venerdì 29 maggio 2015
Verbi e di-verbi: Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da ...
Verbi e di-verbi: Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da ...: C'è, anzi c'era un padre che si raccontava alle figlie. Si raccontava di quando, non ancora padre, migrava in cerca di miglior fortu...

Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da DA NONNA ANNETTA di Bianca Mannu
C'è, anzi c'era un padre che si raccontava alle figlie. Si raccontava di quando, non ancora padre, migrava in cerca di miglior fortuna nel lavoro. Si raccontava di aver rivissuto in un vecchio bastimento che lo conduceva nel continente la propria sempre viva esperienza di guerra e di angoscia.
Ecco perché la Paloma Mirau , figlia di Alfano e mio alter ego, può raccontare, nel libro citato, in quale modo la guerra in corso, che lei inconsapevolmente viveva e archiviava come rumori paurosi, potesse avere un corrispettivo più drammatico, ma posto in un rassicurante passato dalle parole del genitore.
Il libro, come fosse una scatola cinese, contiene una guerra dentro l'altra, e due condizioni postbelliche molto difficili anche per una bambina abbastanza protetta, quale certamente fu.
Pubblico queste due pagine in memoria dei caduti, parenti e alieni, della Prima Grande Guerra e della Seconda che mi vide nascere, anche per dissentire fortemente dalla melassa patriottarda che è tracimata dalle ultime commemorazioni.
Ecco perché la Paloma Mirau , figlia di Alfano e mio alter ego, può raccontare, nel libro citato, in quale modo la guerra in corso, che lei inconsapevolmente viveva e archiviava come rumori paurosi, potesse avere un corrispettivo più drammatico, ma posto in un rassicurante passato dalle parole del genitore.
Il libro, come fosse una scatola cinese, contiene una guerra dentro l'altra, e due condizioni postbelliche molto difficili anche per una bambina abbastanza protetta, quale certamente fu.
Pubblico queste due pagine in memoria dei caduti, parenti e alieni, della Prima Grande Guerra e della Seconda che mi vide nascere, anche per dissentire fortemente dalla melassa patriottarda che è tracimata dalle ultime commemorazioni.
"La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che
arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in
quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore
concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore, Pietro, compiva già
un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato
ad espletare il servizio -temporaneamente
- come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle
retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava
di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a
fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio
restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e
vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante
crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo
stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare
ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava
incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente
imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
“Va’, imbecille. Così impari!”
aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E
s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia. Il
freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un
cuoio sospetto. Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla
propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo
come i russi l’anno avanti. Ma adesso tornava comodo. I Comandi pompavano per
una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva
più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe
rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un
dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per
un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora
Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per
andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del
ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano
storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più
diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del
treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di
coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un
altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione
sensoriale perduta, di un’emozione sopita. Un pensiero ispessito - da adulto -
che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli
spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si
sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere
il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale
incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano
sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni
schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile
entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi
sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che
tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia,
l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al
capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del
mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al
volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la
vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello
Pietro (“inutile eroe” della presa
della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha
tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo
emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato
piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era
quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava
terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista
e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure
notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe
sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di
Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato
in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti
arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le
buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e
l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo
cacciò.
“È mai possibile che le vecchie
bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi
sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi
rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso
al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il
mare divenne grosso e il viaggio si protrasse
di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia
carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i
panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata."
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Prosa narrativa

martedì 26 maggio 2015
Poeti e parole
I poeti hanno a che fare con quanto materialmente li tocca e li ferisce e con quant'altro dai corpi espande come luce, ombra e forse onda, d' incorporea insistenza: parole e segni d'alfabeti gonfi di febbri e di affezioni atti a combinare innaturali matrimoni e figliare creature stravaganti, intrusive, inquisitorie, lesive,derisorie, lenitive, subdole ed elusive, aguzze e taglienti per scapezzare la banalità indecenti di certi materiali ambienti per nulla o troppo ospitali. Anche versi suadenti per lettori frettolosi e diffidenti .
