripreso e rivissuto anche tramite i media e i social. Ho voluto, secondo il mio solito attuale, introdurre a modo di ironico refrain qualche balbettio maccheronico in inglese. Sembra che oggi  non si possa fare a meno di soffrire un po' in quella lingua o in una sua stortura. Ma quando si tratta di elementi esistenziali, ci deve scappare un lemma in idioma ancestrale. 

Malcontento

… Eh sì - bisogna fare i conti

con il caro-energia

con il caro-gas

e il prezzo dell’abba

di condotta …

A hundred problems and ... only

 

Dal tuo cellulare -

più assoluto dell’aria che respiri -

percorri abbuiata i litorali dei social

dove pulsano miasmi e marasmi

delle digestioni e delle indigestioni

contrapposte – robe da curve

da stadio universale

Solitudes for sale

 

Anche tu – incredula come già

fosti d’ogni miope devozione -

pratichi adesso il monadismo

agglutinata alla poltiglia

del  sedicente postmodernismo

Da sola non muovi mezza biglia!

Parteggi ai derby di tutti gli uguagliati

contro tutti … gli altri conformati

all’uguaglianza opposta

Ciascuno: alone for sale

 

Non si ha nulla appena in vista

non si percorre alcuna pista

né s’impasta alcuna pasta …

Si sta soli e - ad uno ad uno -

si è formata una  muraglia

parata contro la marmaglia

dell’omologa faglia antagonista

For sale – solitudes …

 

Nello “stare contro”  in ressa

-  visti così da una finestra -

pare quasi d’andare ad una festa!

Ma son guai per chi dai cori

tenti  staccarsi con “ma, signori”!

Dal nessuno  calpestabile

passa al niente evaporabile …

Povero! and... alone lies paved! (povero e solo giace asfaltato)

 

Lo  squarciagola cadenzato

ne fa strame in “inherit” stampato!

Tutto cessa in caratteri di stampa?

Macché! Invece - chi sa come?! –

ci lascia più d’uno in caratteri reali

anche lo scalpo con la zampa:

Go out of business!





.

martedì 19 gennaio 2021

Sa matana de sas dies=La fatica dei giorni - Altana e Mannu

N.- Un’atera donosa poesia istichida de versos prenos de sutzu chi nos istrinat Bianca Mannu, torrados in sarda undighina dae Antoni Altana.

Sa matana de sas dies

Portiscione de cudda

Incravada de rughe

in meriagu a suguzada brama

chi non cuntzedit nudda

a melodias de lughe

in rebotadas de abbusadu drama

tempu in filos de bau

cosit ribbas a ispau

in orijas diurnas che un’ama.

Dies chi s’assimizant

a ateras che giaos chi giaos fizant

in buca de mantessi

amprosa giaitadura

furisteras a chizas ispantadas…

sunt peressi peressi

rosarios de misura

bessidos in sas ribbas acutadas…

e paghe maleita

a isalenu e frita

cun mudores las tramat apedradas

tra seredda de ojos

in s’acuddala de rudes abbojos


La fatica dei giorni

Processione di giorni crocifissi

alla fretta meridiana del pasto

che nulla concede a melopèe

conviviali di drammi abusati.

Tempo contratto sul filo di bava:

crinale che incide e sutura

i due lobi coscritti del giorno.

Giorni somiglianti ad altri giorni

come chiodi ad altri chiodi

alla bocca della stessa chiodaia.

E, inospiti, sgranano …

Dissimile è il rosario dei pensieri

Sorti agli estremi taglienti …

… degli orli.

Una pace cattiva li esala

e li intesse di silenzi petrosi

con l’ansito assiduo degli occhi

inselvati in un “oltre” profano.

