giovedì 29 settembre 2016

ERVAPEDRA = LICHENE - due sonetti di ANTONIO ALTANA

Parlarsi da verso a verso è una delle più singolari e squisite emozioni che la sorte può regalarti. 
Una pratica che solo gli antichi, di comunità relativamente piccole, esercitavano con reciproco impegno e soddisfazione del pubblico, dato che questo scambio avveniva oralmente e pubblicamente nei raduni religiosi e civili.
Antonio Altana, sardo come me, dialoga con me, in relazione al mio divenire metaforicamente il lichene - del poemetto Figlia di liberti.  Come  uno scriba bizzarro e spontaneo, quel lichene incide sulla roccia, insieme al suo percorso vitale, le anonime peripezie storiche delle classi lavoratrici, nell'unico modo che può.
Antonio  Altana riprende quella metafora, rendendo perspicuo il riferimento al lavorio linguistico che conferisce senso a ciò che sembra non averlo secondo banale evidenza. Sciolto, moderno nei significati e nell'espressione, il suo stile aderisce alla forma classica del verseggiare. 
Altana, predilige il Logudorese, sua lingua nativa, che io, Campidanese, conosco poco, ma di cui "a naso" avverto l'eleganza e la precisione lessicale. Usa l'italiano, come lingua di più largo supporto e a quella mi appoggio per capire meglio il concetto. E lui, anche da questo versante, si rivela poeta raffinato.  (B.Mannu)

Ervapedra

Dare versu a rocas carasadas
cun atarzina limba geniosa
est frùtura licanza e saborosa
pro biados de bramas iriadas.

Medas bident sicaza neulosa
inue b'at cagliadas sirigadas
chi movent pesos chena sueradas
fora dae s'usantzia pretiosa.

Sighi che ervapedra a suer rocas 
pro frunire cun fozas sos colores
chena timire abba ne fiocas.

Mantene atenatzados sos valores
pro mezorare sos sinnos chi tocas
cun grafemas cundidos de lugores. 


Lichene

Dare verso alle rocce inaridite
col lessicale acciaio del talento
è frutto prelibato e succulento
per pochi eletti alle brame assortite.

Molti vedono arse e sbiadite 
le gemme nel suo muto crescer lento
che smuove pesi per rilassamento
oltre le prassi solite, impigrite.

Continua da lichene, suggi rupi
per fornire con forza quei colori 
senza timore degli eventi cupi.

Tieni sempre tenaci i tuoi valori
per migliorare il senno nei marsupi
con grafemi farciti di bagliori.

giovedì 22 settembre 2016

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu - Seconda parte

Seconda parte


Dell’altoforno so per verbi scialbi
l’arsione – altrimenti feroce –
del suo fiato.
E solo per procura dei media
la sibilante pazzia conosco
dei fuochi e degli acciai

sfuggiti alle ragioni e prigioni
tecnologiche
per causa degli imprevisti colpi –
si mitizza - della malasorte
su malfatati Efesto di caduca sostanza -
appesi a un salario
magro e morganatico.

Conosco per sentito dire
le bocche delle trance - delle tramogge
delle pompe a risucchio e a cremagliera –
 spalancate – avide –
dentate – semoventi –
con voci di tuono
e stridenti di ferraglia …

Di debolezza si mormora
a carico di uccelli giganteschi e implumi –
forgiati in gelidi metalli  e vetri –
di gru fradice - si dice - di bufera
e d’altri scempi … 
E di stantuffi matti – si narra ancora –
colti a sfiatare in faccia
micidiali vapori al diavolaccio 
che – per motivi - si disse –
di razziale ascendenza –
di scarsa intelligenza-
per nera pelle o bianca o
d’indecidibile colore -
all’incanto s’è posto – oggi lo si ammette! -
per obbligo di economica natura
d’ “impar condicio” storico-sociale
e di altri – (sempre per malasorte!)
non solo ideologici - tormenti.

E  io ?… In quale – di detti registri  –
sono inscritta? 
Sono forse sfuggita di mano
al mio più duro destino?
Però sono dovunque
dovunque hanno lasciato ossa
e pelle gli antenati e miei parenti
e altri ritenuti alieni d’oltremare.
Contro quel destino
mi sono evoluta stranamente
e in un modo che
certo ha del sorprendente.

Sento di vegetare adesso
un po’ torpidamente
nel dubbio di un clima … di frontiera.
Tra pioggia e vento  confido
allargarmi sulla roccia  avara
e scaldarmi di sole generoso …
Respiro – respiro
respiro a tempo di risacca.
E respirando sopravvivo.
Sono lichene e sul mio sasso
scrivo!

venerdì 16 settembre 2016

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...

