martedì 9 giugno 2015

Report dalle cuspidi modulari -Inedita di Bianca Mannu



Curve tendenziali di numeri/profitto
segni dall’apparenza inerme
rivolti al cielo o al suolo
d’un misterioso quadrato cartesiano …
Come traiettorie d’aquiloni
cancellati alla vista
da siderali lontananze
s’incidono
s’intrecciano come gioco di voli
in un cielo  di cristalli liquidi
vietato al passaggio
di nuvoli e di venti …
Sono spie d’eventi/effetto –
capital gain realissimi e virtuali
difesi nei caveaux
Sono  vettori di valori
monetari
spinti da cupidi voleri
verso vertici di poteri  
tramite incitamenti per tattiche speciali
da sviluppare fuori scena
nelle quinte dei capannoni
alle bocche degli altiforni
nei cunicoli delle miniere
nelle modernissime
galere d’assemblaggio
di gadget e di high tech.
Dicono sia il senso del progresso
se l’operaio reprime
il suo bisogno d’andare al cesso
per meritarsi il posto di lavoro
e il favoloso tesoro
d’un miserabile mensile…
A tentare un’altra strada
si finisce come in Cile
o come in Argentina
oppure si accede
al “comunismo della Cina”
dove si condivide smog a tranci
e si appendono ai ganci educativi
i dissidenti …
… e i buoni affari rendono amici
gli antichi contendenti
Questo il portato dell’economia globale  
quasi una sorta di condizione
meteorica impersonale…
Passerebbe  come evento naturale
se non si vedesse il dito 
a indicare il grado d’appetito
in abito sociale
di certi uomini stempiati
seriamente impegnati
in un plausibile gioco
di procedura tecnica –
neutrale algoritmo - procedura razionale
d’innocue abilità
apprese per sorte e familiarità.
Cenni di freddo desiderio e  calcolo         
nel moto misurato della mano 
su quelle X di piglio svettante
d’apparenza un po’ casuale
e un po’ disciplinata –
disegnate come fregi di pregio
sulle scacchiere/schermo - lassù –
ai piani alti di sontuosi grattacieli
Lì – curiosamente – si dice -
siamo tutti ben rappresentati
nella forma essenziale di numeri
spogliati di tutti gli accidenti.
Tutti lì formalmente uguali -
Vedi, la democrazia?!
Quella che dura
che si stringe a misura 
di democratura - anche detta
democrazia matura!
Dal loro eminente qui
i signori del momento -
o forse per commissione
i loro abili scrivani -
si chinano un poco
sulla nostra infinitesima esistenza:
studiano la tendenza
e decidono il gioco delle partite
d’algebra sociale.
“Qual è lo scarto per eccesso o per difetto –
il limite insomma – chiediamo -
del quoziente stabilito o forse appetito?”
Convinta e secca la risposta:
“Questo non si può preordinare!
Questo dipende dalle linee di forza.”
“Dalla forza del dito?”
chiederebbe  Simplicio.
Ma quale dito mai!
Il dito  sono acque
son sottosuolo e mare
sono miniere e campi
sono stabilimenti e scuole
sono i pensieri introdotti
nelle teste dei  pensanti
con senso e senza assenso –
da discriminare!
Sono carceri e armamenti
per spegnere fermenti di dissenso
dovunque occorra l’assoluto
bisogno di quiete sociale.
Il dito affusolato del magnate
e quello asservito del commesso
infervorati lungo vettori ascensionali
sono la mossa gentile
d’una caccia spietata
ai muscoli e alle vite
di chi muove il badile
di chi apre le strade
di chi suda e  non vale
la sua stessa vita.
Dove mai siederà la pace -
se non nei cimiteri -
finché il quoziente
dell’imprescindibile equazione
dello scambio organico e sociale
spinto sull’alto crinale
dell’appetito personale
dell’interesse unilaterale
dei pachidermi umani
sta per principio etico e morale
di interessi così detti generali
a coprire gli orrendi genitali
del Leviatano capitale.    
       