Da Quot dies- pag 6.






martedì 12 gennaio 2021

Irredenti - da Sulla gobba del tempo - di Bianca Mannu

 




Irredenti

 

Come rimessi  a nuovo - sutura ombelicale 

sensi sangue saliva voce

lobi del cervello e animali umori -

mi furono promessi giorni 

redenti dai ceppi del servaggio

 

Astucci - invece - pieni dei doveri dell’adesso

e condotti di ripetute negazioni

per il dopo e l’indomani

e tutti i giorni appresso

 

Mi transita in corsa - invisibile nume –

il nome “homo” evocato invocato

imprecato sprezzato strizzato

revocato spezzato senso della vita

 

E alla fine della fuga - scoppiata

in una sincope del tempo - animali morti

sono i giorni - intoccabili grevi ispidi

alla pelle-sudario anticipato

per sedizioni covate o sopraggiunte o riesumate

dal cuore rancoroso degli imperi

 

Alitava a fiotti - rigurgito di rancio -

dalla bocca contratta nel respiro

il vapore del tempo incatenato

all’inutile pulsare della luce

che mi accendeva il corpo

e ne inventava l’ombra sul mio deserto

irto di guerre e fraternità in conflitto

 

Ma più assoluto s’annuncia l’annullarsi

del tempo - troppo vasto e insieme nullo e repentino -

su una soglia senza segno di lutto

e senza voglia di resurrezione


Noticina - Affonda nel fango dell'usato il grido flebile di coloro a cui viene indicato il destino a margine. Sembra assurdo, ma con covid o senza covid (possibile ed augurabile), sembra naufragare l'assoluto bisogno di istituire una condizione di giustizia sociale. Si levano più furiose e aspre le strida di coloro che hanno sempre realizzato guadagni favolosi procurando il o approfittando del disagio altrui e spostando nell'ordine dei propri interessi le risorse di tutti. (B.M.)   

giovedì 31 dicembre 2020

I miracoli di Bachisio - dalla silloge Dove trasvola il falco - Bianca Mannu

Capodanno 2001- 2002

Barbagia innevata. Un terzetto di amiche decidono di salutare il vecchio anno e di accogliere il nuovo sulla neve barbaricina. Fu così che il gestore dell'hotel le condusse in montagna dove sperimentarono gli effetti emotivi di una vera e propria tormenta. Parecchia adrenalina sul momento, ma l'esito fu relativamente felice. Il tono della composizione è da filastrocca. L'acrostico reca il nome non italianizzato della persona: Bachis. Molto diffuso nella zona.

 Miracoli di Bachisio

 E meno male che c’era Bachisio

che di - miracoli ne fa quanto Efisio.

Faceto raccontava questo e quello

ma non cedeva d'un solo capello!


 Bordeggiava i dirupi con la gip -  e …

A salti sgommando doppiava i tornanti

Chiamandosi in gara con la gravità e col vento …

Hi! Ohi, mamma! Ah!- noi vedevamo tutto il firmamento.

In quella trappola di ferri tonanti

Si ballava – noi - come baccanti!

  

E meno male che c’era Bachisio

Che - di miracoli - ne fa più d’Efisio.

 Da sopra il gippone antidiluviano

 ci ha franato verso il piano.

           

 


 



[1] Si allude a Sant’Efisio che, si racconta ,abbia salvato i cagliaritani dalla peste.


 

