domenica 4 novembre 2018

DA NONNA ANNETTA – romanzo di Bianca Mannu - dal cap.XIV - Ricordi di guerra


Ricuperato l’ultimo salario di “aiuto meccanico” nell’officina mineraria di Montopinosu, dove era tornato a lavorare dopo la smobilitazione, Alfano s’imbarcò come passeggero di terza classe su una vecchia nave a vapore in rotta per Napoli. 

La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. 
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. 
Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
 
Nota - A parte i nomi di fantasia, i ricordi sono quelli autentici che mio padre - reduce della Grande Guerra e operaio metalmeccanico, migrante dalla Sardegna verso i centri industriali del continente, (da Napoli a Genova a Torino) - narrava a noi figlie curiose ... 
Anni 1920-30: l'Italia diventava fascista,  lui, no. Anzi,  sospettato dagli scherani locali 
Ammalatosi e impedito di lavorare, fu costretto a tornare in Sardegna e spendere in un colpo solo tutti i risparmi per curare una pleurite che lo stava uccidendo. Palesò la sua fede antifascista e abbandonò perciò il lavoro presso le industrie fascisticizzate.(B. M.)

giovedì 18 ottobre 2018

Niente! - inedita di Bianca Mannu


Niente!
 
La mia notte dimentica del giorno
mi scioglie dalla vita
mi emancipa in un niente …
beota

Crepitii d’ossa – la cieca rivolta
del corpo alla ruggine dei giunti –
mi scaraventano intera
in un grigiore d’alba

Niente da ricordare
che fosse moto o  fissità
o spessore o indizio
di speranza: notturno d’assenze …

Così morta che il sogno – un segno
dell’umano o simbolo di senso -
non pare aver più germe
o asilo  in questa plaga

E nulla – proprio più nulla
dalla trista consecutio - come appiglio
o guado o qualsivoglia seme di salute
sporge all’irto giorno


Irto della sua vuota luce
si fa del disumanare cosmo:
uomini-criceto in corsa per la dose
dentro un labirinto che
inghiotte la voglia di domande.


Noticina - Non è "M'illumino  d'immenso", ma è tuttavia ciò che ho potuto formulare a Ermes durante la sua ultima visita. Perfida come sono, ho studiato il modo di manifestargli ciò che il mio vecchio sguardo spicca nel tramonto del giorno.(b. m.)
 


domenica 7 ottobre 2018

Tracce - da TRA FORI DI SENSO - versi di Bianca Mannu



Nota - La condizione Kafkiana - l'essere spinti ai margini o fuori dall'umano senza colpe e senza averlo scelto... Essere e sentirsi tabù rispetto al gruppo familiare o sociale.
"Sorvegliare e punire"(sto citando il titolo di un'opera di M. Foucault)  è un'attività storico-sociale che instaura pratiche per corrispondere - si dice - a un bisogno di protezione collettiva. Ma  finisce per costruire grate e catene anche, e sopra tutto, nel nostro spirito. Grate e catene più rigide e compatte del ferro, fatte di genere sessuale, di pelle, di ruoli sociali imposti e contemporaneamente sprezzati e segregati ... 
E perciò conosciamo paura, infelicità, aggressività che monta silenziosa dentro di noi.
Ho introdotto un mio neologismo: ingusciare, ingusciarsi= rientrare nel guscio.(B. M.)




Tracce

Un grumo di gelatina- un proteo
forse?-
attaccato alla falda smagrita della notte -
che s’inguscia
come un ladro colto di sorpresa
nelle asole del suolo -
scivola
verso il crinale cadaverico dell’alba


Un quasi me raccolto a pugno
sull’orlo dell’abisso
tutto da vivere – anche oggi -
con le ciglia secche

Quando la luce -
il sole abita un universo alieno -
oscilla tremando

… Quando la luce avrà  dissolto
l’insano indugio del sonno
la mia diurna voglia di morte
s’arrampicherà
fino alla coscienza
per biascicare le sue tracce
su un foglio -
come bava d’insetto
o di lumaca.


lunedì 1 ottobre 2018

Tra imbidia e imbidia - versione logudorese (di Tra invidia e invidia) di Antonio Altana


S’imbidia! La imbicas in totu e 
in donzi logu o in duos assumancu 
umanos de deghentzia chena nue

chi chin su tertzu si medin su bancu 
de zuighes o istrinas de meritu
chi atichende in liga e a isfrancu

sa cumbalida mirat cun diritu
e reduet s’umana variedade
a un’esser ebbia pro su profitu.

