Ecco perché la Paloma Mirau , figlia di Alfano e mio alter ego, può raccontare, nel libro citato, in quale modo la guerra in corso, che lei inconsapevolmente viveva e archiviava come rumori paurosi, potesse avere un corrispettivo più drammatico, ma posto in un rassicurante passato dalle parole del genitore.
Il libro, come fosse una scatola cinese, contiene una guerra dentro l'altra, e due condizioni postbelliche molto difficili anche per una bambina abbastanza protetta, quale certamente fu.
Pubblico queste due pagine in memoria dei caduti, parenti e alieni, della Prima Grande Guerra e della Seconda che mi vide nascere, anche per dissentire fortemente dalla melassa patriottarda che è tracimata dalle ultime commemorazioni.
"La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che
arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in
quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore
concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore, Pietro, compiva già
un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato
ad espletare il servizio -temporaneamente
- come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle
retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava
di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a
fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio
restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e
vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante
crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo
stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare
ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava
incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente
imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
“Va’, imbecille. Così impari!”
aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E
s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia. Il
freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un
cuoio sospetto. Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla
propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo
come i russi l’anno avanti. Ma adesso tornava comodo. I Comandi pompavano per
una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva
più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe
rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un
dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per
un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora
Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per
andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del
ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano
storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più
diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del
treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di
coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un
altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione
sensoriale perduta, di un’emozione sopita. Un pensiero ispessito - da adulto -
che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli
spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si
sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere
il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale
incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano
sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni
schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile
entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi
sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che
tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia,
l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al
capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del
mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al
volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la
vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello
Pietro (“inutile eroe” della presa
della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha
tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo
emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato
piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era
quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava
terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista
e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure
notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe
sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di
Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato
in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti
arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le
buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e
l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo
cacciò.
“È mai possibile che le vecchie
bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi
sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi
rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso
al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il
mare divenne grosso e il viaggio si protrasse
di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia
carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i
panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata."
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