domenica 27 dicembre 2020

Il fiume vero da Quot dies di Bianca Mannu

Preambolo narrativo di Bianca
Quando nel mio libro di seconda classe leggevo di fiumi e barche, di fiumi dove l'acqua frusciava e mulinava, di ponti su quei fiumi sopra i quali viaggiavano anche i treni e le auto, la mia immaginazione si smarriva in qualche rara immagine e in cuor mio invidiavo coloro cui era possibile godere di simili esperienze. Mi guardavo intorno: non c'erano che strade assolate o fangose nel mio paese! Un fiume? Come poteva essere grande? Che colore poteva avere l'acqua? E c'erano le case lungo il greto? E i bambini che vi abitavano potevano liberamente giocare nell'acqua?
C'incamminammo verso la campagna noi scolari di seconda, con la maestra. Il sito era noto col nome di Sermenta e lì avremmo trovato un "fiume". Che delusione! Non era che un acquitrino! L'acqua bassissima stagnava in più punti. In qualche altro punto, intorno ai sassi e dove c'era un alvo più profondo, (l'acqua copriva i nostri piedi curiosi e poteva oltrepassare i malleoli) aveva un moto delicato, leggermente pulsante. Non c'erano vigne intorno, quindi il nome del luogo non si riferiva ai tralci della vite, ma ad altre piante come rovi, rose canine, sambuchi e una quantità di giunchi  che venivano mietuti per fare cesti. La maestra disse che era un torrente in magra. Ma per me non era fiume. Il "fiume vero", per così dire, lo scoprii due anni dopo, quando dovetti risiedere per un intero anno scolastico nel paese dei nonni.
E' ben vero che vi avevo risieduto per settimane, ma sempre d'estate. E d'estate non vedevo altro che una cunetta d'acqua marcia. E non mi facevo domande circa la funzione di un ponte che si diceva fosse romano, il quale scavalcava il dirupo sul cui fondo vedevo la stupida gora. Ma sopra di esso passavano carri mandrie e io stessa sul calesse del nonno che veniva a prelevarmi alla stazione dei treni situata sul pianoro a trecento metri sopra il paese. Ma quell'inverno, tra il 1949 e il 1950, io ebbi contatti ravvicinati con qualcosa che in certi tratti poteva rassomigliare un poco al classico fiume dei libri, avendolo seguito fisicamente in certe sue anse campestri e per i tempi delle sue evoluzioni stagionaliIn quell'esperienza e in quel ricordo si radicano le  impressioni che, nel testo poetico seguente, si organizzano a formare, piuttosto che le immagini realistiche del così detto fiume, la metafora del mio sentimento della vita in età ancora giovanile.  

                                    IL “FIUME VERO

 

Abbracciando rotondità

bianche di ciottoli,

andava il “fiume vero”.

Scioglieva, modestamente sommesso,

un chiacchierio d’acque basse

nella chiarità selenica

d’argini senza memoria d’erbe,

rassegnati alla falcidia metallica

della solarità incombente.

Soffriva con bonaccia sospetta

la seduzione bifida d’un ponte

rozzamente arcionato alle anche

per un connubio forzato,

da cui usciva indenne,

il fiume, rabbrividendo

di luci moltiplicate

nei cauti guizzi prospettici.

E fra gobbe si perdeva

di corrugamenti brulli

spatolati d’opunzie,

aggiogando l’occhio –

infantilmente aguzzato –

alla divinazione misterica

d’un canneto o d’un anfratto

ansioso di nozze clandestine

con l’umidore indocile

di vena assottigliata

saviamente rapita – consenziente –

all’aerea voracità

di bianca luce ventosa.

O forse la pupilla contratta

del mare auspicava

tranquillo l’agguato.

Ma il volo dei corvi

annunciava elicoidale

la ricorrenza imminente

della siccità deprecata;

e la prossimità del mare,

intuita nella melma

salmastra dei pozzi,

uno sfregio restava

d’inattingibile freschezza.

Vinta la frode, imposta

dal denotato libresco,

adesso il “mio fiume” esibiva

sopra il nome lo schiaffo:

l’esistenza ribelle di borro.

Se ora mostrava ad incanto

l’obliqua castità di mandorlo

in fioritura sterilmente precoce,

la sassaia calcinata del greto,

muta, narrava discontinua irruenza

di predaci piovaschi autunnali.

 

 





 

sabato 19 dicembre 2020

Il sogno di una cosa - Bianca Mannu

IL SOGNO D’UNA COSA

 

Troppo chiaro il giorno:

raffiche di luce

sulla fatica di fare

e sull’occhio torbido

di tinte abituali.

Di qua dal mare aperto

e dai deserti

i duri prodigi

del bisogno stringente

orchestrano usuali

gesti e suoni

nell’alterno fuggire

e tornare del sole.