Mi consento il lusso con la gioia di rubare due poesie a due poetesse ignare e di aggiungervi la mia per fare
un terzetto, un cibreino, un guazzetto, né di cielo né di mare.
La parola piccola di Angela Argentino
Io la cerco la parola piccola e scolpita
vigile nel silenzio.
Mi tira in cerchio
dentro un mal di testa
e sta lì
a me sola visibile.
Una voce da tempo di Giuseppa Sicura
Una voce da tempo
mi cammina a fianco
penetra nera nei silenzi
impalpabile luna
segue la mia orbita
spande le sue fosche ombre
e intanto dentro me
ogni granello si fa montagna
ogni ferita figlia
di cellula impazzita
Mi consento il lusso con la gioia di rubare due poesie a due poetesse ignare e di aggiungervi la mia per fare
un terzetto, un cibreino, un guazzetto, né di cielo né di mare.
La parola piccola di Angela Argentino
Io la cerco la parola piccola e scolpita
vigile nel silenzio.
Mi tira in cerchio
dentro un mal di testa
e sta lì
a me sola visibile.
Una voce da tempo di Giuseppa Sicura
Una voce da tempo
mi cammina a fianco
penetra nera nei silenzi
impalpabile luna
segue la mia orbita
spande le sue fosche ombre
e intanto dentro me
ogni granello si fa montagna
ogni ferita figlia
di cellula impazzita
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Poesia-prosa

domenica 24 maggio 2015
Verbi e di-verbi: Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu
Verbi e di-verbi: Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu: Come avesse dismesso i suoi falsi lustrini rivela sue piaghe la città ostenta sue ferite. Dimessa – ricade sopra l’apatia c...

Crisi - Inedita del 2013 di Bianca Mannu
Come avesse dismesso
i suoi falsi lustrini
rivela sue piaghe
la città
ostenta sue ferite.
Dimessa – ricade sopra
l’apatia crepuscolare
del suo sabato
smorzando toni e suoni
come se - preparandosi a dormire -
respirasse piano
per non spaventare
il sonno
con l’ansia di possibili
sventure.
Certe sciagure
hanno già segnato
i porticati nobili
e ricorrono
come la notte e il giorno
sopra
appendici e immemori suburbi
ripiegati e chiusi
sugli sbadigli di mai sazi appetiti.
cani sbandati -
più umani degli umani -
ringhiano solitudine
alle buste di plastica
e alle foglie pellegrine.
e alle foglie pellegrine.
Nota 2012/1929 Diversità del mezzo tecnico di ripresa, diversità dei look e il tempo di quasi tre generazioni. La fame e la disperazione pressoché identiche, così come la sostanziale inermità degli individui, dominati dalle angosce in veste strettamente personale, senza più quei riferimenti socio-politici che affratellino il "mio al tuo bisogno", che pure ciascuno sa quanto siano scandalosamente identici.
La presunta continuità degli elementi di supporto alla vita si sono liquefatti tra la solidità apparentemente imperturbata delle geometrie delle città, che uscirono un po' dalla tua testa e molto dalle mani, senza appartenerti.
Di tutte le ideologie con la mascella in fuori sembra non sia rimasto niente. E invece come sintomi ciechi, scavano nel sottosuolo della mente, come convulsi, senza discriminare le nature del male. E quando erompono sono grido, sono gesto di rabbia sotto il sole sporco. Ed è orrore quello che uno stomaco nutrito - chiamatosi fuori e divenuto occhio che guarda basso dal polpastrello dell' indice puntato - vede schizzare come un fango frammisto alla colpa e alla paura di questa umanità alle corde.
E dopo - si vocifera sempre che ci sarà un dopo alle crisi, come l'arcobaleno dopo i temporali - non sai se il dopo sarà come sollievo al dolore che scema o se sarà il sentire a scemare per assuefazione a quel dolore.