Nota- Questa composizione è antecedente di qualche anno al mio precedente articolo/ invito all'eventuale lettore a praticare il pensiero divergente. Forse farà arrabbiare o inorridire i cultori del lirismo arcadico e romantico, dell'elzeviro elegante, dei rimatori rigorosi come dei suoi detrattori, dei frettolosi lettori. Tra sensi e segni e logiche ed assurdi, tra ciò che appare  e il molto che "dispare", mi tocca di forzare  lo stile all'asimmetrico cortile del villaggio globale! E viva la rima e il suo contrario!B.M.

venerdì 5 giugno 2015

E invece, andiamo a scuola del pensiero divergente! (Bianca Mannu ci prova)

I nostri politici e opinion maker si sgolano e si sbracciano a ripeterci che siamo fuori dalla crisi.
Crisi. Termine di origine greca derivante dal verbo krìnein -> decidere, con cui si indica uno stato transitorio di difficoltà economica che produce conseguenze di ordine sociale e politico, con mutamenti evidenti nei modelli sociali di identità e di comportamento, negli stili di vita, nelle concezioni culturali, nelle vite e psicologie individuali, formando un intreccio di problemi che dovrebbe dare adito a risoluzioni decisive.
Siamo più o meno consapevoli che il carattere interconnesso assunto dalle formazioni economico-sociali contemporanee (globalizzazione dell’economia, mobilità finanziaria, globalizzazione dell’informazione, della ricerca tecnico-scientifica,ecc.) fa in modo che un brusco mutamento, anche marginale e/o locale, nel prodursi e propagarsi accresca il suo potenziale di efficacia combinandosi con altri impulsi e causando in tutto il sistema mondiale dei veri e propri sconvolgimenti  di varia natura e temporalità.
A molti di noi, gente comune, sembra toccare il peggio – i diritti sfumano - mentre ogni plausibile spiegazione resta involta in confusi linguaggi e ogni decisione di salvezza sociale fuori dalla nostra portata.
La spiegazione medievale circa l’imperscrutabilità divina e il peso del peccato sulla distribuzione ineguale delle risorse e dei poteri fra gli umani, sopravvissuta fino a qualche decennio fa,  non può essere riproposta. Anzi sembra essere definitivamente sostituita da una specie di giusnaturalismo aggiornato, secondo cui nasciamo fisicamente simili, ma “naturalmente predisposti alla necessaria competizione sociale”: individui come gazzelle inseguite dai feroci felini che per altri, più feroci e più affamati, sono a loro volta gazzelle.
I maÎtres à penser ben remunerati  ripetono che gli squilibri sociali si sono forse originati  in quel gioco competitivo, che non sono appianabili e che nemmeno è desiderabile che lo siano, perché quel gioco sarebbe fisiologicamente sano e connaturato al giusto ricambio sociale e generazionale. Dunque gli squilibri non possono che presentarsi e ri-presentarsi come dato, intaccabile in misura minima con aggiustamenti migliorativi nei periodi di vacche grasse, cioè quando l’accumulo dei profitti è tale da tracimare dai caveaux dei pochi  e ricadere sulle sguarnite tavole dei più numerosi. (Leggi:effetti benefici del liberismo!)
Dunque siamo inguaribilmente disuguali sia per origine che per esito, a causa della diversa natura delle qualità mentali individuali, dell’aggressività, delle ambizioni, dalla forza di volontà e – parzialmente – anche in virtù  delle differenti condizioni di esistenza date, le quali sarebbero suscettibili di inversione e di miglioramenti, anche notevolissimi, per via dei meriti intellettuali, caratteriali e morali che l’individuo, nella sua incoercibile volontà di potenza, sarebbe capace di mobilitare per raggiungere i propri scopi realizzativi.
 Come dire che la tua povertà, la tua marginalità, le tue difficoltà sono da ascrivere alla tua pochezza, e magari alla tua infingardaggine o alla tua carenza del giusto tasso di aggressività.
Insomma, caro individuo, il tuo destino è unicamente nelle tue mani. Le leggi politiche, le regole economiche sono terra di nessuno: lì, liberi tutti. Dipende da te se la giochi bene o no.
In fin dei conti – qui lo dico, ma poi lo nego se non capisci il mio senso di moderazione – la morale è che la tua riuscita nel mercato del denaro e del potere (il bruscolo o l’eccesso di benessere di cui disponi, il potere di disporre sulla volontà altrui, la garanzia di debita distanza fisica  dalla vista dei morti viventi seminati sul tuo cammino, la distanza dalla loro e dalla tua puzza sbolognata sui loro cortili, ecc….) è ciò che conta, perché tu ti sei speso per la meritocrazia (= emerge e comanda che è bravo!) e tu ne sei la palese testimonianza. Dunque “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.