Verbi e di-verbi: Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bia...: Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi ...

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - Figlia di Liberti- Bianca Mannu


Le radici non stanno nella terra che casualmente ti ospita e che t'insegnano a chiamare Patria, cioè terra del Pater,che non è quasi mai il babbo, ma il Patriarca-padrone, il quale talvolta abita lussuosamente altri luoghi. Le radici sono le invisibili e spesso insapute/dimenticate connessioni storiche che ti assegnano il posto da cui spremere, tra sudore e paura, quel qualcosa che diventa energia, respiro. Se incroci il caso fortunato, occupi uno spazio e vivi in un modo che altri hanno sudato per te e che tu
spesso ignori
Questa. che ho enumerato in questi e altri versi liberi
è la mia genealogia e la mia parentela.
Sono sarda, ma i miei ascendenti e discendenti sono sparsi a faticare nel mondo


Figlia di liberti


Non so che cosa sia un chiuso -
un campo coltivato - un orto …
M’è ignota la terra che mi nutre.
Così delle sue viscere altro non so
se non che vi alberga la sorgente
di certi monili che attestano
la mia femminile schiavitù –
quella nuova – non meno di quella
che le antiche mie madri – tra un fiato
e l’altro del loro eterno faticare –
mettevano  in parola di conferma –
per l’infausta progenie femminile -
intorno al fuoco – avanzando sera.

M’è ignoto il sentore aspro della terra
ferita dal chiodo dell’aratro.
Bestia d’allevamento urbano –
lascio ad altri gli effetti corporali
del burbero e moderno
scotimento del trattore
e di quello mandibolare della
mietitrebbiatrice.

Non so il gusto del fango
che nutriva le patate
interrate nei terrazzamenti. 
E i suoi effetti non so
sulle “faldette” delle nonne
inginocchiate sul costone.
Diveniva – seccandosi sul tubero -
teca di conservazione
nell’interrato/stalla dove –
sullo stesso strame
della mucca figliata -
il ventre d’una mia ava 
partoriva il mio passato
come acconto in bianco
sulla futura carne.

Non ho abitato le case/covile
addosso alle falesie
né le capanne di legno vivo
e vive frasche
ho abitato - servo pastore
in tanche di costiera
o in quelle di bassura – in condominio
con l’ovina gente.

Non ho corso le onde
sui gusci di noce
per strappare alla vita –
con reti o con paranza-
la vita di creature
costrette a guizzare
il proprio morire di soffocamento
nel vento sordo
dei loro affannati giustizieri.

Neppure abitano le mie tante paure
le convulsioni dei fortunali  salsi
né i repentini viraggi d’acque
a complotto  coi nembi
gonfi di saette …
Perché – verme di terra bitumata –
le ho vissute al più come parola -
come emblema e figura
d’una Natura temibile e possente
ma ammansita e reclusa
entro il perimetro delle cartoline.

Né per scelta né per dovere
la  penso intimidita – la Natura -
dall’alta arroganza delle corazzate
o dalla goffa gravezza delle petroliere …
Neppure mi muove
la volgare illusione di ridurla alla mercé
della falsa apparenza di pingui crociere
in tour transoceanico …

No, non conosco l’immenso orrore
della solitudine
nel mare freddo e nero
che m’ inghiotta e mi sbatta
contro le paratie indifferenti
del vicino Continente -
contro i rocciosi tradimenti
del suo cuore umanitario
assoggettato alle cattive ragioni
del suo viscere
in formato capitale.


Noticina: La composizione continua nel prossimo post. (B.M.)