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Poesia e società

martedì 19 maggio 2015
''La libertà è Grazia'' poemetto di Angela Argentino (dedicato a Grazia Deledda) con nota di Bianca Mannu
Su un’isola, un paese ,
appeso al cielo e ai monti con un filo,
e nel paese,
la mia atavica casa.
( Ancora c’è, signora, ed è un museo !
Seduta al focolare
scrivo la musica della mia solitudine
e la ascolto sgorgare, da me, profonda ,
in assenza di gesti
e moto, armonia e sentimento unisce in stretto nodo .
( La ascolto anch’io, sa !! Lo scoppiettìo del fuoco nel camino
e l’ululato delle canne al vento coperto dal suono pesante di stivali .)
La mia libertà è il mio
silenzio
che canta parole sulla carta
o leggende che scendo a raccogliere
nel fondo delle grotte
o nuraghi che vedo dall’alto,
quando mi apro a rapace volo di uccello,
sopra gli stagni della mia Sardegna .
(Ci sono tante ville sulla costa, ora
e qualche parco che protegge
la Storia e la Natura .
Tante pecore ancora… e i pastori...)
In questo cuore libero ho
stivato l’infinito
e gli ho dato i confini rosei del tramonto all’Orthobene,
come lo vedo dentro la cornice della mia finestra .
(Si è accorta di me, signora, mentre le stavo accanto? )
Con parole mute,
invito al canto il cielo, i boschi ,
gli spiriti, le anime dei morti ,
perchè ho accordato il mio,
al cuore buono delle cose .
(Anch’ io, che bello !)
E millenaria saggezza ,
filata all’arcolaio,
mi ha parlato
dalla pietra del camino ,
nei lunghi inverni sardi .
(Non abbiamo più questo silenzio !)
Come formica non vista,
posata sopra un piede,
o come pulce impigliata
nello sporco pelo del cane,
ho misurato l’orgoglio feroce
e fumante dei maschi ,
appeso al taschino, come un orologio.
(Si sterilizza tutto e i cani non hanno parassiti ,
ma mi dicono che gli uomini non son cambiati.)
E ho udito la gente di
questo paese
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne, a bordo dello stagno..
( Ora lo fanno sottovoce ...)
Mi sono liberata,con la mia
scrittura,
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore,
annidato persino nei bambini .
( Lo so, signora, è nella poesia che trovo pace!
In essa, come lei , riverso l’innocenza .
E so piangere ancora per un tramonto o un’alba)
Io sono stata libera dentro
il mio furore,
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
lontana ormai dalla Sardegna.
Portavo intera con me la tavolozza
dei luoghi tanto amati
e le boccette antiche di tutti i suoi profumi .
(So cosa vuol dire . Mi sono abbassata
ad odorare ognuna delle piante
che lei mi ha indicato .
E dei colori che, dagli occhi al cuore sono scesi, ho ricercato in me fine
achimia !)
Andavo a cavallo,
con un fratello che ho lasciato indietro,
ad ascoltare voci di leggende antiche.
E imprigionavo insieme,
nel mio sguardo,
il verde neonato delle foglie,
con la più scura luce del lentischio pingue,
l’ombra di un umido versante
dove il verde muschiato
dal carnale aroma,
beveva alle sorgenti,
verso la montagna.
(Si è accorta di me, signora, sulla strada verso il Santuario ier l’altro
mentre la seguivo ?)
Se un filo appena,
di salso vento,
si insinuava tra le mie montagne,
io mi alzavo in terribile volo
e lo seguivo
fino alla costa,
filata di garze e di cotone
che avevo già tinto di profondo azzurro,
ancor prima di aprire le ali.
(Quante volte lo faccio nei
miei sogni !)
Alla fine, sì, ho soppesato
il bene e il male
negli uomini tozzi che ho abbandonato,
che non mi hanno detto mai
quant’erano belli i miei neri occhi di jana.
Un giorno, ho lasciato andare anche la vita.