Ma, poiché il sangue non è acqua e poiché quella ratio non convince,  a questo punto si torna al “homo homini lupus”.  E al posto del Leviatano, Stato, Monarca mediatore imparziale dei contrapposti interessi, ci sono i potentati multinazionali dell’industria, della finanza e della ricerca scientifica e bellica (sostenuti e rinforzati da quelli politici e istituzionali saldamente al loro servizio, mentre il privato di calibro si arrangia bene negli interstizi!) che, molto unilateralmente, sono ben orientati a incrementare, con tutti i mezzi possibili, i propri poteri e a estendere il controllo sugli atteggiamenti e comportamenti delle moltitudini, anche e sopra tutto sulle menti e sulla formazione degli individui singoli, perché costoro smettano di immaginare il senso di possibili coesioni collettive, e non gli venga nemmeno in sogno di desiderare e cercare mezzi per superare in modo inedito questo e altri vicoli ciechi della realtà.

martedì 2 giugno 2015

"CRISI" di Bianca Mannu e "CRISI" di Antonio Altana

Vedere tradotto un proprio testo in versi  in un altro idioma è una formidabile emozione per una poeta poco nota, come me. "Tradotto" è riduttivo e improprio: un testo che parla dell'altro e di sé.  Ciò che conta non è, però, né la notorietà né la fama. Mi pare più essenziale che la mia fame, fame come carenza di cose che non sono cose - fame di giustizia sociale, fame di bellezza, fame di solidarietà e condivisione, fame di capire, fame di sapere, fame di amicizia e di ponti culturali, fame di tempo da restituire - sia motivo d'incontro con le carenze altrui: scoprirsi affratellati in questo senso di penuria da colmare e corrispondersi con parole dette/scritte, con parole lette/ritrovate, con parole che puoi solo annusare come aromi che scopri nuovi e antichi, aromi di idiomi che ti dormono dentro come un ricordo da risvegliare.
Non è possibile- mie scarse competenze informatiche - una esposizione a specchio. Ripropongo la mia vicino alla sua. Ecco come Antonio Altana dice  


CRISI
Un'atera prella de Bianca Mannu torrada in logudoresu dae Altana
(Un'altra composizione di Bianca M. tradotta in Sardo-Logudorese da A. Altana)
Comente apende ispostu
falsos grados
mustrat sos semos suos
sa tzitade
isbanderende fertas.
Isposta - torrat a ruer subra
sa disgana pesperale
de su sàpadu sou
istudende tonos e sonos
che cando - prontu pro s'ingalenare -
aeret respiradu abellu
pro no assuconare
su sonnu
cun s'anneu de calchi 
disasura.



Tzertas disgrascias
ant gia semadu
sas lozas segnoriles
e si pessighint 
comente note a die
subra sas franzas de famosos burgos
mujados e tancados
in sos cascos de sas ganas mai atatas.
In rugadorzos mazados dae sos bentos,
canes iscapos -
prus umanos de sos umanos -
raunzant solidade
a sos sacheddos de ciroloi
e a fozas bituleras.
Come avesse dismesso
i suoi falsi lustrini
rivela sue piaghe
la città
ostenta sue ferite.
Dimessa – ricade sopra
l’apatia crepuscolare
del suo sabato
smorzando toni e suoni
come se - preparandosi a dormire -
respirasse piano
per non spaventare
il sonno
con l’ansia di possibili
sventure.
Certe sciagure
hanno già segnato
i porticati nobili
e ricorrono
come la notte e il giorno
sopra  appendici e immemori suburbi
ripiegati e chiusi
sugli sbadigli di mai sazi appetiti.



