giovedì 7 maggio 2015

Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori di senso – poesie di Bianca Mannu

Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’orologeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos

Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere? La risposta a tutte le precedenti domande è No. 

Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singulti, proteo o preconizzare, possiamo incontrare clacson, garage, DNA, action painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi. Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. 

Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”. 

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.

La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”. 

 L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esse Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.

Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’oreficeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos. Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere?

 La risposta a tutte le precedenti domande è No. Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singultiproteo o preconizzare, possiamo incontrare clacsongarageDNAaction painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi.

 Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”.

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.

I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”.  

L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esseri diversi, egocentrici, agrodolci e perennemente sconsolati.

 Non resta che leggere e apprezzare le composizioni di Bianca Mannu, leggere e rileggere per cogliere con la dovuta calma i sensi traforati e i sensi risparmiati tra – i - fori delle sue parole.

venerdì 1 maggio 2015

In un’altra serie - inedita di Bianca Mannu con breve nota

Oggi, Primo Maggio, impossibile festa. 
I tenaci si sono incontrati a Ragusa affratellandosi con quelli che arrivano dal Sud.
I più giovani s'ubriacano di musica e di chiasso nella primavera romana che non promette frutti.
A Milano l'Italia soddisfatta e tronfia di potere, di soldi, di goduria, celebra i suoi fasti ed esulta, come se il suo peso su tutti i deprivati fosse lieve, anzi come se quei tutti, schiacciati, non contassero; e anzi dovessero unirsi all'esultanza che li esclude.   
Ma a Milano lo schiaffo dello scialo fa rabbia. E la rabbia è una compagnia discutibile, certo. Ma chiediamoci: chi ha messo su il cantiere della rabbia, chi l'ha coltivato oltre i limiti? 
Perché i filosofi a contratto della TV sono così strabici da evitare
di connettere i problemi?
Dunque sono triste e vado a trovare coloro che sono stati o stanno per essere collocati 
In un'altra serie
Eri «io»  un attimo prima
del bando di sequestro –
prima dell’esplosione sabbiosa
nel cervello 
dove era già caduto
l’uranio impoverito del licenziamento.
Impossibile  «io»
nell’istantaneo tremito
di foglia
sull’assurda spoglia
dell’umano tempo.
Uscita dal senso
né viva né morta -
anche la rabbia
abortisce
con l’inutile sudore

Divelta e  muta
una vecchia canna
oscilli adesso
come cieco  avanzo d’alluvione
che scorrendo
ti prescrive aliena -
immondizia sulla proda. 
E stai
come se con le pinze
ti stipasse agonizzante
nella turpe sequela d’insepolti
ancora in cerca di recesso
per disfarsi.

Non sa di niente il nome
se non congiunto
al feroce attributo d’incapiente .
Questo pare non sporchi
il pensiero e la bocca
di chi ti cita in numero
per  indicare  una fraternità
piuttosto ingrata
che un giorno o un’ora avanti
avresti urlando denegata.
Ora - senza benvolere -
sei candidata ad occupare
il budello della gora
o a sbandare tra le pile
del ponte del  viadotto
come animale dannato
agli inferi cerchi
del “civile assetto”.

mercoledì 29 aprile 2015

Resistere /poetare

Resistere e lottare è pregiudiziale quando l’imminenza della situazione drammatica lo richieda.
Anche il/la poeta, la/lo scrittore, il /la pensatrice sono/è prima di tutto essere umano civile, che condivide i problemi e le ansie dei molti con la sensibilità che gli/le è propria. Soppesa senza troppo contarsi e sceglie il senso del suo esistere ora come uomo e in qualche modo sospende alla sua umana tensione  attuale ciò che  forse sarà materia di parola piena. Forse non ci potrà essere poesia senza questa profonda adesione all’umano.
Poesia è anche prassi etica? Sì e no. Ma è meglio sì. Perché, come sostiene Quasimodo, il poeta è assediato dalla società asservita al potere, essa vuole fregiarsi di lui e asseggettarvelo; ma,  nella misura in cui l’intensione poetica lo abita e lo motiva egli vi resiste. È e  resta eminentemente solo.  


Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.