Senza strepiti, senza confusione.
Io sono libera e sono
Grazia.
(E’
stato un piacere , signora, ed un onore !
Io sono Angela .)
Nota di Bianca
Complimenti, ad Angela Argentino , per questo dialogo profondamente vissuto e
scritto con un ritmo e un lessico che testimoniano un'intima adesione al mondo
e alla solitudine della grande scrittrice sarda. Un poemetto a due voci in cui
colgo il penetrante tocco della poetessa Angela per la difficile relazione di
Grazia con l'obliquità del suo ambiente umano, con la difficile sua condizione
di fanciulla e poi donna votata all'imperio della sua libertà e tuttavia
consapevole di dover sottrarre al morso ferino del sospetto e al bavaglio della
limitazione familistica e subordinata alla rozzezza dell'ordine paterno il suo
fervido immaginario e il suo pensiero incredibilmente acuto e moderno.
Ritorno su questi tornanti
…”ho misurato l’orgoglio feroce
e fumante dei maschi ,…
…ho udito la gente di questo paese
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne,
( Ora lo fanno sottovoce ...)
Mi sono liberata,con
la mia scrittura,
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore…
…Io
sono stata libera dentro il mio furore,
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
lontana
ormai dalla Sardegna….
Andavo a cavallo,
con un fratello che ho lasciato indietro,
ad ascoltare voci di leggende antiche.
Angela ha colto con acuta
penetrazione e in brevi accenni la condizione di certo maschilismo ancestrale
nostrano, più torvo e marcato tra i monti, quello antico e quello rimasto attaccato alla tuttora imbarbarita e non pensata aretè del villaggio e della città, di nuovo tornata,
questa, a ripiegarsi sul suo sonno e
sogno da clan, a formare il collage di villaggi moltiplicati e giustapposti.
Ha colto, Angela, la
fatica di Grazia nel vivere la vita e la scrittura; e ci indica il prezzo dello
scotto pagato. E ora unisco al loro il mio affanno, come una pelle agra che, in
quanto donne e donne d’Isola, ancora ci avvolge e serra, confricando carni e
anima, quasi fossimo i prigioni michelangioleschi, entro i ruoli petrosi del
passato che non passa e i rostri di una modernità ammiccante e di facciata,
compiacente agli intenti di ri-piegarci al ruoli di monili o di schiave della
sussistenza.
Più che in altri luoghi
d’Europa, qui la crisi strappa al bisogno di cultura i denti e ci ripropone la cattiva cera d’un pallido ottocento
sul liquame del morto novecento, che trabocca dalle crepe del trucco manigoldo.
appeso al cielo e ai monti con un filo,
e nel paese,
la mia atavica casa.
( Ancora c’è, signora, ed è un museo !
scrivo la musica della mia solitudine
e la ascolto sgorgare, da me, profonda ,
in assenza di gesti
e moto, armonia e sentimento unisce in stretto nodo .
( La ascolto anch’io, sa !! Lo scoppiettìo del fuoco nel camino
e l’ululato delle canne al vento coperto dal suono pesante di stivali .)
che canta parole sulla carta
o leggende che scendo a raccogliere
nel fondo delle grotte
o nuraghi che vedo dall’alto,
quando mi apro a rapace volo di uccello,
sopra gli stagni della mia Sardegna .
(Ci sono tante ville sulla costa, ora
e qualche parco che protegge
la Storia e la Natura .
Tante pecore ancora… e i pastori...)
e gli ho dato i confini rosei del tramonto all’Orthobene,
come lo vedo dentro la cornice della mia finestra .
(Si è accorta di me, signora, mentre le stavo accanto? )
invito al canto il cielo, i boschi ,
gli spiriti, le anime dei morti ,
perchè ho accordato il mio,
al cuore buono delle cose .
(Anch’ io, che bello !)
filata all’arcolaio,
mi ha parlato
dalla pietra del camino ,
nei lunghi inverni sardi .