Ai crocicchi battuti dai venti
cani sbandati  -
più umani degli umani -
ringhiano solitudine
alle buste di plastica
e alle foglie pellegrine.

Noticina Non aggiungo la nota in logudorese che però potrà essere letta cliccando sul post di oggi in https://www.facebook.com/bianc.mannu.7
or:blue'>e ricorrono



venerdì 29 maggio 2015

Verbi e di-verbi: Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da ...

Verbi e di-verbi: Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da ...: C'è, anzi c'era un padre che si raccontava alle figlie. Si raccontava di quando, non ancora padre, migrava in cerca di miglior fortu...

Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da DA NONNA ANNETTA di Bianca Mannu

C'è, anzi c'era un padre che si raccontava alle figlie. Si raccontava di quando, non ancora padre, migrava in cerca di miglior fortuna nel lavoro. Si raccontava di aver rivissuto in un vecchio bastimento che lo conduceva nel continente la propria sempre viva esperienza di guerra e di angoscia.
Ecco perché la  Paloma Mirau , figlia di Alfano e mio alter ego, può raccontare, nel libro citato, in quale modo la guerra in corso, che lei inconsapevolmente viveva e archiviava come  rumori paurosi, potesse avere un corrispettivo più drammatico, ma posto in un rassicurante passato dalle parole del genitore.
Il libro, come fosse una scatola cinese, contiene una guerra dentro l'altra, e due condizioni postbelliche molto difficili anche per una bambina abbastanza protetta, quale certamente fu. 
Pubblico queste due pagine in memoria dei caduti, parenti e alieni, della Prima  Grande Guerra e della Seconda che mi vide nascere, anche per dissentire fortemente dalla melassa patriottarda che è tracimata dalle ultime commemorazioni.  

"La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore, Pietro, compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio -temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia. Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso tornava comodo. I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. 
“È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata."

martedì 26 maggio 2015

Poeti e parole

I poeti hanno a che fare con quanto  materialmente li tocca e li ferisce  e con quant'altro dai corpi espande come luce, ombra e forse onda, d' incorporea insistenza: parole e segni d'alfabeti gonfi di febbri e di affezioni atti a combinare innaturali matrimoni e figliare creature stravaganti, intrusive, inquisitorie, lesive,derisorie,  lenitive, subdole ed elusive, aguzze e taglienti per scapezzare la banalità indecenti di certi materiali ambienti per nulla o troppo ospitali. Anche versi suadenti per lettori frettolosi e diffidenti .
Mi consento il lusso con la gioia di rubare due poesie a due poetesse ignare e di aggiungervi  la mia per fare
un terzetto, un cibreino, un guazzetto, né di cielo né di mare.


La parola piccola di Angela Argentino

Io la cerco la parola piccola e scolpita
vigile nel silenzio.

Mi tira in cerchio
dentro un mal di testa
e sta lì
a me sola visibile.



Una voce da tempo di Giuseppa Sicura 

Una  voce da tempo 
mi cammina a fianco
penetra nera nei silenzi


impalpabile luna
segue la mia orbita
spande le sue fosche ombre

e intanto dentro me
ogni granello si  fa montagna
ogni ferita figlia
di cellula impazzita

domenica 24 maggio 2015

Verbi e di-verbi: Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu

Verbi e di-verbi: Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu: Come avesse dismesso i suoi falsi lustrini rivela sue piaghe la città ostenta sue ferite. Dimessa – ricade sopra l’apatia c...

Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu


Come avesse dismesso
i suoi falsi lustrini
rivela sue piaghe
la città
ostenta sue ferite.
Dimessa – ricade sopra
l’apatia crepuscolare
del suo sabato
smorzando toni e suoni
come se - preparandosi a dormire -
respirasse piano
per non spaventare
il sonno
con l’ansia di possibili
sventure.
Certe sciagure
hanno già segnato
i porticati nobili
e ricorrono
come la notte e il giorno
sopra  appendici e immemori suburbi
ripiegati e chiusi
sugli sbadigli di mai sazi appetiti.
Ai crocicchi battuti dai venti
cani sbandati  -
più umani degli umani -
ringhiano solitudine
alle buste di plastica
e alle foglie pellegrine.













 Nota 2012/1929 Diversità del mezzo tecnico di ripresa, diversità dei look e il tempo di quasi tre generazioni. La fame e la disperazione pressoché identiche, così come la sostanziale inermità degli individui, dominati dalle angosce in veste strettamente personale, senza più quei riferimenti socio-politici che affratellino il "mio al tuo bisogno", che pure ciascuno sa quanto siano scandalosamente identici.
La presunta continuità degli elementi di supporto alla  vita si sono liquefatti tra la solidità apparentemente imperturbata delle geometrie delle città,  che uscirono un po' dalla tua testa e  molto dalle mani, senza appartenerti.
 Di tutte le ideologie con la mascella in fuori sembra non sia rimasto niente. E invece come sintomi ciechi, scavano nel sottosuolo della mente, come convulsi, senza discriminare le nature del male. E quando erompono sono grido, sono gesto di rabbia sotto il sole sporco. Ed è orrore quello che uno stomaco nutrito - chiamatosi fuori e divenuto occhio che guarda basso dal polpastrello dell' indice puntato - vede schizzare come un fango frammisto alla colpa e alla paura di questa umanità alle corde. 
E dopo - si vocifera sempre che ci sarà un dopo alle crisi, come l'arcobaleno dopo i temporali - non sai se il dopo sarà come sollievo al dolore che scema o se sarà il sentire  a scemare per assuefazione a quel dolore.




martedì 19 maggio 2015

''La libertà è Grazia'' poemetto di Angela Argentino (dedicato a Grazia Deledda) con nota di Bianca Mannu