Imbisitat piatas de tzitade
chi de s’umana corza sun bidriera…
e in caminos a rughe at calidade

de si fagher in bator cun manera
de restare intrea mudende grados
e irrajende simbulos-bandera

de chie passat procurende ifados
cun frascia aspra a ranchidore sicu
de s’ungia in s’oju de malefadados. 

Prite s’imbidia in cuadu imbicu
ponet grae in donzunu disaura
e tra coro e cherveddos a isticu

carculat s’impossibile mesura
de canta ausentzia presunta
o bera de sa cosa chi procura’

forrojende in su coro a lama unta
calancos de mancantzia criados
pro prenare ebbia chin un’agiunta

de montes altos de benes bramados
e a similes suos atribuidu
e mantessi da isse imbidiados

e in cuss’unu si sentit avilidu
brivu de tale bene e disgrasciadu.
Gai -sende segreta- no ant olvidu

e restat bia che marcu no cuadu
e in presse mandada a frisu anzenu
chi dat anneu a su benefitzadu

pro timore chi ungias de velenu
lu lassent chena gradu e acunortu.
Cheret finas si a bortas mirat prenu

sugetu in forma d’astiu ch’at raportu
cun sa musca caddina cussizera
de ruinas ebbia e iscunfortu…

Deo puru de viscios in passera
apo che totu -males in refrega-
e s’ispessia de imbidia mi dispera’

prite campat e bivet a sa tzega 
in cussu chi possedit intestadu.
A onzunu chi colpat brivat mega

de abbertire ateru siddadu
e iscoberrer sensu generale:
bisiones de anneu at allatadu

e ca l’ impreat sempre pro su male
bi crebat isse puru in su velenu.
Fort’est s’imbidia, forsis geniale

adata a diferente repienu 
cun massa manna de cunformidade
capatze ‘e separare pessu e alenu

de dissignu, e bilantza e poi chircade
chi a nemos naigantes de sa bida
su culu in sa sentina li parade

o li benzat trucada sa partida.
Omine sia che “Omina” chepare
e donzunu in propria resessida

apat sos bantos e su giustu altare

cantu diligas isperimentadas
sas pecas innossentes d’ammentare.

Ateru narrer lasso tra siccadas
de istrinadu istòigu moralismu
bisende sas sofias comunadas.
                       Antoni Altana
Nota - Trovo una corrispondenza di sensibilità e di intenti davvero sorprendente e, in soprammercato, una tensione metrica e sonora che solo il profondo e colto possesso delle due lingue (sardo-logudorese e italiano) può consentire. La pubblico sul post, a mio onore e a suo merito, per tutti i sardi che sanno ben valutare i poeti che hanno abbandonato i musei per vivere col verso il senso e la parola dei vivi,
 Antonio Altana, hai la mia più sincera e convinta ammirazione! (B. M.)

mercoledì 26 settembre 2018

Tra invidia e invidia - inedita di Bianca Mannu




Invidia! La incontri ovunque
in tutti i "dove" almeno due esemplari  umani 
si commisurano rispetto a un terzo
cui sia affibbiato il ruolo di giudice
o quello di gratifica eventuale.
Alligna in simbiosi con l’ostentazione
contempla l’omologazione
riducendo l’umana varietà dell’essere
alla misura grama dell’avere.
Frequenta tutte le piazze
che dell’umana scorza
son vetrina …

Lei - l’invidia -in sosta ai crocicchi
si divide in quattro rimanendo la stessa
i suoi gradi declinando a raggio
secondo i simboli esibiti
dalle creature in transito
per provocarle reciprocamente
al graffio secco-amaro
dell’unghia introflessa
nel ciglio/specchio delle ciglia altrui