(Non abbiamo più questo silenzio !)
posata sopra un piede,
o come pulce impigliata
nello sporco pelo del cane,
ho misurato l’orgoglio feroce
e fumante dei maschi ,
appeso al taschino, come un orologio.
(Si sterilizza tutto e i cani non hanno parassiti ,
ma mi dicono che gli uomini non son cambiati.)
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne, a bordo dello stagno..
( Ora lo fanno sottovoce ...)
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore,
annidato persino nei bambini .
( Lo so, signora, è nella poesia che trovo pace!
In essa, come lei , riverso l’innocenza .
E so piangere ancora per un tramonto o un’alba)
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
lontana ormai dalla Sardegna.
Portavo intera con me la tavolozza
dei luoghi tanto amati
e le boccette antiche di tutti i suoi profumi .
(So cosa vuol dire . Mi sono abbassata
ad odorare ognuna delle piante
che lei mi ha indicato .
E dei colori che, dagli occhi al cuore sono scesi, ho ricercato in me fine achimia !)
con un fratello che ho lasciato indietro,
ad ascoltare voci di leggende antiche.
E imprigionavo insieme,
nel mio sguardo,
il verde neonato delle foglie,
con la più scura luce del lentischio pingue,
l’ombra di un umido versante
dove il verde muschiato
dal carnale aroma,
beveva alle sorgenti,
verso la montagna.
(Si è accorta di me, signora, sulla strada verso il Santuario ier l’altro mentre la seguivo ?)
di salso vento,
si insinuava tra le mie montagne,
io mi alzavo in terribile volo
e lo seguivo
fino alla costa,
filata di garze e di cotone
che avevo già tinto di profondo azzurro,
ancor prima di aprire le ali.
negli uomini tozzi che ho abbandonato,
che non mi hanno detto mai
quant’erano belli i miei neri occhi di jana.
Un giorno, ho lasciato andare anche la vita.
Senza strepiti, senza confusione.
Io sono Angela .)
sospeso sotto il cielo, tra i monti,
ululare maledizioni al vento,
come le vuote canne,
delle catene cui altre donne allungavano i polsi
e son rimasta a guardare,
dritto negli occhi,
l’affilato disprezzo e l’atavico rancore…
anche se,chiusa a pugno dentro le mie stanze,
con un fratello che ho lasciato indietro,

sabato 16 maggio 2015
Comincia come... un vizio!
Si comincia a scrivere per
un incoercibile bisogno di guardarsi dentro in un periodo della vita,
nell'adolescenza, in cui ci domina l'ansia di sapere chi o che cosa siamo,
proprio perché la nostra configurazione personale è ancora incerta e molto
mobile.
Con la maturità, di solito si perde il vizio. Se perdura, vuol dire che
la costruzione dell'io-me ci impegna sempre,ed è lì, nel perdurare dello
scavo che si produce il desiderio di colloquio,talora spiccatamente
inquisitorio e antagonistico, con gli umani che hanno preso dimora presso l'io-me-noi col corrispettivo corredo di enti-mondo. Essendo esseri unitari e contemporaneamente plurimi, il discorso con se stessi non è mai
esaustivo né pienamente soddisfacente.
Le letture e le esperienze scolpiscono
sensibilità, mente, immaginazione. Il nostro linguaggio diviene plastico
e comincia a prodursi in giochi inattesi, in costruzioni che assumono
logiche diverse, talora carsiche, con effetti che risultano a noi
stessi sorprendenti.
E a quel punto si fa strada il bisogno di condividere
tali effetti con altri; o meglio immaginiamo una condivisione a largo raggio,
di cui poi abbiamo ben magro riscontro, anche qualora le statistiche ci
comunichino che i nostri scritti siano letti da molti.
Il lettore
raramente si qualifica come corrispondente. Eppure tutti gli scrittori vivono
di questa illusione. In realtà sono gli scritti dei critici, degli
intervistatori, dei recensori a offrire il supporto di questa illusione . Ed essa acquista una consistenza realistica se, almeno per un po', i tuoi critici, i tuoi estimatori i tuoi recensori sono a loro volta noti, autorevoli, famosi, capaci
di succhiare dal tuo discorso ciò che incuriosisce e/o invoglia la folla
poco nutrita dei lettori.