Su un’isola, un paese ,
appeso al cielo e ai monti con un filo,
e nel paese,
la mia atavica casa.
( Ancora c’è, signora, ed è un museo !
Seduta al focolare
scrivo la musica della mia solitudine
e la ascolto sgorgare, da me, profonda ,
in assenza di gesti
e moto, armonia e sentimento unisce in stretto nodo .
( La ascolto anch’io, sa !! Lo scoppiettìo del fuoco nel camino
e l’ululato delle canne al vento coperto dal suono pesante di stivali .)
La mia libertà è il mio silenzio
che canta parole sulla carta
o leggende che scendo a raccogliere
nel fondo delle grotte
o nuraghi che vedo dall’alto,
quando mi apro a rapace volo di uccello,
sopra gli stagni della mia Sardegna .
(Ci sono tante ville sulla costa, ora
e qualche parco che protegge
la Storia e la Natura .
Tante pecore ancora… e i pastori...)
In questo cuore libero ho stivato l’infinito
e gli ho dato i confini rosei del tramonto all’Orthobene,
come lo vedo dentro la cornice della mia finestra .
(Si è accorta di me, signora, mentre le stavo accanto? )
Con parole mute,
invito al canto il cielo, i boschi ,
gli spiriti, le anime dei morti ,
perchè ho accordato il mio,
al cuore buono delle cose .
(Anch’ io, che bello !)
E millenaria saggezza ,
filata all’arcolaio,
mi ha parlato
dalla pietra del camino ,
nei lunghi inverni sardi .
(Non abbiamo più questo silenzio !)
Come formica non vista,
posata sopra un piede,
o come pulce impigliata
nello sporco pelo del cane,
ho misurato l’orgoglio feroce
e fumante dei maschi ,
appeso al taschino, come un orologio.
(Si sterilizza tutto e i cani non hanno parassiti ,
ma mi dicono che gli uomini non son cambiati.)
E ho udito la gente di questo paese
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne, a bordo dello stagno..
( Ora lo fanno sottovoce ...)
Mi sono liberata,con la mia scrittura,
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore,
annidato persino nei bambini .
( Lo so, signora, è nella poesia che trovo pace!
In essa, come lei , riverso l’innocenza .
E so piangere ancora per un tramonto o un’alba)
Io sono stata libera dentro il mio furore,
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
lontana ormai dalla Sardegna.
Portavo intera con me la tavolozza
dei luoghi tanto amati
e le boccette antiche di tutti i suoi profumi .
(So cosa vuol dire . Mi sono abbassata
ad odorare ognuna delle piante
che lei mi ha indicato .
E dei colori che, dagli occhi al cuore sono scesi, ho ricercato in me fine achimia !)
Andavo a cavallo,
con un fratello che ho lasciato indietro,
ad ascoltare voci di leggende antiche.
E imprigionavo insieme,
nel mio sguardo,
il verde neonato delle foglie,
con la più scura luce del lentischio pingue,
l’ombra di un umido versante
dove il verde muschiato
dal carnale aroma,
beveva alle sorgenti,
verso la montagna.
(Si è accorta di me, signora, sulla strada verso il Santuario ier l’altro mentre la seguivo ?)
Se un filo appena,
di salso vento,
si insinuava tra le mie montagne,
io mi alzavo in terribile volo
e lo seguivo
fino alla costa,
filata di garze e di cotone
che avevo già tinto di profondo azzurro,
ancor prima di aprire le ali.
(Quante volte lo faccio nei miei sogni !)
Alla fine, sì, ho soppesato il bene e il male
negli uomini tozzi che ho abbandonato,
che non mi hanno detto mai
quant’erano belli i miei neri occhi di jana.
Un giorno, ho lasciato andare anche la vita.
Senza strepiti, senza confusione.
Io sono libera e sono Grazia.
(E’ stato un piacere , signora, ed un onore !
Io sono Angela .)
Nota di Bianca 
Complimenti, ad  Angela Argentino , per questo dialogo profondamente vissuto e scritto con un ritmo e un lessico che testimoniano un'intima adesione al mondo e alla solitudine della grande scrittrice sarda. Un poemetto a due voci in cui colgo il penetrante tocco della poetessa Angela per la difficile relazione di Grazia con l'obliquità del suo ambiente umano, con la difficile sua condizione di fanciulla e poi donna votata all'imperio della sua libertà e tuttavia consapevole di dover sottrarre al morso ferino del sospetto e al bavaglio della limitazione familistica e subordinata alla rozzezza dell'ordine paterno il suo fervido immaginario e il suo pensiero incredibilmente acuto e moderno.
Ritorno su questi  tornanti
…”ho misurato l’orgoglio feroce
e fumante dei maschi ,…
…ho udito la gente di questo paese
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne, 
( Ora lo fanno sottovoce ...)

Mi sono liberata,con la mia scrittura,
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore…

Io sono stata libera dentro il mio furore,
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
lontana ormai dalla Sardegna….

Andavo a cavallo,
con un fratello che ho lasciato indietro,
ad ascoltare voci di leggende antiche. 

Angela ha colto con acuta penetrazione e in brevi accenni la condizione di certo maschilismo ancestrale nostrano, più torvo e marcato tra i monti,  quello antico e quello rimasto attaccato alla tuttora imbarbarita  e non pensata  aretè del villaggio e della città, di nuovo tornata, questa,  a ripiegarsi sul suo sonno e sogno da clan, a formare il collage di villaggi moltiplicati e giustapposti.  
Ha colto, Angela, la fatica di Grazia nel vivere la vita e la scrittura; e ci indica il prezzo dello scotto pagato. E ora  unisco al loro  il mio affanno, come una pelle agra che, in quanto donne e donne d’Isola, ancora ci avvolge e serra, confricando carni e anima, quasi fossimo i prigioni  michelangioleschi, entro i ruoli petrosi del passato che non passa e i rostri di una modernità ammiccante e di facciata, compiacente agli intenti di ri-piegarci al ruoli di monili o di schiave della sussistenza.
Più che in altri luoghi d’Europa, qui la crisi strappa al bisogno di cultura i denti  e ci ripropone la cattiva cera d’un pallido ottocento sul liquame del morto novecento, che trabocca dalle crepe del trucco manigoldo. 

sabato 16 maggio 2015

Comincia come... un vizio!