Premio Nobel per la letteratura nel 1959

lunedì 27 aprile 2015

Resistenza - Commento con poesia di Alfonso Gatto

Resistenza è  virtù delle persone che - mentre stanno subendo decisioni altrui, dunque imposte, o che scontano esiti del proprio consenso magari sbagliato oppure quasi estorto con inganni - contrastano, agiscono ostacolando quelle decisioni.
Resistenza  è opporsi delle persone (così dette semplici che semplici non sono) col loro vivere/fare quotidiano a un sistema che, per perpetuare il suo potere, innesca/ha innescato un processo che impazzisce e che, pur di conservarsi il potere, diviene perno di scontro insanabile tra i suoi stessi cittadini, mettendo a rischio mortale la sopravvivenza dell’intero gruppo sociale.
Resistenza è risorsa e risposta alternativa di popolazioni solitamente inermi, laboriose, capaci di logica pratica, ma destituite di potere politico e giuridico, esposte al ricatto e alla marginalizzazione/esclusione dalle decisioni che i centri del potere confiscano per sé, infrangendo ogni limite.
Ecco perché è stata chiamata Resistenza la reazione, ormai storicamente definita a partire dall’8 settembre 1943, di una parte non maggioritaria di italiani contro il governo Repubblichino (di Salò) e l’occupazione tedesca.
Certo, senza le Forze Alleate, la situazione italiana avrebbe conosciuto l’abisso. Ma le decisioni prese all’unisono da gruppi politicamente e territorialmente diversi della Penisola e disposti a correre i massimi rischi, ha incoraggiato ampie frazioni della popolazione civile a schierarsi dalla loro parte aiutandoli, sostenendoli, riconoscendosi nel loro operato e cooperando apertamente per cacciare i tedeschi dai nostri territori metropolitani. Un esempio per tutti, le Giornate di Napoli.
In quel modo, quella parte di cittadini si è assunta la responsabilità, a prezzo di tante vite e sofferenze durissime, di restituire al popolo italiano la sua compromessa dignità e ha reso poi necessaria e reale la costituzione dello Stato Italiano democratico.
Dovremmo però rimanere consapevolmente distanti dalle celebrazioni “d’ufficio” gonfie di retorica. La retorica falsifica e sminuisce l’apporto smisurato da parte di chi si sacrificò allora e di chi anche oggi si espone al sacrificio del proprio personale interesse, pur non avendo rilevanza pubblica, per difendere principi di giustizia sociale  e morale. La resistenza dovrebbe essere un atteggiamento permanente contro lo strapotere di chiunque pretenda di erigere baluardi e steccati sociali e razziali contro qualcuno o gruppi. La resistenza è efficace quanti più cittadini vi partecipano, quanta maggiore consapevolezza sorregge quei comportamenti che sono l’essenza di vera inclusione e crescita civile.
Mi piace perciò ospitare in questa pagina una poesia di Alfonso Gatto tratta da «La storia delle vittime».

martedì 21 aprile 2015

Se meno che un sogno - inedita di Bianca Mannu

Se meno che un sogno -
forse vago indizio
o refolo
impigliato al rostro
d’una memoria immemore -
si sveglia in un adesso di schianto –
tu – col sangue che fugge – vai -
caparbiamente vai
dietro alla tua fame di vita –
come un gamete all’ovulo…
annusando nella rifa mortale
un profilo d’alba esangue
smentito dalla sorte
sbocciata dall’estro avaro
dei figli del dio maggiore.


Un passaggio per il Nord-
infernale annerirsi dell’azzurro
in un sudario molle.
Infilare  fiato e sistoli
tra morte e morte
per arpionare il volto ghignoso
d’altre pretestuose croci.
Cortina buia – il futuro.
Pietra - il cuore umano
che chiede al ventre l’intelletto


Son convocati a complici gli dei
dai loro piccoli custodi 
armati fino ai denti 
per nuove strategie d’annientamento ?
Davanti gli altari  -
vuote le orbite di sguardo
sopra gli  olocausti -
stanno in attonito silenzio
come chi non sa perché
 il dio frequenti al momento altri distretti
Forse - semplicemente - non sono più
né mai sono esistiti – gli dei –
se non come dito -
troppo umano dito del potere -
puntato (e poi negato)
verso inferni già istituiti.


Sei solo  - uomo.
Tua eternità è la specie.
Tutte le briglie strapperà la specie
dalle mani del piccolo sciamano,
dalle mani del grande imperatore
dalle mani del soldato inferocito
dalle mani dell’avido borghese.
Ma sarà il solco praticato
nel ricordo  delle piccole vittime
a custodire il seme delle piante
più infestanti. 







domenica 19 aprile 2015

Giocare a "La tua morte è mia vita " E che vita!

"Mors tua, vita mea" era, presumibilmente un saggio motto per significare che nel ciclo naturale della vita, il trapasso di una generazione di viventi dovesse lasciare spazio alla vita della generazione successiva.
Oggi pare invece che l'opulenza postmoderna, ottenuta togliendo ai molti esseri, e al pianeta stesso, il diritto ad accettabili condizioni di esistenza, debba condensarsi insensatamente nelle mani di alcuni, senza che vi sia il minimo conato di desiderio di esistenza oltre il proprio fradicio ventre e l'immediata genia.
Non si esprime alcuna solidarietà operativa per le moltitudini di poveri, prodotti della logica cumulativa fredda e perversa di quei Mida, anzi si soffia sulla pancia egoista del pidocchio di qui e di quello di là, contro il povero di là : investire denaro sul tracollo totale di altri, non importa chi, non importa come, a man salva e persino con tranquilla coscienza, perché così posso diventar ricco da un giorno all'altro, o posso diventare ancora più ricco e controllare la mia ricchezza contro i bisogni urgenti e inevasi di altri. E così la vita degli ultimi, che pure è una vita di cacca, deve ogni giorno misurarsi con i denti e le unghie dell'ultimissimo, ancora più orribile.
La ricchissima Europa fa del mare il suo filo spinato, fa dell'inclemenza meteorologica e della  micidiale lotta politica dei subalterni e degli esclusi il suo baluardo e il suo miserevole alibi. Non vuole guardare ciò che pure ha prodotto col suo dominio e la sua egemonia . E dove non c'è mare, c'è la mutria della sua stupida presunzione: dove l'individuo, ridotto alla corporeità dei suoi immediati bisogni, essendo nella condizione di monade solitaria della propria impotenza, deve pensare/inventare senza sosta modi per sopravvivere, anche contro quelli come lui, deve divenire l'umano imbestiato.. Eccoci tutti ridotti a lotte ferine, aggressioni per una spettrale salvezza tra disperati e fra loro e noi penultimi, immenso residuo della decadenza, a cui del "noi" rimane il negativo di ciurma incattivita . Perché così, chi ha potere elude la possibilità di essere individuato come causa efficiente e può meglio regnare. Monarchi di denaro, senza nobiltà, usurai, schiavisti per mezzo di anonime strutture, per interposti schiavisti e scherani, tutti coinvolti in un gioco di complicità da cui non si esce: la struttura perversa perverte e riproduce le condizioni della propria perversione.  
Tristemente, come non constatare che ciò che credevi un limite si sposta e tocca una nuova aberrazione?.