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Questioni letterarie

Scrittura come messaggio?, di Bianca Mannu [Pensieri] :: LaRecherche.it

giovedì 14 maggio 2015
Inaffidabile, di Bianca Mannu [Poesia] :: LaRecherche.it
Inaffidabile, di Bianca Mannu [Poesia] :: LaRecherche.it www.larecherche.it/Biancamannu

Non sono quella della scala6, di Bianca Mannu [Narrativa] :: LaRecherche.it

mercoledì 13 maggio 2015
Libere riflessioni sulla "poesia"
Intanto, anche quando
una raccolta di versi si articola intorno a un tema oppure gioca su modulazioni
scaturite da uno stesso nucleo ritmico e timbrico, difficilmente rivela subito
i segreti dei suoi stilemi e le sue trovate, a meno che non si connoti come variazione
specifica di una “scuola” , di una maniera
in auge. Ma anche quando si verifichi tale condizione, occorre sempre soffermarsi per cogliere le differenze specifiche, la
singolarità, che è ciò a cui aspira l’artista.
Insomma l’idea che
l’elaborato in versi esibisca subito il proprio portato poetico nel passaggio
lineare dal segno grafico alle corde recettive dell’anima e della mente per
mezzo dell’immediata scansione visiva e/o sonora, è un’idea falsa e perniciosa.
Perché?
Perché, a torto o a ragione, si assimila acriticamente
l’elaborato a un gusto preformato o lo si rifiuta per l’impressione immediata che se ne discosti. Così non si valorizza la
sua particolarità, anzi la si diluisce nel fiume dei motivi abituali. Con ciò si prescinde anche dal fatto che il discorso
poetico possa convogliare idee, concetti e forme che esorbitano e talora
confliggano col senso comune e con i moduli cristallizzati.
Queste semplici considerazioni conducono a un quesito: che cosa è la poesia?
Al di là del fatto che comunemente con il termine “poesia” si denota un discorso secondo regole metriche
più o meno fisse, è improbabile che
possa essere ridotto a quest’unica peculiarità. Semplificando al massimo, con
quel termine vogliamo indicare un insieme di effetti semiologici e semantici, i quali variano da
epoca a epoca, da lingua a lingua, da cultura e cultura. Essi implicano anche
un ampio ventaglio di nessi e riferimenti con diversi territori del pensiero
cristallizzato e militante, quello scientifico/tecnico compreso .
Se così stanno le cose, occorre entrare nell’ordine d’idee
che il prodotto così detto poetico va considerato a tutti gli effetti come una manifestazione
articolata e complessa dell’intelletto
umano tramite la elaborazione stilistica della parola, e non riducibile a pura
e unilaterale espressione dell’emozione e del sentimento .
Bisogna farsi consapevoli che il concetto di poesia come
espressione eminente della soggettività individuale quale fulcro della
relazione Io/Mondo, in cui prevale il sentimento personale come centro unificatore della pluralità e dell’alterità , è nato col romance medievale
e si è riproposto, amplificato e arricchito delle scoperte della psicologia e anche
delle inquietudini etico/sociali, nel Romanticismo.
Nella prospettiva di continuare il discorso, agli appassionati e ai curiosi dedico ancora queste pressoché minimaliste
Fabulazioni
Come di
passi una fuga
lungo androni
di niente
sdrucciolano
fabulazioni -
senza memoria
di senso -
s’affrettano
verso
fine e fini-
occlusi
oppure
no -
indefinibili
forse -
fradice di razionali
forme
e forre
e fori
casualmente fuse
in croci
di ramaglie conturbate
da estasi
selvagge
sotto croste di licheni
ispessite
di stanca vecchiezza
esauste
sorde
ai richiami dei venti
singhiozzanti
nell’asmatico flusso
delle antiche
lune
affogate nei pozzi
o assiderate
nella brina
che martirizza i germogli
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Poesia,
Questioni letterarie

lunedì 11 maggio 2015
Parole squillanti - tratta da Tra fori di senso di Bianca Mannu
Parole squillanti
Non sono le parole squillanti
case piene di campanelli
o di arredi sonanti.