Si comincia a scrivere per un incoercibile bisogno di guardarsi dentro in un periodo della vita, nell'adolescenza, in cui ci domina l'ansia di sapere chi o che cosa siamo, proprio perché la nostra configurazione personale è ancora incerta e molto mobile. 
Con la maturità, di solito si perde il vizio. Se perdura, vuol dire che la costruzione dell'io-me ci impegna sempre,ed è lì, nel perdurare dello scavo che si produce il desiderio di colloquio,talora spiccatamente inquisitorio e antagonistico, con gli umani che hanno preso dimora presso l'io-me-noi col corrispettivo corredo di enti-mondo. Essendo esseri unitari e contemporaneamente plurimi, il discorso con se stessi non è mai esaustivo né pienamente soddisfacente. 
Le letture e le esperienze scolpiscono sensibilità, mente, immaginazione. Il nostro linguaggio diviene  plastico e comincia a prodursi in giochi inattesi, in costruzioni  che assumono logiche  diverse, talora carsiche, con effetti che risultano a noi stessi sorprendenti. 
E a quel punto si fa strada il bisogno di condividere tali effetti con altri; o meglio immaginiamo una condivisione a largo raggio, di cui poi abbiamo ben magro riscontro, anche qualora le statistiche ci comunichino che i nostri scritti siano letti da molti. 
Il lettore raramente si qualifica come corrispondente. Eppure tutti gli scrittori vivono di questa illusione. In realtà  sono gli scritti dei critici, degli intervistatori, dei recensori a offrire il supporto di questa illusione . Ed essa acquista una consistenza realistica se, almeno per un po', i tuoi critici, i tuoi estimatori i tuoi recensori sono a loro volta noti, autorevoli, famosi, capaci di succhiare dal tuo discorso ciò  che incuriosisce e/o invoglia la folla poco nutrita dei lettori.     

Scrittura come messaggio?, di Bianca Mannu [Pensieri] :: LaRecherche.it

Scrittura come messaggio?, di Bianca Mannu [Pensieri] :: LaRecherche.it

mercoledì 13 maggio 2015

Libere riflessioni sulla "poesia"


 Come un poema musicale, un discorso poetico richiede più ascolti o più letture per essere giustamente apprezzato.
 Intanto, anche quando una raccolta di versi si articola intorno a un tema oppure gioca su modulazioni scaturite da uno stesso nucleo ritmico e timbrico, difficilmente rivela subito i segreti dei suoi stilemi e le sue trovate, a meno che non si connoti come variazione specifica di una “scuola” , di una maniera  in auge. Ma anche quando si verifichi  tale condizione, occorre sempre soffermarsi  per cogliere le differenze specifiche, la singolarità, che è ciò a cui aspira l’artista.
 Insomma l’idea che l’elaborato  in versi esibisca  subito il proprio portato poetico nel passaggio lineare dal segno grafico alle corde recettive dell’anima e della mente per mezzo dell’immediata scansione visiva e/o sonora, è un’idea falsa e perniciosa. Perché? 
Perché, a torto o a ragione, si assimila acriticamente l’elaborato a un gusto preformato o lo si rifiuta per l’impressione immediata  che se ne discosti. Così non si valorizza la sua particolarità, anzi la si diluisce nel fiume dei motivi abituali. Con ciò  si prescinde anche dal fatto che il discorso poetico possa  convogliare  idee, concetti e forme che esorbitano e talora confliggano col senso comune e con i moduli cristallizzati.
Queste semplici considerazioni  conducono a un quesito: che cosa è la poesia? Al di là del fatto che comunemente con il termine “poesia”  si denota un discorso secondo regole metriche più o meno fisse,  è improbabile che possa essere ridotto a quest’unica peculiarità. Semplificando al massimo, con quel  termine  vogliamo indicare un insieme di effetti  semiologici e semantici, i quali variano da epoca a epoca, da lingua a lingua, da cultura e cultura. Essi implicano anche un ampio ventaglio di nessi e riferimenti con diversi territori del pensiero cristallizzato e militante, quello scientifico/tecnico compreso .
Se così stanno le cose, occorre entrare nell’ordine d’idee che il prodotto così detto poetico va considerato  a tutti gli effetti come una manifestazione articolata e complessa  dell’intelletto umano tramite la elaborazione stilistica della parola, e non riducibile a pura e unilaterale espressione dell’emozione e del sentimento .
Bisogna farsi consapevoli che il concetto di poesia come espressione eminente della soggettività individuale quale fulcro della relazione Io/Mondo, in cui prevale il sentimento personale  come centro unificatore della pluralità  e dell’alterità , è nato col romance medievale e si è riproposto, amplificato e arricchito delle scoperte della psicologia e anche delle inquietudini etico/sociali, nel Romanticismo.
Nella prospettiva di continuare il discorso, agli appassionati e ai curiosi dedico ancora queste pressoché minimaliste