Perché l’invidia prende
in ciascuno di nascosto signoria
del profondo cuore del cervello
e calcola da lì
l’incalcolabile misura
di quanto l’assenza
presunta o vera d’un qualcosa
scavi
scavi in quel cuore stesso
un abisso di mancanza
che mai potrà essere colmato
se non col monte troppo alto
di beni da lui ambiti
ad altro suo simile attribuiti
e da se medesimo invidiati
in quell’uno
sentendosi al riguardo
privo e disgraziato.

Così – rimanendo segreta –
la cova ognuno
come un proprio malcelato sfregio
e la manda spedita ad altrui fregio 
pressoché denegato dal "beneficiario"
per paura di restarne
- per altrui unghia – deprivato.
Vuole persino il caso che –
fissandosi  a un soggetto
in forma di livore -
si faccia cormo d’un assillo
ispiratore  di rovinoso consiglio …

A me - che pure da capitali vizi -
come i più - non sono immune -
questa sorta d’invidia mi spaura
perché vive e fa vivere  in cecità
la  sua propria  visura.
L’umano che ne ammala
resta impedito di avvertire altra risorsa
di scoprire altro senso generale:
il suo incubo allatta
e mal facendo
di quel veleno schiatta.

Sana è l’invidia
- che chiamerei saggezza –
atta a saggiare sulle differenze
la grande mole delle simiglianze -
quella capace di pensiero dirimente
di progettualità compensativa:
a nessun navigante della vita
sia riservato il culo della stiva
o gli venga truccata la partita.

Un uomo valga un’uomina
e ciascuno per sue qualità
sia encomiato tanto
quanto blandamente riprovato
per sue innocenti pecche.
Altre parole lascio sulle secche
del moralismo sterile
e sogno altra possibile
filosofia sociale.   

Nota - Cresce il rancore e l'invidia sociale, sentenziano i Prof dell'ISTAT. È constatazione, è riprovazione? Mah. Forse è il modo dell'informazione a tradurre secondo categorie di senso comune spendibili nella vulgata. Se fosse possibile, magari per magia, invertire la condizione dei giudicanti  in soggetti di studio e di giudizio, potremo irridere gli esiti di così raffinate ricerche che periodicamente commentano la triste quotidianità di una quota  non piccola della popolazione italiana, quasi fosse quella stessa turba che attendeva il responso di Jahvè dalle mani di Mosè.  Una scienza contempla lo stato delle cose, le disaggrega, le concettualizza,le misura. Ma aiuta a mutarle, allorché si esprime o viene interpretata con categorie che, volendo apparire riassuntive, si presentano invece come giudizi di carattere etico? "Rancore", "invidia sociale" indicano stati emotivi e pulsioni di pertinenza soggettiva, vicini al colore della personalità individuale, la quale non è fonte, ma prodotto di un processo di controllo culturale e sociale già trasferito come valore a livello di  "dover essere" individuale in una condizione storico-sociale relativamente stabilizzata. Ma non possono dire nulla, se non esprimere il desiderio dei gruppi egemoni di controllare i movimenti sociali mediante imperativi etici guardiani o di pura facciata decorativa... Risultano insignificanti se trasferiti meccanicamente come griglie di ordine conoscitivo su macrosistemi sociali in movimento, nei quali sono all'opera forti categorie economiche che prevalgono, indirizzano e controllano il senso delle spinte sociali, regolano nei fatti e nelle opzioni i reali comportamenti dei singoli individui. 
Il testo qua sopra, che oso dire poetico con buona pace dei lirici assoluti, è una lettera aperta per chi voglia, assentendo o dissentendo, riflettere sul tema.
Nella strofa di chiusura ho introdotto un mio neologismo Uomina che forse non è bello, ma rivendica l'appartenenza del femminile alla specie homo al posto della parola "donna" che invece disegna verbalmente una stia in cui perpetuare l'apparteid storica del femminile. (B.M.)  