Certo vi troverai le
arpe
al posto dei cancelli.
Campati a vela – svettano campanili
sul tetto di richiami
dai cortili.
Camere per appelli – tante –
e stanze di grido – alte –
esposte alle fughe cardinali
delle finestre aperte.
Non mancano camere deserte
con timpani speciali
per archiviarci inopinati tuoni.
Gorgheggi sui balconi
e alzate di fischi tra le gronde.
Per essi tremano le onde
sensibili dell’aria nei dintorni
sfessurando ance di corni
e tubi lamentosi di
clarini
dispersi in bagni e
magazzini.
Sotto le scale o giù
nella cantina-
confinati – gli urli della pancia.
Una manciata di sibili in cucina.
Ma nella veranda – come in una plancia –
trombe d’argento tubano nel vento.
Intanto scale di note – a tortiglioni –
per innalzarli al più nobile vano.
Solfeggi e vocalizzi sui bassi toni
indugiano sulle soglie dei portoni
o sgusciano veloci negli androni.
Come straniero venuto di lontano
spetezzando col tuo clacson
dal piano della strada
cercherai un garage – invano.
Esibendo con faccia tosta
della sopportazione
delle sillabe in sosta
d’attesa di gestione.
Poi partirai rombando
verso altra contrada.
.Ma quando –
quando e sopra il tutto –
la notte si distenda fonda
per strati di silenzio –
allora è dello spazio – muto –
il tempo e l’onda …
Forse lì ogni senso sprofonda.Nota Le parole, i loro accostamenti inusuali e un poco strampalati creano significati paradossali , decostruiscono gli schemi consueti della comunicazione e tuttavia riescono ad alludere obliquamente e ironicamente a situazioni che viviamo comunemente nelle quali siamo consegnati ad effetti stranianti. B.M.
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venerdì 8 maggio 2015
Esperienza e Esperientzia
Esperienza
Ho vissuto millenni
nella minaccia del
verbo ruggente
precipitando nel
baratro
della parola
mancata.
Ho oscillato e
sobbalzato
lungo l’arco
ambiguo del gesto
che non smette di
fendere
il vorticoso etere
del senso ancestrale.
Sono rimasta sepolta
sotto lastre di
silenzio
e raccontarmi
pensieri
senza parole
possibili
- il cuore convulso
e assottigliato -
- chiusa in un
tempo sterile-
come in una bara
vuota.
Mi sono ammaestrata
all’osmosi
presensoriale
con la terra e col
buio umido
dove fermenta il
senso.
Sono sgusciata
infine
dall’epicentro
fortunoso d’un sisma
come un lemure
incolore
per suggere col
corpo intorpidito
il veleno bruciante
del sole.
Per vivere e
vivermi.
Finché avrò guizzo
d’intelletto
soffio ossigenante
e cuore
- lucida intensione-
scaverò
segni/parole –mio sangue
già antico e
captivo -
con l’unghia della
mente
sulla silicea
sordità di questa
Babele planetaria
che frange in
pulviscolo il Presente
e uguaglia ai suoi
frammenti
ogni germe
di Futuro.
Bianca Mannu
da TRA FORI DI SENSO
Esperientzia
Apo bìvidu milli
annos
minetas de
chistiones uruladas
ruende in s'ispèrrumu
de sa paràula non nada.
Apo bantzigadu in assuconu
fatu s'arcu malignu de sa mossa
chi no acabbat de ferrer
mulinosas aeras de
sensu ancestrale.