Fabulazioni

Come di passi una fuga
lungo androni
di niente
sdrucciolano fabulazioni -
senza memoria
di senso -
s’affrettano  verso
fine e fini-
occlusi oppure
no -
indefinibili
forse -
fradice di razionali
forme
e forre
e fori
casualmente fuse
in croci
di ramaglie conturbate
da estasi
selvagge
sotto croste di licheni
ispessite
di stanca vecchiezza
esauste
sorde
ai richiami dei venti
singhiozzanti
nell’asmatico flusso
delle antiche lune
affogate nei pozzi
o assiderate
  nella brina
che martirizza i germogli


lunedì 11 maggio 2015

Parole squillanti - tratta da Tra fori di senso di Bianca Mannu



Parole squillanti

Non sono le parole squillanti
case piene di campanelli
o di arredi sonanti.
Certo vi troverai  le arpe
al posto dei cancelli.
Campati a vela – svettano campanili
sul tetto  di richiami dai cortili.
Camere per appelli – tante –
e stanze di grido – alte –
esposte alle fughe cardinali
delle finestre aperte.
Non mancano camere deserte
con timpani speciali
per archiviarci inopinati tuoni.
Gorgheggi sui balconi
e alzate di fischi tra le gronde.
Per essi tremano le onde
sensibili dell’aria nei dintorni
sfessurando ance di corni
e tubi lamentosi  di clarini
dispersi  in bagni e magazzini.
Sotto le scale o giù  nella cantina-
confinati – gli urli della pancia.
Una manciata di sibili in cucina.
Ma nella veranda – come in una plancia –
trombe d’argento tubano nel vento.
Intanto scale di note – a tortiglioni –
orchestrano corse di trilli da soprano
per innalzarli al più nobile vano.
Solfeggi e vocalizzi sui bassi toni
indugiano sulle soglie dei portoni
o sgusciano veloci negli androni.
Come straniero venuto di lontano
spetezzando col tuo clacson
dal piano della strada
cercherai un garage – invano.
Esibendo con faccia tosta
la tua poca educazione
arriverai al diapason
della sopportazione
delle sillabe in sosta
d’attesa di gestione.
Poi partirai rombando
verso altra contrada.
.Ma quando –
quando e sopra il tutto –
la notte si distenda fonda
per strati di silenzio –
allora è dello spazio – muto –
il tempo e l’onda …
Forse lì ogni senso sprofonda.

Nota Le parole, i loro accostamenti inusuali e un poco strampalati creano significati paradossali , decostruiscono gli schemi consueti della comunicazione e tuttavia riescono ad alludere obliquamente e ironicamente a situazioni che viviamo comunemente nelle quali siamo consegnati ad effetti stranianti. B.M.