martedì 18 settembre 2018

GLI ADOLESCENTI (ma non solo) E LA RETE - di Bianca Mannu


Che differenza c’è tra i recenti fatti clamorosi e tragici avvenuti in riferimento alla Rete e altri giovanili ugualmente clamorosi e tragici, non immediatamente collegabili ad essa?
Nessuna che sia fondamentale, secondo me, se ci si colloca a debita distanza dei pur facili psicologismi. La motivazione sottesa ai comportamenti con esiti luttuosi sembra quella determinata dall’impulso a imitare un gesto inusuale, proibitivo (espressione di una sorta di volontà di potenza), unita alla pressante attrazione per la visibilità connotante(narcisismo secondario), la più ampia possibile, agli occhi del gruppo di riferimento (social, gruppi locali)  e a quello più vasto dei coetanei affacciati sui vari portali (Rete). 
 Inserirei in questo contesto anche le più inquietanti e deleterie attività delle baby gang che sono mosse da intenti di stampo mafioso, ma ben più pericolosamente collegate con le attività delinquenziali omologhe di gruppi adulti.
Nel caso di queste ultime la società reagisce in modo autoritario, valuta la possibilità educativa o rieducativa coercitiva, si appella al volontariato (insegnanti di strada, associazioni sportive, ecc.), considera  problematicamente precoci trapianti familiari, poi dimentica il problema, in quanto eclissato da altri e tale che l’organizzazione politico-sociale esistente risulta, rispetto ad esso, del tutto impotente, come se quei criminali in erba fossero “i vuoti a perdere”, posti tacitamente nel conto delle spese ascrivibili al meccanico processo di riproduzione sociale.
Apparentemente diversa è la risposta, diciamo, collettiva, verso i casi singoli indicati nei media (il ragazzo che si soffoca, l’altro che s’è giocato la vita per un selfie, altri che hanno voluto provare altre orribili gioie) … Casi che, a mio avviso,hanno qualche caratteristica comune anche con il più diffuso bullismo adolescenziale.
Questo, com’è noto, prospera anche fra soggetti “di buona famiglia”. Già: è questo tratto che ci sconvolge tutti: com’è possibile che fanciulli ben allevati e ben educati in case confortevoli creino situazioni di grave complicazione per sé e per altri, con conseguenze spesso irreversibili? Che ne è dei nostri “valori”?
Nell’urgenza dell’emozione, nel desiderio apotropaico di scongiurare  ulteriori imitazioni e contagi, nel bisogno di dare un nome alle presunte o probabili cause, ci interroghiamo e sollecitiamo responsi dagli esperti.
È colpa della Rete? La Rete è un mezzo, si dice. Essa è, come tale, un mezzo pressoché neutro rispetto alle nostre scelte. Da ciò deriva che servirsi di essa in modo accettabile implica un lavoro educativo a monte sui soggetti che ne fanno maggior uso. E qui si va a scoprire un’ampia platea di adulti  che, una volta superati gli scogli tecnici iniziali, resta completamente irretita dalle suggestioni della Rete e dimostra una straordinaria debolezza nei confronti di ciò che vi scorre, al punto che troppi padri e madri si smarriscono volentieri nei suoi vicoli, vi istituiscono relazioni fasulle e vi “guadagnano” incautamente insperati revival adolescenziali e persino esiti di sconcertante puerilità e pericolosità, ivi compreso il bullismo adulto, pedagogicamente produttivo, appunto.   
Salta fuori che l’insopprimibile problematicità della fase adolescenziale, col suo
corredo di incertezze dell’io,  trova sponda in uno spaesamento più generale.
Ne nasce uno sciame di inchieste, tavole rotonde, trasmissioni e discussioni, anche in Rete, che immancabilmente sfociano nel richiamo a un “dover essere” opinabile, debole.  
I primi agenti della socializzazione e inculturazione  richiamati al loro ruolo sono i genitori e la scuola rappresentata per lo più nella persona dei suoi docenti. Queste figure sono riproposte e vissute come l’origine dei problemi, in quanto depositari incapaci o renitenti al loro impegno educativo etico e forse sociale: sono colpevolmente superficiali, sono impreparati, sono egoisticamente presi dalle loro difficoltà personali e perciò non credibili come modelli di riferimento.
Analogamente, dei giovani si dice che sono al contempo soli (e vogliono essere tali rispetto agli agenti educativi visti come limitanti) e troppo subalterni ai giudizi e alle “ratio” dei gruppi di appartenenza diretta o in Rete, che sono dominati (come forse è normale che sia) dagli effetti ormonali (compreso il desiderio di essere considerati come pari agli adulti e forse di sopravanzarli in audacia), eccetera     
Nello sconcerto del momento si vanno a esaminare qua e ora gli stati evidenti delle relazioni interpersonali,quelle “calde” in abbandono,  e quelle “fredde”, telematiche, in progressiva diffusione, anche a causa del relativo isolamento individuale prodotto dal dislocamento territoriale dei cittadini dei grandi centri urbani e dalla rarefazione dei centri associativi giovanili gratuiti.