 

Persino gli orrori,

impastati

con pane e saliva,

abitano la bonomia

familiare dei nomi

gridati nei vicoli,

e quelli, additando,

ancora concertano

eventi d’uomini e cose

sempre – già detti

e un poco già vissuti.

 

Ma la notte …

solo la notte

ha occhi di stelle!

Ma la notte,

notte del Sud,

nascendo vetrosa

dalla spenta luce,

s’ingravida di prodigi

orfani dei bagliori

accecanti del giorno;

e sosta in attesa

sulla soglia degli occhi,

davanti alla bocca

di miele inatteso …

E il sogno,

concrezione spettrale

di speranze tenaci,

insiste sul fondo scuro

della luce assente.

 











 

mercoledì 25 novembre 2020

- Foemina - inedita di Bianca Mannu


Foemina

                                                                       Senza  volerlo

                nacque

Nel nascere  bagnò

con l’urina 

il suo primo vagito

Padre e madre

si tennero avvertiti

ch’era – pazienza! - una bambina

dalla naia indenne

non dalle trappole bastarde …

 

Così padre e madre

si spartirono a quarti

mezza gioia acerba:

che lei potesse eludere

la sorte trepidante e obliqua

tesa a misura di lumi sospesi

come doni feroci

all’ala notturna della morte

 

Lei - esclusa la tiepida poppata  -

di gioia non ne ebbe alcuna –

solo il morso freddo d’un febbraio

di piombo e di mitraglia

E non s’avvide dell’ottuso gioco

dell’alternativa avara

 

Per una ed altre lei

scampate alla mattanza universale

la morte sarebbe arrivata

in mimesi – senza bagliori – in vita

e a poco a poco

 


 

Noticina - Un mio testo, di qualche anno fa, rielaborato al di fuori delle occasioni esterne. Benché i rituali abbiano la loro importanza, non li amo. Non amo nemmeno gli accenti vittimistici, perché sembrano attribuire fatalità e inamovibilità a condizioni diffuse, sottilissime, dall'apparenza psicologica anodina, ma ambiguamente costrittive perché si presentano come libere scelte. Esse sono iscritte in un clima generale, che trova nella sordità giuridica, politica, sociale e culturale la perpetuazione della più ancestrale demarcazione della perseguita e organizzata minorità femminile. 

Non ascoltarti, o donna, quando più rassomigli alle immagini che ti vengono proposte come autentiche, come  tue con l'approvazione generale. Usa il senso critico, anche quando ami.




Simbolo matematico di infinito, tanto simile al simbolo scelto per rappresentare la femminilità contemporanea. 

lunedì 9 novembre 2020

Il pensiero dell'adesso per il dopo di Bianca Mannu

 

 Nel mio articolo precedente ho indicato nella nostalgia per il passato,( quello per altro recentissimo) l’ostacolo a rendersi ragione dello stato presente pandemico. Mi riferisco anche ai primi periodi, in cui siamo apparsi, senza esserlo, più disciplinati.

Quale sarà mai stato il tempo antico del bene perduto? Era il tempo del “liberi tutti nell’arte di farsi i propri affari o di “arrangiarsi”. Ma quale che sia l’esito sociale del percorso attuale,(fase due, morbida o durissima), come prima, non sarà possibile! Non sarà uguale per tutti quelli che nel frattempo, per caso o per cure, risulteranno salvati. Non si potrà semplicemente tornare al vecchio andazzo. Non solo, ma un andazzo “spontaneo” può sfociare nella guerra di tutti contro tutti, che non sarebbe eroica e non porterebbe a nessuna vivibile composizione.