Chi voglia può seguire il seguente link

http://www.huffingtonpost.it/2015/04/07/syrian-journey-videogioco-bbc-utenti-rifugiati-siriani_n_7016036.html  

giovedì 16 aprile 2015

Report dalle cuspidi modulari - composizione inedita di Bianca Mannu

Curve tendenziali di numeri/profitto
segni dall’apparenza inerme
rivolti al cielo o al suolo
d’un misterioso quadrato cartesiano …
Come traiettorie d’aquiloni
cancellati alla vista
da siderali lontananze
s’incidono
s’intrecciano come gioco di voli
in un cielo  di cristalli liquidi
vietato al passaggio
di nuvoli e di venti …

Sono spie d’eventi/effetto –
capital gain realissimi e virtuali
difesi nei caveaux
Sono  vettori di valori
monetari
spinti da cupidi voleri
verso vertici di poteri  
tramite incitamenti per tattiche speciali
da sviluppare fuori scena
nelle quinte dei capannoni
alle bocche degli altiforni
nei cunicoli delle miniere
nelle modernissime
galere d’assemblaggio
di gadget e di high tech.

Dicono sia il senso del progresso
se l’operaio reprime
il suo bisogno d’andare al cesso
per meritarsi il posto di lavoro
e il favoloso tesoro
d’un miserabile mensile…
A tentare un’altra strada
si finisce come in Cile
o come in Argentina
oppure si accede
al “comunismo della Cina”
dove si condivide smog a tranci
e si appendono ai ganci educativi
i dissidenti …
I buoni affari rendono amici
gli antichi contendenti!

È il portato dell’economia globale  
quasi una sorta di condizione
meteorica impersonale…
Passerebbe  come evento naturale
se non si vedesse il dito 
a indicare il grado d’appetito
in abito sociale
di certi uomini stempiati
seriamente impegnati
in un plausibile gioco
di procedura tecnica –
neutrale algoritmo - dicono -
procedura razionale d’innocue abilità
apprese per sorte e familiarità.

Cenni di freddo desiderio e  calcolo         
nel moto misurato della mano 
su quelle X di piglio svettante
d’apparenza un po’ casuale
e un po’ disciplinata –
disegnate come fregi di pregio
sulle scacchiere/schermo - lassù –
ai piani alti di sontuosi grattacieli
Lì – curiosamente – si dice -
siamo tutti ben rappresentati
nella forma essenziale di numeri
spogliati di tutti gli accidenti.
Tutti lì formalmente uguali -
Vedi, la democrazia?!

Dal loro eminente piano
i signori del momento -
o forse per commissione
i loro abili scrivani -
si chinano appena
sulla nostra infinitesima esistenza:
studiano la tendenza
e decidono il gioco delle partite
d’algebra sociale.

“Qual è lo scarto per eccesso o per difetto –
il limite  – chiediamo - insomma
del quoziente stabilito o forse appetito?”
Convinta e secca la risposta:
“Questo non si può preordinare!
Questo dipende dalle linee di forza.”
“Dalla forza del dito?”
chiederebbe  Simplicio.
Ma quale dito mai!

Il dito  sono acque
son sottosuolo e mare
sono miniere e campi
sono stabilimenti e scuole
sono i pensieri introdotti
nelle teste dei  pensanti
con senso e senza assenso –
da discriminare!
Sono carceri e armamenti
per spegnere fermenti di dissenso
dovunque occorra l’assoluto
bisogno di quiete sociale.
Il dito affusolato del magnate
e quello asservito del commesso
infervorati lungo vettori ascensionali
sono la mossa gentile
d’una caccia spietata
ai muscoli e alle vite
di chi muove il badile
di chi apre le strade
di chi suda e  non vale
la sua stessa vita.

Dove mai siederà la pace -
se non nei cimiteri -
finché il quoziente
dell’imprescindibile equazione
dello scambio organico e sociale
spinto sull’alto crinale
dell’appetito personale
dell’interesse unilaterale
dei pachidermi umani
sta per principio etico e morale
di interessi così detti generali
a coprire gli orrendi genitali

del Leviatano capitale.