Molti sono i richiami etici ed educativi attivati in margine a tali fatti. Richiami certo
importanti  per acuire verso tali problemi la sensibilità sociale. E forse per circoscritte aree sociali funzionano, ma sono destinati a restare lettera morta per la generalità delle situazioni che li provocano. Perché la generalità (parola astratta che indica il sistema concreto di vivere e  di dividersi di una formazione sociale al proprio interno e verso altre) funziona in modo diverso da quanto dichiarano, per esempio, i sistemi valoriali conclamati dagli altari giuridici ed etico-politici, spesso richiamati e più spesso disattesi dai loro sacerdoti.
Si parla, per esempio, di ricupero educativo del valore della vita, quella vita propria o altrui facilmente posta in gioco da desideri di “godimento senza limiti” … Soffermiamoci un momento su questo lemma che ne richiama altri del tipo “emozioni senza eguali”…
Sono lemmi, eppure sono parole d’ordine interpretate in modi credibili da divi/e, scritte a mo’ di didascalie allusive di senso, come sottolineatura di rapidi ed eloquenti film apologetici che visivamente illustrano il godimento emotivo della libertà di lanciarsi a velocità fantastiche e spericolate, ma gioiose e fondate sulla certezza che il mezzo del lancio decide al nostro posto della nostra e altrui incolumità.
Sullo stesso piano di senso (demenziale!) viaggia la parola l’ordine per cui ci  si può connettere “senza limiti” con una platea imprecisata di persone , come se il tempo della vita propria e altrui fosse dissipabile in un “bavardage” infinito. E potrei continuare con infiniti esempi, dove la parola libertà viene imbastardita e ripetuta come sinonimo di poter fare ciò che si vuole in ogni momento, senza alcun riferimento al limite.
Provate a conteggiare quante volte il ragazzino, mollato sul divano di casa o affidato al rassicurante iphone, registrerà e connetterà in modo subliminale simili stupidaggini all’indeterminatezza dei propri desideri e fantasie gratuite, magari suggerite dalla noia infinita prodotta da tali comunicazioni.
Come potrà quello stesso ragazzino innamorarsi di una faticosa pagina scritta in una scalcagnata aula scolastica affollata di ragazzini altrettanto spiazzati dall’idea tutta nuova che non ci si può realmente appropriare di niente senza che si sia disposti a impegni ripetuti e pazienti?
- Ecco, direte voi, un esempio di genitore inadeguato!
Ben detto. Ma vi siete chiesti dove sia e che cosa faccia al momento quello stesso genitore? Forse frequenta un cantiere fantasma o una casa signorile da pulire o un magazzeno (se va bene!) per uno pseudo salario. E inoltre, c’è da chiedersi, si è mai impegnato il libero ordine sociale a far sì che quello stesso genitore possa contare sul supporto educativo perenne e diretto da parte di un’affidabile agenzia educativa gratuita per la propria prole? E ancora, vi siete chiesti se quel genitore poté fruire  di una formazione scolastica che abbia sviluppato in lui lo spirito di attenzione critica verso il senso di un’emissione  comunicativa o anche dell’emittente, tale da metterne in guardia i propri figli e abituarli a decodificare e distinguere?
Procedendo anche solo in direzione del senso di valore della vita , possiamo esimerci dall’interrogare i Gestori delle risorse  nelle vesti di privati, di gruppi padronali, persino di istituzioni deputate al controllo: che ne è di quel valore assoluto della vita di fronte al loro presupposto indicato come primario e assoluto: il perseguimento di profitto ad ogni costo?
Profitto realizzato anche col gioco alle scommesse sulla vita delle imprese, (leggi: Borsa Valori). Gioco che decide non che  la condizione sana della vita umana divenga termine primario, bensì che le pratiche produttive dannose alla vita della comunità umana hanno opzioni di favore perché lucrose. Gli esempi sono innumerevoli, ma filtrati dall’Informazione mondiale con pelosa cautela.
Cosa vado sostenendo, dunque? Non che la pubblicità o che l’imprenditoria in quanto tali siano da ritenere responsabili dei problemi …
Vado sostenendo che l’adolescente, bene educato o niente o male educato, intuisce la logica truffaldina che soggiace alle conclamate buone intenzioni valoriali, ma poi si butta nelle condizioni trovate nella vita e agisce a caso e sul momento, come ogni individuo forzato a disinteressarsi dell’altro, a porre se stesso, il proprio interesse immediato o il proprio non meditato piacere avanti a tutto, purtroppo nella maniera meno pensata che l’organizzazione sociale imprime in termini di anonimità fattuale, come un destino.       