Già se ne percepiscono i rumori di fondo, paurosi e forieri di altri drammi. La platea degli imprenditori piccoli e grandi, messa alle corde, vorrà molto presto ritornare a conteggiare i propri utili (dato che non potrà essere risarcita in toto, mentre ha molto contestato il diritto al sostegno verso i più diseredati). Vorrà  risparmiare come prima sul costo della forza lavoro senza troppo preoccuparsi se coloro che sono rimasti in piedi siano, più di prima, disposti a sopportare mitemente pressioni schiavistiche. Non vorrà ridurre i suoi margini di fronte alle persone che sono la sorgente della forza di lavoro e che, come persone, rifiutino di essere corpi-cosa sotto sforzo per un tempo e per condizioni niente affatto paradisiache o, per così dire, niente affatto  umane. Anche perché la forza di lavoro non è un gas dell’aria, ma forza trasformatrice che inerisce  la massa degli operai fisico manuali e loro prole. Quella massa di persone, se scampata, vorrà riprendere al meglio il ruolo di lavoro e di stipendio. Gli impiegati pubblici vorranno riconsiderare se val meglio il lavoro a distanza o quello in presenza e saranno considerati i protetti fruitori del privilegio salutistico. Il personale medico e infermieristico accenderà candele a tutti i santi e avrà timore che, passata la buriana, qualche capo benpensante dica: troppo personale inutile, chiudiamo i ranghi!

Non vado oltre. Voglio andare ad annusare con la mente e col cuore la sorte che attende la folla dei non visibili, di quelli che solo per una iattura di troppo conservano appena un fortunoso ghirigoro negli elenchi anagrafici di un qualunque municipio periferico. Com’era il loro “prima” ?

Esemplifico e semplifico, chiedendo scusa per l’alleggerimento eccessivo. Ecco un «tu» qualunque, caso frequente, ma oggetto di attenzioni rarefatte e infastidite nei media, suscettibile di divenire invece oggetto di febbri e allarmi fobici (comprensibili) allorché la cattiveria del bisogno del “tu” solitario  si coagula in un «io» plurale magmatico, ed esce allo scoperto come moltitudine temibile.

Torno al «tu»: non hai un lavoro o ne hai uno precario con un minimo salario? Beh,  adesso ti adoperi di riempire i vuoti con un altro ancora più precario da cui sgocciola qualche pasto. Se non hai casa, puoi col minimo trovare tetto dentro una vecchia auto o dentro un vecchio stabile: a dormire con topi e blatte ci si abitua, si dice … Anche a lavarsi solo quando piove …  I tuoi familiari e tu stesso potete attivarvi per trovare compensazioni di ordine solidaristico o di genere ambiguo … mense, ripari collettivi, talvolta mani usuraie o anche niente. Le famiglie si frazionano: tu coi figli, io in auto.   Molto del tempo di vita si spende in tali ricerche … solitarie o in gruppo rigorosamente familiare, e sempre malsane negli esiti. Si rimediano lavoretti presso interessati “benefattori”, ma si fa sempre senza paracadute …   

 La povertà democratica abituale è endemica, esibisce una casistica che si acqueta con qualche intervento momentaneo, ma si mimetizza rapidamente o scompare alla vista dei più, così  le crisi di coscienza dei “buoni” si tacitano in gesti o solo in pensieri pietosi.   

Evito di fare riferimento a tutte quelle piccole azioni, più o meno evidenti e tollerate, che sconfinano  nella piccola illegalità, cioè quella ragnatela di omissioni che invisibilmente lubrifica il trantran quotidiano di tutti (anche dei benestanti che non si ritengono mai tali) e lascia spazi (più presunti che reali) anche ai più depauperati: di poter sognare il caso buono, il momento di festa, o comunque, la possibilità di non rendere evidente la propria diversità condizionata. Quella assoluta resta appannaggio di coloro che la portano scritta sul corpo: pelle, lingua, disabilità recessive, stracci e cielo aperto sopra. “Non devi esistere, sei fastidioso”.