So restada
interrada
suta lastras de mudore
e contende-mi pessos
chena paràulas adatas
-coro a bòrtulu e isfinigadu-
-tancada in unu tempus annòsigu-
comente unu baule bòidu.
Mi so domada
a su primu isolver sensoriale
cun sa terra e s'ùmidu iscuru
ue fremmentat su sensu.
So isdegada in
finis
dae coro tzentrale de donosu terremotu
che lèmure iscoloridu
pro suer cun carena sonnida
sa brujadora lua de su sole.
Biver e mi biver.
Fintzas chi ap'aer
iscoitu de sentidu,
sulu ossigenarzu e coro
- lutziga giagadura -
apo a iscavare/ paraulas - samben meu
gia antigu e afrancadore -
chin s'ungia de s'atile
subra granitica surdera de custa
Babele planetaria
chi firchinat in pruer su presente
e aparinat a sos biculos suos
donzi sirigu de su cras.
Torrada in
logudoresu de
Antonio
Altana
Nota
Esperienza /Esperientzia.
Due testi fratelli, anzi, no: due composizioni
sorelle. Il tema sembra uno, l’esperienza.
Quale
esperienza?
Eh,no; non si
tratta di una o due esperienze riferite
a connotazioni specifiche o determinate. Si tratta del faticoso e angoscioso processo con cui l’irrimediabile corporeità si sveglia in
volizione ancestrale ancora compressa e ostacolata dalla propria carenza d’essere,
che cerca annodarsi con barlumi di
immagini-pensiero ancora imbelli. Tra
collassi e riprese di vigore, è il senso che acchiappa le parole ungulate. È il
senso che corre fra i segni /linguaggio e
che irrora di intensità e vigore i nostri interiori nessi col mondo.
Quel nodo di senso e linguaggio può
diventare strumento duttile e forte a scalfire sembianza e sostanza dell’apparente
assolutezza della giostra mondana. Perché
è dell’uomo lasciare il segno e fare dei
suoi segni dominio e legge del branco;
ma è degli umani tentare di cambiare verso a quelle logiche.
In siffatta dimensione ogni persona
può riconoscersi in questa Esperienza/Esperientzia, in questa ricerca, talvolta solitaria e profonda d’assoluto, come un bisogno d’incontrare nell’altro,
in molti altri, la migliore parte di sé,
di modo che la costruzione di senso ci coinvolga tutti e non chiuda fuori più
nessuno .
Ed è per questa possibilità poco
evidente che il senso non staziona nei corpi pur avendo con essi stretta relazione, ma trapassa per la trama delle lingue e dei
linguaggi, si rimodula negli echi, nelle
vibrazioni, nelle particolari sonorità e persiste circolando tra accoglienti
diversità.
Sono felice che l’amico Antonio abbia riscritto Esperienza come Esperientzia in quella sua lingua
sardo-logudorese bellissima che io, campidanese imbarbarita e estraniata,
decifro con fatica, ma che rileggendo comprimo per farla risuonare dentro i
miei magri ricordi di viaggio nel Logudoro.
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giovedì 7 maggio 2015
Verbi e di-verbi: Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori ...
Verbi e di-verbi: Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori ...: Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che...

Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori di senso – poesie di Bianca Mannu
Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.
Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.
Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.
Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’orologeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos.
Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere? La risposta a tutte le precedenti domande è No.
Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica.
Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singulti, proteo o preconizzare, possiamo incontrare clacson, garage, DNA, action painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.
Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi. Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica.
Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”.
Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.
La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”.
L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esse Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.
Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.
Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.
Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.
Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’oreficeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos. Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere?
La risposta a tutte le precedenti domande è No. Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica.
Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singulti, proteo o preconizzare, possiamo incontrare clacson, garage, DNA, action painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.
Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi.
Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”.
Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.
I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”.
L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esseri diversi, egocentrici, agrodolci e perennemente sconsolati.
Non resta che leggere e apprezzare le composizioni di Bianca Mannu, leggere e rileggere per cogliere con la dovuta calma i sensi traforati e i sensi risparmiati tra – i - fori delle sue parole.
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