Nota Sarà poesia, non sarà poesia? Qualunque cosa sia, certo non serve, non vuole servire da cremagliera per portare l'acqua del consenso ai piani alti, dove stanno i regnanti sulla meteorologia sociale.
Si parla di default della Grecia, come se non ci si potesse riferire alla sua popolazione come a degli esseri umani - la maggioranza dei quali è in paurose condizioni di povertà, anche se i nostri media hanno ripreso il vecchio silenzio - ma a dei sassi che possono essere ammassati, spostati, triturati, ridotti in polvere, "asfaltati". Essi sono già vittime della loro classe dirigente,  così come i milioni di italiani ridotti in povertà sono le vittime designate a pagare con la loro pelle, la valanga di mostruosità politiche e economiche della propria classe dirigente.E a tutti costoro altri se ne aggiungono continuamente, stretti alla catena strangolante dei potentati mondiali furiosamente presi dall'accumulo e dalla sussunzione di ogni risorsa naturale e umana attuale e possibile al loro esclusivo profitto. Non ho potuto evitare ancora una volta con scoramento, di pensare che la logica perversa che ci tormenta, che sta scaraventando in un baratro incolmabile  una grande porzione di cittadini, è quella degli usurai, ma di gran lunga più perversa, perché ha asservito e sciupato, con le forze della gioventù, anche la forza dell'immaginazione.
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lunedì 13 aprile 2015

La poesia “non serve” a niente.- Come un borborigmo di Bianca Mannu


Sembra una bestemmia, ma non lo è, nel senso che la poesia “non serve” non pùò “stare a servizio” di alcuno o alcunché, altrimenti non è. Vive senza rossori quella che doppiò i passaggi al limite di tale non voluta condizione.
Prescindendo dalla discussa e discutibile categoria estetica del «bello stile», comporre testi “con le righe corte”, o esercitare altre attività, non destinate alla sussistenza materiale o al raggiungimento di fini esterni a esse, vale per la gioia, per la passione, per il gusto e il tormento di quel fare, che non è strumento per altri fini, a meno di aggiungerli  in subordine
Invece parecchie persone non comprendono perché ci sia chi spende il suo tempo in cose così inutili come le poesie, mentre – sempre secondo costoro - vi sarebbero tante cose utili da fare per rendere comoda la vita propria e altrui; come se dal canto loro non si registrasse mai dispersione di tempo in attività “inutili” o semplicemente ricreative. I più, mentre moraleggiano sull’utile, concepiscono le loro ricreazioni come consumo di cose, in cui l’attività del pensare resta sospesa a una goduria vuota, a uno sbadiglio.
Riferisco alcuni stralci di conversazioni.

Qualcuno osserva: Le poesie non sono neppure come un racconto, che di solito è una storia scritta in modo comprensibile. Invece non sai mai bene di che argomento parlino, le poesie. Anche l’ordine delle parole è tutto scombinato. E tu devi fare una fatica del diavolo a riordinare tutte le parti del discorso come Dio comanda per capirci alcunché. Sono perfidi i poeti.

Però – dice un altrole poesie che  esprimono sentimenti ed emozioni attirano e qualche volta ti accorgi che certi sentimenti espressi con così belle parole sembrano essi stessi belli, dolori e sofferenze comprese. E allora ti identifichi. Inoltre ci sono poesie che ti dipingono paesaggi molto gradevoli: sembrano acquerelli, raffinati dipinti.

Dice un terzo: Allora preferisco il dipinto e non un succedaneo. E poi, che cosa intendi con “belle parole”, le frasi incomprensibili?

Il mio momento di godimentoassicura un quartoio non voglio sciuparlo andando dietro a un segno muto che mi propone dei rompicapo a ogni riga. Io voglio  godere in compagnia  e voglio qualcosa che arrivi dritto all’ orecchio e al cuore e magari accenda la mia voglia di muovermi.

Bravo! – Esclama un quinto – Sono d’accordo con te. Io credo che le sole poesie che meritano attenzione e passione siano le canzoni. Le ascolto dovunque e in continuazione. Se sono in lingua straniera, mi godo solo la musica e il ritmo.