Il demagogo è sempre pronto: tambureggia, incalza, preme sul fariseismo e l’ansia dei “buoni” gratificandoli di squisitezze antropologiche ineguagliabili, purtroppo  decidue, precarie per causa e colpa di quell’esercito di scalcagnati, indicati come sorgente di delinquenza, malattie e vizi vari. Lui, l’immarcescibile demagogo, contro altre evidenze, ci guadagna sempre la sua messe di sondaggi favorevoli. (Sì, perché, oltre tutto, imperversa quest’altra pestilenza: il sondaggio su tutto e minuto per minuto, senza che ci si possa soffermare sui problemi in modo pulito, magari scientifico!)   

 

 Perché la precarietà è il denominatore comune degli umani del nostro tempo, se non come condizione socioeconomica, come percezione e sentimento della vita, ma anche occasione irripetibile e comoda di controllo su cose e su persone come cose, ritenute e rese diverse da noi.  E se per il magnate il senso di precarietà  surclassa di parecchio il suo spazio fisico a comprendere il cerchio familiare fino al grande stuolo di lavoratori-macchina che animano gl’ingranaggi del suo sistema vitale (vedi Trump; tutt’altro che unico, ma emblematico), per l‘anonimo titolare di un nome seccamente scritto nei registri anagrafici, lo stesso sentimento scema assai presto e in prossimità del suo essere fisico … e molto prima  che  il dissesto esistenziale abbia compiuto il suo percorso. Tuttavia a ben considerare, anche costui tenterà di smagrire il senso della propria precarietà prevalendo su tutti i soggetti “deboli” che le leggi e la cultura pongono a suo subordine.

Tale il sentimento che anima quasi in tutti noi quella spinta, indicata a torto col nome di libertà; che non è propriamente libertà, ma il feticcio del potere (da piccolissimo a enorme) di  arginare l’incombente senso di perdita che fa tutt’uno con il senso della deperibilità dell’esistenza individuale e generazionale.

La libertà è una spinta che nasce sicuramente dai bisogni della pancia (insopprimibile animalità dell’uomo). Pancia, che pur essendo di ciascun individuo si è sempre presentata e si presenta da subito come pancia sociale, non fosse altro che per il fatto che ogni umano nasce cucciolo, ma già dentro una classe, un ceto.  Ed è la società, che più o meno lo accetta e ne definisce variamente sviluppi e ruoli, a fornirgli gli ambiti di libertà e di limiti. Non è la famigliola mono nucleare - quale siamo abituati a considerare, essendoci sfuggiti culturalmente i dentelli che connettono ogni vita a tutte le altre in modi diversamente stringenti - a fare tutta sola la sorte dell’infante a uomo/donna.    

Dunque la libertà è un crinale mobile, lungo il quale si giocano i rapporti di forza delle componenti sociali. E qui si viene alla potenza cubica del nodo: una società intera, alla stretta di un’incombente e doppia tragedia, sanitaria ed  economica in senso “iper” ecologico, deve ridefinire per tutti (dati come titolari di uguali diritti, con proporzionati e reciproci doveri), nel bel mezzo del suo difficile guado, il tasso di equilibrio sociale  (anche e sopra tutto nella teoria e pratica politica)  su cui rifondarsi per poter uscire dalla tempesta con danni contenuti.

Da qui si zompa sul problema gigantesco del sistema educativo scolastico e ricreativo, cioè  sulla necessità di formare adeguatamente le teste pensanti dei nostri piccoli e di affinare lo strumentario razionale ed etico-politico dei giovani, ma anche di indurre a discussioni più fondate gli adulti esistenti.

Costoro esprimono il ceto politico attuale nelle cui teste deve sorgere il progetto madre, l’atto di fondamentale giustizia: non solo sostenere pro tempore i deboli, ma progettare ed effettuare la raccolta delle risorse economiche accumulate fuorilegge, organizzarle socialmente a beneficio di una ricostruzione diversa dai battuti percorsi fallimentari, magari retta da nuovi meccanismi di più ampia pertinenza sociale e umana.   