venerdì 9 settembre 2016

Bianca legge “DITEMI” - silloge di Angela Argentino

Più che libro, questo oggetto è un manufatto complesso, fatto di molte voci e diversi linguaggi. Non irriti alcuno questa mia parola, tanto meno la Poetessa Angela che ne è perno e anima. Non è definizione questa mia, ma parola espressiva dell’effetto sincretico prodotto in me dalla  delicata calibratura delle immagini, dei colori e dei testi brevissimi, così che d’emblée sono presa dal dubbio su quanto io stia realmente  leggendo, se le parole, i dipinti o le foto o le fantasmagorie dei colori e delle sagome che anticipano o echeggiano i versi.
Certamente Angela Argentino (pittrice oltre che poetessa)  e coloro che con lei hanno collaborato a comporre l’opera-libro hanno voluto dar corpo a uno stile composito esteticamente attraente e immaginifico, in cui ogni parte si armonizza col tutto e corona  con gradevole efficacia i testi poetici.
Quale universo dischiude per noi Angela Argentino poetessa?
Intanto spalanca subito l’abisso della propria inquietudine, con un richiamo quasi imperioso e un quesito ecumenico: se anche noi sperimentiamo la sua impossibilità a cogliersi intera nella propria percezione.
E subito con un’intensità rappresentativa immediata Lei sveglia per noi i reattivi brandelli in cui si sfrangiano o si coagulano le pulsioni-volizioni-paralisi o i vividi e incontenibili rivoli dai quali deborda l’onda crestata delle dissomiglianze con la presunta, tanto rassicurante quanto falsa, essenza identitaria. Non più che ombra, questa, proiettata sul suolo calpestabile di un crocicchio, testimone senza consistenza della nostra imprescindibile corporeità.
Tra le  maglie dei suoi versi puntati su abissi di densi silenzi, significanti e ambigui, inopportuni persino, Angela coglie spietatamente l’ingombro monolitico nel quale ci raffiguriamo contraendo in forma di paura il nostro vivere contradditorio e plurale. Volendo chiuderci in un catasto rassicurante e, trovando l’incongruenza dei suoi lembi, ubbidienti a opposte e decentrate discipline, ci confondiamo, intessendoci di un silenzio intimo e obliquo, come fa il corpo allorché si  fascia di grasso a guisa di protezione, peraltro fallace. Processo silenzioso di cui non vogliamo sapere e di cui non avvertiamo l’effetto ottundente di “bomba inesplosa”, ma che si presenta come esito sgradito di una lotta spossante. E tuttavia intanto che procede, senza e spesso contro di noi, avvertiamo segni di messaggi minacciosi in codice: non decodifichiamo. Quando, soccombendo alle sue inesplicate minacce, ci rattrappiamo in quel nodo di paura, la vita grava dall’esterno su noi come un oggetto.

Le due poesie incipitarie sembrano perforare, con la parola che si fa sguardo, l’abissale imbuto ontologico, con effetti dinamici, tesi e traboccanti d’echi, tali che per un pezzo non si coglie l’impatto col fondo, né la brusca risalita verso una cronologia più consueta. Dall’interiore universale Angela risale alle schegge di memoria: sedimenti e fessure spazio-temporali dove sosta il fremito qualitativo del personale. 
Quale sarà il moto successivo ? Va reclinando verso l’io psicologico determinato a ricomporsi nella normalità pacificata dell’esistente?  Mah!. Forse,sì.  Chiedere lumi e responsi al più solare seguito del testo? Ma la poesia come la vita, sfugge e non dà spiegazioni. Gustiamola come si presenta, con i suoi salti tra tormento e  fiaba, quelli che Angela le fa compiere con ali delicate, autentiche. 
Nei versi di “Ditemi” incontriamo quella nostalgia acre del grumo originario, uovo di tutte le dolcezze e di tutte le impreviste ferite imminenti, possibili, subite. Compare il nome del tempo tribolato e affaticante della “disumana energia” per emergere e infine lo spirito della stanchezza che non ha potuto valersi delle “istruzioni per vivere”; e c’è la dismissione in logo museale del sé, efebo ferito e prigioniero d’un sogno abbozzato, per schiudersi in donna “carica di crudeltà  ereditata”.  Ereditata, dunque innocente e vittima?   Vittima incattivita dell’esclusione sociale e dell’invidia scagliata a umiliare la bellezza e l’intelletto. Vittima affannata alla ricerca d’un risarcimento, nel quale, giungendo inatteso e gratuito come amore donato, non sa vedere se non l’insidia e forse l’ansia di possessione . È stata la saggia stanchezza caduta su lei dalle braccia d’una tenace costanza, che non chiede ricompense, a infrangere  non senza dolore “l’angelo di vetro” che dominava la sua vita, e a dischiuderle nuove e certo non facili possibilità. Senza le istruzioni salvifiche intuiamo appena ciò che di squisito ci manca. Con lacrime e sangue tentiamo attingerle forniti della nostra dolente miopa: nulla è scontato.  E solo il dantesco volgerci indietro può darci la misura incolmabile di ciò che avremmo potuto perdere. Non a caso, credo, si incontra in questa silloge una sorta di percorso salvifico, ad opera di una figura maschile, pare, sulla femminile. Qui è Lei l’inquieta figura femminile, ad essere involta nella “recherche” affannosa del suo “ubi consistam”, del difficile equilibrio tra sensibilità e libertà creativa, tra esercizio culturale e liberazione affettiva, tra compiti etici e doveri sociali, tra senso religioso e specificità personale. Tale percorso non cancella le ferite inferte dal contatto sociale al proprio sé inerme e inconsapevole, ma il soggetto ferito e pensante può forse, con volontà e fatica, elaborare il loro superamento catartico tramite la consapevolizzazione dei limiti fisici e temporali, tramite la gioiosa pratica dei linguaggi dell’arte nelle loro diverse espressioni, auspicando che su quell’arco s’incontrino e si scontrino gli elementi inconciliabili del vivere, ma emancipati dall’immediatezza emotiva e corporea che caratterizza la giovinezza.  Così Angela accede al proprio tempo risanato, epurato dalle angosce di stampo romantico, ma quasi esiliato nella purezza classica dei nobili “luoghi a perdere”.
Come emancipata da un passato da narrare con la sintesi di numinosi estratti-astratti, Angela sembra trovare le sue domeniche e i suoi lunedì ammansiti, avendo dato breve parola all’inquietudine e avendola quietata nell’utero pacioso di un credo riposto nell’ombra d’una chiesa contigua ai luoghi del buon Presente e degli affetti durevoli. Tempo e luoghi ritrovati, dunque, come continuità dell’usuale: ritorno gradito delle stagioni, rivisitazione dei luoghi amati nella cornice della fisicità accettabile nei suoi riconosciuti ambiti, l’incontro rassicurante e gradevole con  persone che duplicano, come nel fuoco di uno specchio concavo, gli amabili fantasmi delle divinità  primigenie. Ed è così che quella poesia, che mi ha adescato per il ribollire di quesiti, d’inquietudini, d’insofferenze contro l’incombere dei cerchi dell’uguale tranquillato, … Quella poesia che era e poteva svilupparsi come tensione a riconoscersi nell’angoscia universale delle genti nel mondo contemporaneo, si stempera e s’imbozzola invece negli esiti di una malinconia dissimulata nel godimento del “hortus conclusus” dell’esistenza personale salvata e protetta. 