La discussione potrebbe continuare all’infinito. Qualunque cosa si voglia intendere con “poesia” pare che la sola parola evochi in un buon numero di persone moti di sospetto e di rifiuto.
Or bene, il punto di vista, secondo cui abbiamo cose ben più utili da conseguire, riposa su una concezione strumentale della vita e del senso attribuitole. Si basa su uno schema povero che non contempla il forte contributo dato dalle attività di immaginazione e di operatività non finalizzate, libere, alle risoluzioni ben riuscite di problemi assai spinosi della vita umana  
Sono convinta che le opinioni sopra riferite e altre consimili sono l’esito di un miscuglio deprecabile di atteggiamenti culturalmente indotti, quindi non reminiscenze di primitivi e rozzi pregiudizi cronologicamente obsoleti, ma il prodotto ambivalente e confuso della civiltà(!) presente, tutta involta nell’ossessione monetaria che strangola le genti.
Quei discorsi fanno tornare in mente quell’atteggiamento che, non molti anni fa, ho osservato da parte di adulti verso i genitori di quei figli maschi che frequentavano le scuole di danza. La danza, a differenza della poesia, si poteva proporre come professione a tutti gli effetti, benché di esito avventuroso. Tuttavia allora, chi avviava i figli maschi in quella direzione era guardato come se li volesse femminilizzare o sollecitarli alla (dio salvi!) pratica omosessuale. «Fare il ballerino» era contiguo a «fare l’attrice» e entrambi erano pensati come abbastanza prossimi alla professione delle meretrici, sia pure di un certo rango.
Ma «fare il poeta» era un’espressione ancor meno diffusa e tollerata nei ceti medio-bassi della società e certo neppure indicava un’attività apprezzata; ancora maggiore sprezzo era posto verso la ragazza che avesse dichiarato di voler «fare la poetessa» e non la madre di famiglia o la suora.
Un’attività così, slegata dalla ricerca del guadagno era pressoché inconcepibile per un giovane “normale”,  a meno che non fosse praticata da un ricco nobile, cui per privilegio di classe, era lecita ogni stranezza. Dunque essere/diventare poeta, fra coloro che dovevano guadagnarsi la pagnotta lavorando, implicava essere piuttosto uno scioperato inconcludente.
Ancora adesso il comporre versi  non è considerato, da noi in Italia, una professione. Non dà reddito, perché pare che i testi in versi non siano ben accolti nei mercatini rionali o nei market, dove circola gran folla. Ciò non m'inquieterebbe se non intuissi l'approfondirsi dello iato tra le culture così dette di nicchia e la cultura di massa sempre più svilita ed evasiva come un placebo che deve addormentare il tormento di vivere in deprivazione.    
Quando i giovani vengono interpellati circa il loro destino professionale, nessuno dichiara apertamente di voler diventare poeta. E perché mai dovrebbe, dato che la poesia, in qualunque veste non spettacolare, non è un bene d’uso, “non serve” a creare uno status? Divenire  cantanti, sì, personaggi dello spettacolo, sì, modelli  e indossatori, sì, magari per raggiungere la pur breve notorietà tramite una "comparsata" negli show. Perché se hai il fisico, la loquela te la fai sul campo e così il repertorio da mostrare e i trucchi del mestiere, e quando sei nella ruota, incroci la domanda del gran pubblico. E allora tutte le sciocchezze che dici e fai sono per un momento quasi vangelo. Puoi firmare un libro sulle tue gesta private coi particolari in cronaca, troverai l'editore, invaderai  gli scaffali di librerie e supermercati, presenzierai come autore nei talk show.
Malgrado le note controindicazioni, qualche schizzato insiste nel voler fare poesia/ versi e di voler dedicare a tale attività, compresi studio e riflessione che vi  si collegano, tutto il suo tempo.
Se sei di questo avviso, dormi poco, frequenta libri, maneggia carta e penna e cimentati, dopo il lavoro e nelle pause festive consentite. Vedi se ciò che emerge rinforza il tuo intento.  Magari sul momento ti servirà da consolo e lo scalderai per un’esito possibile come il sottotenente Drogo  scaldava, morendovi, il suo eroico scontro con i Tartari.
Se ami la concretezza, se hai abbastanza soldi o una famiglia che foraggia i tuoi  “capricci”  e “sperimentalismi vuoti”, puoi affittare un locale e sul frontespizio dell’ingresso puoi affiggere un’insegna:
«POETA» Poesie per ogni occasione! Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – promozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi personalizzati. per ogni Nascite e battesimi – fidanzamenti e matrimoni – compleanni e prime comunioni – prmozioni e lauree – congedi mortuari e lapidi. Costi t
Ecco, t’inventi una nuova professione!
Qualcuno leggerà l’insegna e cercherà di dare una sbirciatina per farsi un’idea dell’allestimento, ma sopra tutto vorrà adocchiare la faccia del pazzoide che si propone. Ma non è detto che le commissioni non arrivino, per esempio, ad opera degli strambi danarosi che vogliono stupire gli amici e magari appioppare loro una propria foto con didascalia in versi.
Costi personalizzati hai scritto? Dovrai essere competitivo rispetto ai prestampati del trend commerciale. Dovrai inventarti un cottimo.
E così, da poeta ti trasformi in artigiano-scriba di te stesso, alle prese con le ballate e gli strambotti e le ineludibili esigenze e scadenze imposte dai committenti. Se reggi e se gli affari crescono, puoi sempre assumere poeti salariati e mettere su un’industria niente male, con tanto di catena di montaggio.  Ma di essere poeta già hai cessato da un bel po’.
Dunque non si può essere poeti al ritmo (presunto) industriale, a meno di replicare in copia il tuo limitato prodotto in “giambi ed epodi”, lasciando al compratore/lettore il compito di personalizzare, cioè di mettere del suo nell’interpretazione del testo. Ciò che già avviene ad opera di quelli che leggono e regalano libri di versi, ma in piccola percentuale. Infatti i libri di poesie restano per gran parte invenduti, perché leggere poesia significa soggiacere all’esigenza di decodificare con senso, cioè, come sopra, “personalizzare”.  
Chi può personalizzare, cioè smarcare sul testo il suo testo? Colui/colei che si avvale di una pre-formazione educativa, della sensibilità e della  cultura di base aperta a una dimensione di senso che non prevede il semplice consumo, ma il godimento dell’inquietudine e della ricerca di quanto, di sé come altro, nel testo si allude o si elude, si dice o si tace, si libera o si inchioda. Può, chi sa interrogarlo e magari scuoterlo e farlo suonare e vivere con la propria vita. 
Ecco, la “voglia di assaporare poesia, di chiedere poesia alla poesia” non nasce come il pelo sulla tua pelle; piuttosto implica una formazione culturale che neppure cresce negli orti o nei vasi dei balconi.
Mia cara italianissima Patria, culla di poeti eccelsi, come puoi coltivare una pianta così nelle scuole-pollaio? Come farla fiorire tra la ferraglia che si dice trasudi “valore aggiunto” debordante profitto già infeudato, o pensare che si possa pomparla e vendere come fosse petrolio o anche propinarla come si vendono ai turisti i paesaggi ritoccati in cartolina sul Web?  
Dunque la famosa frase del poeta latino Orazio - Carmina non dant panem – continua a funzionare adesso come allora.
Infatti i poeti diventano poeti gestendo in sordina la propria poeticità (bulbo delicato), intanto che praticano l’insegnamento, magari di letteratura e critica letteraria, ma persino di storia, di psicologia, di architettura, nelle università o altrove; e ve ne sono altri, maestri e prof., glottologi e linguisti travestiti da precari, persino economisti e filosofi, ingegneri e consulenti d’affari, attori, registi e – chi sa? -presidenti di società partecipate e altri che intanto fanno i giornalisti, altri i contabili presso supermercati e grandi magazzini.
Tutti costoro hanno intanto, come tutti, un corpo vorace che corre dietro al pane ed eventuale companatico. (Per carità di Patria, evito di accennare al mecenatismo istituzionale!) Dunque anche coloro che scaldano il sogno di divenire “poeti per i non poeti”  ed eventuali fruitori, sono costretti a fare i poeti della domenica e dei sonni brevi. Finché direttamente, ma sopra tutto indirettamente, i sopravvissuti dell’avventura (siano solo poeticamente morti  gli altri!) non incontrino il vento buono, non tanto del mercato, quanto piuttosto dei circoli e delle riviste specialistiche. Lì talvolta, sebbene non frequentemente, (se il bulbo poetico non si è infrollito) è possibile mettere insieme pane, companatico e altro ancora, persino con i versi in cima.
Lì, forse, la poesia, se non ha gemmato, forse gemma. Ma quando, dove e come gemma, non si sa. Nessuno pare in ansiosa attesa del verso che verrà.
Nascerà quasi di certo una piccola foresta di poeti colti che si leggeranno reciprocamente nei salotti buoni di gente altolocata, lucida ben vestita e profumata che discuterà in punta di forchetta le figure allusive, gli anacoluti, le anastrofi col seguito di epistrofi e assonanze… Qualche verso farà di certo il botto con l’onda lunga che minacci di uscire dal cancello… «Bello! Bello!» E intanto  col seguito di «oh», la bella gente si osserverà scambievolmente trucco, toilettes e indizi di sociale promozione,  degusterà cibi sopraffini e nettare di- vino.