Tanto per dirla tutta, come già detto, si può e si deve cominciare da ciò che può essere iniziato anche a livello di un singolo Stato: produrre le condizioni per l’emersione dell’accumulo speculativo e del sommerso, a cominciare dai livelli più alti, per costruire una ricchezza sociale capace di sostenere quelle istanze che l’economia liberista non sa, non vuole considerare, perché non inquadrabili nelle categorie più immediate del profitto privato.    

L’attuale compagine di governo può coraggiosamente muoversi in questo senso, in quanto, almeno una sua componente, avendo già governato, dovrebbe riconoscere  una parziale responsabilità nell’aver colpevolmente mancato di lungimiranza politico-sociale, e mi riferisco – absit iniuria verbis – segnatamente al PD, il quale ha più di un semplice debito nei confronti della sua storia e del suo antico elettorato.    

martedì 3 novembre 2020

Il luogo della nostalgia di Bianca Mannu

 

Uno dei sentimenti più diffusi e detestabili che entrano a far parte della psicologia sociale è la nostalgia. L’abbiamo avvertita nella sua manifestazione più rozza e acritica, per come all’allentarsi del lockdown abbiamo rapidamente gettato alle urtiche le nostre cautele sanitarie e morali rituffandoci in modo infantile e oblioso in ciò che la memoria ci indicava come un che di sostanziale e liberatorio, senza che lo fosse e mai lo sia stato. Quasi che tutto il timore e tutta la compressione provati fossero stati l’effetto di un cattivo sogno, abbiamo liquidato quell’esperienza nella convinzione di rituffarci  sani e salvi, non nel mondo di prima, ma in ciò che del mondo di prima si era già trasformato in mito, in luogo del desiderio, del semplice e indiscriminato godimento. Di fronte ad esso , la cautela e il raziocinio sono apparsi come catene da rompere senza indugio.

Non a caso parlo dell’immagine mentale fissata in memoria e non dell’immagine del mondo reale, quale è stato.

 Allorché un evento inatteso, macroscopico e pervasivo come lo è una pandemia virale ignota, irrompe nel nostro presente scombinando di colpo faticose abitudini e aspettative quotidiane, (senza che capiamo il perché e il come e in un’atmosfera ammorbata da mille pregiudizi e menzogne) dobbiamo assoggettarci a comportamenti inusuali, indotti da autorità preordinate alla necessità di difenderci da un pericolo incombente ambiguo e invisibile. È lo stato di all’erta, ma in un’atmosfera di conflitti malsani  e con tentativi più o meno destri di spostare altrove eventuali responsabilità, prima accanitamente rivendicate, facendo apparire come casuali eventi prodotti da precise disposizioni.

È in un tale nodo che il tempo (mio, tuo, del cittadino qualunque) ha una sorta di sincope: segna una fine e un inizio, emette una freccia bisenso: prima e dopo.

 Il “prima” si condensa allora in un senso di «bene perduto». L’immagine mentale che così andiamo a formarci del “prima” è il portato di una riduzione drastica: la vissuta complessità del quotidiano precedente si contrae, se ne trasceglie affettivamente qualche tratto  che simboleggia e ricopre il tutto di patina benevola e obliosa. Il tempo della normalità è ricordo, è teca impreziosita su cui posare lo sguardo della nostalgia.

L’altro senso della freccia indica l’inizio del tempo pandemico. Il tempo pandemico diventa subito costrittivo, pesante, ripetitivo, “tempo sospeso” alla cadenza del contagio e della malattia, tempo segnato dall’incombere di bisogni e di obblighi derivanti da una razionalità tanto necessaria quanto ispida.

Questo tempo  è come quello che lo scrittore Albert Camus, nel suo romanzo “La peste”, edito circa settant’anni  or sono, ma vivo come fosse scritto oggigiorno, chiama tempo “astratto”, perché dominato dall’accadere deprimente e mortifero della pestilenza che isola una comunità dal resto del mondo e dalla vita libera ma svagata, sorda alla declinazione di una imprescindibile e responsabile solidarietà sociale. 