venerdì 19 agosto 2016

La nave non va - Piccola riflessione di B. Mannu sul Presente

Era, è platealmente una bugia scrivere che “la nave va”, usando l’espressione come metafora di un mondo che, nel nostro guercio immaginario, procede lungo la mediana tra peggio e meglio.
 “La nave va” era, è, se non sbaglio, il titolo di quel bellissimo film di Federico Fellini. Sì, una fiaba, appunto,  costruita con la nota grande maestria e ironia. Ma  con buona pace di Fellini, nemico di letture dietrologiche,  a me è  rimasto impresso il significato ossimorico  del titolo, il quale prese a risonare con tragica ironia, nella mia mente,  appena sulla privatissima, sontuosa e godereccia navigazione funebre (funerale da Belle Époque) irruppe l’inizio della tragedia vera: lo scoppio della 1^ Guerra Mondiale.  E ricordo che la visione dell’intero film andò a rapprendersi, ancora nella mia mente, come immagine metaforica dell’Europa incapace di rendersi conto della sua imminente rovina. Del rinoceronte-simbolo non ricordo niente …
 E se la mia lettura del film risultava, e risulta, inficiata dalla sovrapposizione di simbologie tratte da altri contesti, non è del tutto falsa l’idea che la storia particolare del film si sia prestata e possa ancora prestarsi a simboleggiare l’irragionevole vanità di coloro che, beneficiati dalle fortune economiche e sociali e dal caso,  continuino a ignorare l’urlo di coloro che le stesse fortune non hanno e anzi vivono i massimi pericoli, per tacere di coloro che, invece, proprio sui disastri naturali e umani fondano le loro immense fortune .
Tutto ciò vado dicendo  anche per sconfessare, in quella poesiola, una mia volontà di disimpegno, – nel caso che qualcuno  vi avesse letto un tal significato.
No, purtroppo e decisamente, la nave non va, nel senso che il mondo è qualcosa di sgangherato che si agita e genera ogni specie di degradazione. Ci agitiamo, nel modo in cui sappiamo, forse poco volendo: ancora una volta siamo piccole comparse, talora recalcitranti, ma in qualche modo infelici complici di eccidi e catastrofi, che si collocano nella “migliore” tradizione  dei conflitti bellici mondiali. Eppure le piccole barche di ciascuno di noi del “primo mondo”  sembra che vadano …  Ma vanno? E dove?
Mi indigno quando nei telegiornali della nostra Isola si esulta perché i turisti sono arrivati, quindi c’è lavoro per un pugno di camerieri. Arrossisco davanti alle “balentìe” da cartolina che procurano orgasmi a piccole folle di compaesani  che si credono catapultati in un’era di “felice identità”.  M’indigno e mi vergogno, perché dalla nostra Isola, a pochi chilometri dalla mia città, si alzano in volo i seminatori di morte a favore di uno dei paesi più retrivi della platea internazionale.
La stampa e la TV sono affette da inguaribile  strabismo e noi con esse: malattia contagiosa che cerca vie consolatorie alla nostra rimossa disperazione.   