E i poeti? La loro carriera l’hanno fatta, se l’hanno fatta, in un altrove impoetico. A filo di arenili, in acque. Acque mosse dai sussulti delle borse piene di opzioni per i prototipi e i modellini di mirabolanti gadget, virtualmente pronti a moltiplicare la forza di lavoro di sparuti (e fortunatissimi!) drappelli di tecnici e operai in tuta bianca, dove, tra torme di naufraghi di tutte le professioni, oscilla alla deriva come  un’ inservibile scialuppa, la poesia.

sabato 4 aprile 2015

Ballata dei “penultimi” - inedita di Bianca Mannu


Un tetto sulla testa
e sotto il vecchio corpo
gonfio di sonno ancora
difendo – caldo – un letto
fornito di coperte -
lenzuola di bucato.
E ancora sopra –
come viene sera –
il mio tiepido affetto
dispone uno stuoino -
morbido e di formato esiguo -
per il sonno e le moine
del mio tenero gattino
di velluto bicolore
nari rosa - ammaliatore.

Anche oggidì com’era ieri
il mio pasto appresterò
se il mio denaro non darò
al gratta e vinci del gabelot
ed il suo – del micio intendo –
dal mio boccone toglierò
in cambio della gioia
per il suo ron ron.

Per oggi e per i trenta
prossimi tramonti
pagati mutuo e  condominio.
Né per fissa o schizofrenia
le quote metto nella scansia
per acqua gas ed energia.
Ficco in busta ricuperata
piccole pile di nichelini
per il mio traffico in telefonia.

Sottraggo preliminarmente
 fin dal giorno di Sanpaganino
una quota un po’pesante-
quella inerente la salute
medicamenti e terapie di conforto.
Penso proprio non farne a meno
fino a che… non sarò morto.