Noi siamo entrati in un simile giro di boa. Siamo vissuti per quattro mesi come animali coatti e anche spaventati – chi più, chi meno – ma abbiamo negato al presente reale la sua plausibilità, il suo peso effettivo,  la sua specifica temporalità, il suo vero costo. Abbiamo carezzato l’immagine “falsa” del “prima”, abbiamo sopportato la necessità di commisurarci coi limiti gravosi imposti dagli studi epidemiologici sul campo circa i comportamenti del virus, ospite del nostro organismo, ma non l’abbiamo elaborata razionalmente nei confronti degli scambi relazionali ravvicinati e ci siamo dichiarati schiavi di pregiudizi medievali nei confronti delle discipline mediche e dei processi di ricerca scientifica, che quasi mai procede per bianchi o neri e invece  procede per cinquanta e più sfumature di grigio.  

 Ci siamo mostrati disposti ad accodarci con chi fa un uso politicamente scorretto delle restrizioni sanitarie per danneggiare gli avversari, o con coloro che si dimostrano incapaci di accettare  le politiche di solidarietà sociale, le quali non solo sono doverose in condizioni di stallo lavorativo e di macroscopica disparità sociale, ma sono garanzia di argine alle condizioni che favoriscono la marginalizzazione e quindi il contagio.

Detto ciò, andrebbe sottolineata  l’improponibilità del motto “siamo tutti sulla stessa barca” ripetuto alla nausea come verità adamantina, quale non è. Perché se è vero che ciascuno di noi è virtualmente pascolo ideale del virus, è altrettanto vero che le condizioni sociali e di reddito, le condizioni lavorative o la loro precarietà, le condizioni abitative, quelle scolastiche e culturali fanno la differenza insieme all’accesso tempestivo e adeguato alle strutture sanitarie e alle terapie. Diversi studi condotti  negli Stati Uniti e altri paesi Latinoamericani parlano di maggiore incidenza pandemica a danno delle classi povere. Da noi non si sa. Da noi si sa che il ricco Nord ha depresso la sanità pubblica e territoriale a pro di quella privata e adesso deve correre ai ripari e inventarsi da un giorno all’altro ospedali ultramoderni, ma non ha il personale sufficiente per attivarli.

Il nostro Sud appare sempre povero, un po’ cialtrone e anche rodomonte

Sul persistere di tali discrasie si radica la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, si alimentano risposte sociali di natura conflittuale, si aprono varchi, poi incolmabili, alle infiltrazioni delinquenziali di varia gravità e al crescere di economie distorcenti. 

Poiché le possibilità di altre pandemie (già questa in corso procede affiancata con gravi epidemie locali o con il sopravvivere endemico di cicli infettivi di varia natura ed eziologia) è articolata sulla crisi della biodiversità indotta dalla sistematica distruzione degli ambienti naturali, occorrerà progettare sistemi di prevenzione sanitaria capillare e organizzati sui territori, a beneficio di tutta la popolazione, ma occorrerà altresì una conversione netta del modo economico, diverso scambio tra uomo e natura, in cui il ruolo decisivo non può essere riposto nel solo profitto.

Nella misura in cui gli attuali governanti italiani ed europei riusciranno a trarre suggerimenti dalla specificità della situazione pandemica per dare il via a modelli alternativi di  organizzazione sociale, economica, culturale, anche i cittadini più sfiduciati più depressi e marginali saranno capaci di elaborare una soggettività sociale  più matura e responsabile, governeranno meglio  i propri il luogo della nostalgia godimenti e doveri.

Ma occorre  cominciare ora e non riaprire le vecchie danze. Mi aspetto la madre di tutti i cambiamenti necessari: l’emersione (non premiale) dell’evasione fiscale. Solo quando avremo messo a ruolo i circa centocinquanta miliardi di evasione, avremo asili scuole centri educativi, sanità di pregio per tutti, salario minimo garantito, lavoreremo un po’ meno, ma tutti, ed estingueremo il nostro debito.