lunedì 3 settembre 2018

Sarà l’alba … inedita di Bianca Mannu



Voglio sparare alla mia paura
colpirla al centro con l’acquisto …

Una Magnum adesso – pesante !-
corazza la pelle della mia paura

Il suo grugno vellica duro
il midollo del mio tremore
indicando l’impavida decisione dell’ impugnatura
che mi chiama allo specchio
perché io vi guardi – solido –
l’effigie stessa delle mia risolutezza
eretta a cippo della regola forte
del ferro e del paterno totem

Ora Lei sul comodino veglia 
- risolutamente tetragona e ferrigna –
l’arrivo e la durata (garantiti con l’acquisto)
del Mio Sonno regale

Intanto il mio me - incazzato fifone residuale –
allarga nottetempo  agli orecchi i padiglioni
fino a spiccare i bisbigli di finti tarli traditori
e certi passi felpati da bandito
sul prato connivente …

Forse il mio presunto amico Fido
si lascia subornare dalla polpetta
ammiccante da mano ignota
simile a quella che gli ho negato un giorno intero
per tenerlo vigile e pronto al latrato d’allarme
che squasserà il sonno Rem dei vicini
per scaraventarli brancicanti
verso la presa delle loro piccole Berette

Certamente la faccia nera d’un affamato ingordo
(sempre troppo nera o tinta d’empietà fosforescente)
ha ali enormi e un ventre immenso
nelle notti Rem - scure là fuori e fredde!-
dei regolari utenti dell’abbraccio di Morfeo

- Chi osa irrompere nella tardo-imperiale sonnolenza
 dei Giusti Cisalpini, Cispadani o figli di Partenos?

E ora qui - nell’immancabile cilecca
del quesito sospeso e senza ribattuta –
son mani destre, son le sinistre ad artigliare oggetti
che spennino la notte addormentata
perché sussulti e gridi
in uno scoppiettio  da film del Far West
sopra le sfumature di nero e i toni incerti
dei tratti dei periferici globali
sui cadaveri muti
e  sulle coscienze allucinate  

Sarà l’alba a dover guardare stordita
le tracce ingombranti delle sbornie
a sopportare il raccapriccio
che la lebbra eruttata dal sottosuolo
sulla pelle dell’anima  
strappa
alle sferzate della luce


Nota - Non abbiamo bisogno di armi per la difesa personale, non abbiamo bisogno di trasformare i nostri quartieri in trincee.