A giusto proposito – e non per facezia –
ancora sottraggo questa  inezia
 (e mi prendo tutto l’agio 
per adeguare adagio adagio
il colmo al tempo del “mai danno”)
per il  prezzo della bara
con doglianze e esequie incluse –
scelte tra le più parsimoniose.

Questo – sia detto per inciso –
perché voglio che la gente
assegnata a mia cura in  sorte
non affretti la mia morte
né troppo soffra la premura
per il costo eccessivo
di mia eventuale… sepoltura.

Infine sento l’obbligo morale -
la morale è al presente 
un problema personale –
… Sento l’obbligo di fare
 uno storno generoso
per mio figlio inoperoso
e per la suocera esodata
dalla legge di Fornero.
E per questo mica basta
solo spremerci un pensiero!

Né più mi basta la pensione
Ancora per questo lavoro a ore
e la paga arriva in nero.
Sono perciò anche evasore.

Temo ancora di  sapere
che alla fine delle fiere
mancherà uno spiccioletto
– che so?- per il caffè domenicale…
Per il cine o per teatro … Manco detto!
Devo inoltre defalcare
euro  dieci ciascun mese
per il canone TV
ch’è il mio unico giornale
mia sola fonte culturale!

E i libri? – domandate.
Certo i libri sono pane
per la mente … 
Ma adesso siamo gente
che non può pensare a niente.           
Imbestiata nello sbarco del lunario-
stiamo in braccio dell’erario.
Siamo gente ormai sconfitta
gente da “finale di partita”.

Eppure eppure eppure - 
sono forzato a certe misure
draconiane nelle spese
che saltano fuori a fine mese.
Confesso che una quota delle verdure
viene dai mucchi di spazzatura
e che gli scarti del macellaio
li addebito al gatto
che non testimonia né fa il notaio.

Il tempo passa e non giunge a Cadice
Doppiati in apice
i passaggi al limite
della sopravvivenza –
facciamo scienza
dello scampare nuovi accidenti
dei paradossi pecuniari 
nello smussare unghie e denti
ai conti dell’algebra sociale
nel confondere resti ed esiti
dell’aritmetica personale!

Anche il respiro divide in quattro
l’io infurbito  e vanta questo:
“Permanendo tale contesto
sono contento che non accresco 
la triste fila dei barboni
la torma di larve
che dorme in cartoni
non i drappelli degli abusivi
ritenuti molto invasivi
né la coda degli affamati
presso le mense e i patronati.

Se stringo il morso ai miei bisogni -
se ogni mio volo ho nel fango annegato
se tra le ortiche ho mollato i miei  sogni -
sono e mi sento – non dirò emancipato
dall’orda  grigia dei “vivi a perdere” -
ma - sia pur precariamente - 

traverso i tanti disagi… fortunatamente!


Nota. "Lunga, troppo lunga", obietterà qualcuno. "Per essere in forma di poesia, non è neppure poetica", dirà un'altra. 
Tutto vero, dico io. E aggiungo che non mantiene neppure  le rime, cambia di ritmo e in certi punti arranca faticosamente.
 Ma provatevi a negare, voi che avete il cuore tenero, che la vita dei poveri diavoli abbia dei ritmi perfetti e si presenti con un'estetica inappuntabile.
Il povero diavolo è in genere abbastanza inerme, perché impotente a mutare con un atto di volontà la sua sorte. Ma non ditemi che non è arrabbiato col mondo e con i suoi simili. Quando gli attribuiamo dei sentimenti teneri per i suoi aguzzini anonimi, o è psicologicamente, diciamo debole, oppure la nostra cattiva coscienza finge di credere che lui sia contento così.


giovedì 2 aprile 2015

Proposta per una interessante lettura: LA SOCIETÀ INDIVIDUALIZZATA di Z. Bauman

Riporto un breve passo dal capitolo Usi della povertà:
«Sappiamo che, svincolata dalle briglie della politica e dai condizionamenti locali, l’economia in via di rapida globalizzazionee sempre più extraterritoriale produce differenze di riccheza e di reddito sempre maggiori tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della popolazione mondiale, così come all’interno di ogni singola società. Sappiamo anche che essa emargina fette sempre più consistenti della popolazione, le quali non solo sono costrette a vivere in povertà, miseria e indigenza, ma anche permanentemente espulse da quello che la società considera un lavoro economicamente razionale e socialmente utile, e in questo modo rese economicamente e socialmente ridondanti.»

Ecco sinteticamente quanto mi pare di aver capito di questa preziosa raccolta di saggi

Il mondo contemporaneo presenta una complessità inedita.  Esso prefigura destini orrendi per una parte rilevantissima di esseri  umani, se questa stessa umanità non si rende ragione dei meccanismi emarginanti in atto e s’imbestia nel restare prigioniera dell’idea che il gioco economico del profitto decide di tutto, e in forza di tale condizione, imposta dalla struttura di potere, tollera come conseguenza razionale che un gran numero di esseri umani risulti ridondante, ossia destinato al macero della condizione di povertà e depressione, come esito ineluttabile.
Questo, speriamo  eventuale, destino non è per nulla inscritto  nel così detto progresso tecnologico, né nel naturale egoismo degli umani e dei gruppi sociali che competono  per  mettere le mani sulle risorse- queste sono solo conseguenze di un meccanismo più pervasivo, anonimo e potente che imprime la sua logica a tutti gli aspetti della società. Il motore è la ricerca del massimo profitto  tramite il mercato, cioè lo scambio di ogni cosa usabile contro denaro reale o virtuale, il quale è esso stesso merce dematerializzata,  convertitore universale di ogni altra cosa o animale o persona o parti di essi in quanto merce.
Chi ha molto  denaro  può vendere denaro e fare grandissimo profitto, senza produrre qualità di valore aggiunto, con l’agio pagato dai compratori di denaro. Da me, per esempio, che chiedo il mutuo per la casa o per mettere su il mio laboratorio di sartoria o un’officina per riparazioni.
Che cosa avviene alle persone che entrano nel mercato come venditori di merce/lavoro non richiesto, non in corso o deprezzato? E a quelli stessi che per iniziare un’attività hanno acceso un prestito e poi non realizzano?
Pure i bambini lo sanno: costoro non possono accedere  allo stesso mercato in veste di compratori. Nello stesso tempo sia pure proponendosi come liberi venditori di abilità lavorative, non trovano chi voglia acquistarle. Ciò significa che tali soggetti rimangono ai margini del mercato o ne escono totalmente, vivendo molto precariamente di sussidi, finché i sussidi e supporti personali ci saranno.

La distribuzione delle risorse per accedere ai consumi  è dunque ineguale. Ma l’inegualglianza si è approfondita in misura abissale coinvolgendo una grande massa di persone – i poveri . Questa massa cresce e minaccia di non poter più essere riequilibrata, anzi è già divenuta strutturale.

Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che il meccanismo della necessaria ridistribuzione dei beni e dei servizi prodotti  è strutturato in un modo tale che la ricchezza continua  ad accumularsi in modo esponenziale, ma concentrandosi nelle mani di pochissimi, mentre il gruppo sociale che pure ha prodotto e produce risulta impoverito, ossia può contare su una quota minima dei beni prodotti. Per contro l’incremento della povertà chiama alle restrizioni delle fonti sociali di beni e servizi. Il livello politico amministrativo s’incarica di legiferare quelle medesime restrizioni: limita, privatizza, e restringe il ventaglio dei servizi garantiti, smette di prevedere e provvedere  forme di sostegno sociale dirette alla crescente massa dei poveri.
Anzi una società cosi diseguale tende a disfarsi, come orpelli dannosi, di parecchie forme di solidarietà sociale, di cura dei piccoli e degli anziani, dell’assistenza e della scolarità  universale, della salvaguardia delle diversità  e della dignità umana, insomma di tutto ciò che in qualche modo è stato il fiore all’occhiello dell’Occidente per qualche decennio del secolo scorso.

Il pericolo di un imbarbarimento irreversibile minaccia, secondo Bauman, non solo le macrostrutture, ma persino i rapporti interpersonali della vita quotidiana, lavorativa e sociale. A questo livello, messe all’angolo le ragioni della fondamentale uguaglianza nei diritti basilari, le ragioni del legame e della condivisione civile, il gruppo sociale si polverizza in individui impauriti e soli in un mondo cieco e sordo.

Sull’individuo vanno a scaricarsi  tutte le difficoltà , le tensioni  e le responsabilità, che sono invece il portato delle aporie strutturali. Ideologicamente si enfatizza la sua autonomia, la sua libera decisione e responsabilità, invece lo si rende a sua volta cieco, sordo e imbelle rispetto al proprio essere sociale. Lo si allontana dalla comprensione e volontà di azione politica in senso ampio e alto.

«…essere un individuo de iure significa… non poter cercare le cause delle proprie sconfitte al di fuori della propria indolenza e infingardaggine….Convivere quotidianamente con il rischio dell’autocensura e del disprezzo di sé non è facile…»

D’altra parte Bauman non si esime dall’indicare la  forte subordinazione della struttura politica esistente nei confronti  dei potentati economico–finanziari. La subalternità della politica nelle società postmoderne è non solo ideologica, ma funzionale perché  funge appunto da agenzia per il mantenimento dell’ordine pubblico, essendo la politica lenta e legata ad ambiti territoriali ristretti, fisicamente adeguata all’esercizio del controllo dissuasivo/repressivo  a garanzia della suprema mobilità dei capitali; mentre dovrebbe essere il meccanismo solerte ed efficace di regolazione dell’economia, garante della salvaguardia fisica e sociale dei cittadini, custode di quella ecologica e conservativa dei territori.

L’economia finanziarizzata in realtà, non solo  si libera da ogni ceppo territoriale, ma si slega da ogni responsabilità umana e sociale inseguendo senza più freni la valorizzazione crescente dei  suoi profitti, sussumendo sotto di sé ogni attività umana mercificabile e in prima istanza occupando le fonti e i percorsi dell’informazione e della formazione culturale,con cui garantirsi la relativa e universale tranquillità rispetto all’intangibilità del profitto.


«Il “principio dell’ordine” nel gergo politico dei nostri tempi significa poco più che lo smaltimento delle scorie sociali, dei relitti della nuova “flessibilità” della sopravvivenza e della vita stessa.»