lunedì 15 agosto 2016

La nave va - Bianca Mannu



La nave va

...ha preso l’abbrivio il vento
stamattina
pasticcia il cielo con le nuvole
per voglia
di bugia
Rifatta amica con le pulizie -
ride la casa con le finestre
 e va
come una nave di legni antica
e vele
dialoga col vento dalle imposte
cigolando di senile beatitudine
i legni annosi …
… la nave va …
lungo la gora che si crede
un mare.

Noticina - Dirsi qualche innocente bugia, sapendola tale e per tale amandola,in tempo di crisi aiuta a vivere.B.M.

mercoledì 13 luglio 2016

Su "GLI ANNI DEI SOGNI BREVI" di Franco Pagnotta

Impressioni di Bianca Mannu

Comincia con il bel titolo che picchia sull’immaginazione e allusivamente anticipa la durata e la costanza di un accadere grafito sulle pagine, continua con la nota preliminare di Mimmo Cangemi quasi prologo e anticipazione che sembra far corpo con il seguito. Dichiarandosi compagno dell’Autore per età, esperienze e contesto, Cangemi asserisce di ritrovare la sua storia nelle pagine del libro e intanto, dissimulata nell’onda affettiva della comunanza, sembra porgere una chiave di lettura dell’opera alludendo a certa  sua marca realistica. Infatti attribuisce all’opera di Pagnotta il valore di testimonianza diretta,  d’inoppugnabile e raro documento di un mondo soppiantato da un altro, vincente perché seduttivo, ma amorale, superficiale, veloce e smemorato.
Intanto l’Autore, findall’esordio è già tutto dentro il suo luogo e il suo tempo primigenio, quieto paese di  poche anime con le “rughe” strette ( sarebbero “arrugas” per noi sardi) e le diverse loro animazioni secondo il levare e declinare del sole: paese-mondo.
Capitolo dopo capitolo, ciascuno contrassegnato o annunciato da un motto allusivo o immaginifico, si srotolano le figure mobili di un arazzo che emana suoni, odori, che si illumina colorandosi o mimetizzandosi nella tinta prevalente d’un sentimento percepito come corale, si abbuia popolandosi di bisbigli e di ombre.
 Instaura un tempo lento la scrittura di Franco Pagnotta, tale che le sue scansioni, malgrado il comparire e lo scomparire delle figure, persino drammatico ma senza drammaturgia, sembra non alterare una sorta di fissità da presepe, notturno, diurno, con neve, con pioggia, con sole… Gli interni sono volteggi d’ombre: mani, fronti, sagome chiuse in atti semplici e insieme contegnosi, umide luci di occhi al tremolio di candele. In questo durare del vivere nella bolla allucinata del borgo contadino, nondimeno si sogna: si sogna il buon raccolto che la grandine distrugge, si sogna la tavola imbandita abitualmente sguarnita, si sogna un giocattolo che resta appeso al cordino del giocattolaio, si sogna la pace e intanto si va in guerra o si scontano i suoi esiti, si sogna una vita lunga, per quanto difficile e duramente ripetitiva, ma da consumare con ostinazione nel cerchio familiare e nella relativa uguaglianza nella miseria dei compaesani e invece si muore da vivi nell’emigrazione.
A mano a mano che la memoria fluisce nella pacata discorsività della scrittura, avverti la sua cadenza di canto che si deposita come retaggio etico ed epico, preteso attestato di realtà, ma anche e sopra tutto condensato di valori assoluti e termine di confronto (però già ipostatizzato e perciò perso) con il mondo-altro che l’Autore evoca in allusioni fantasmatiche e negative,  quasi che un demone perverso l’abbia deposto e disposto alla distruzione del virtuoso, mite, benevolo e pacifico mondo dei cafoni, condannati, non si sa come né perché, alla loro insensata e fatale povertà.
Come poema - elaborato, articolato e passato attraverso il filtro personale, talora onirico, a tratti d’una intensità struggente, sempre nostalgico e mitopoietico - il testo si dipana e fluisce tramite un uso del linguaggio sorvegliatissimo e sapientemente modulato, che prende andamento pacato di magro fiume di piana a lambire atmosfere narrative e descrittive di densa tenerezza. 
Ma questa appena detta, che appare ed è una qualità della scrittura di Franco Pagnotta, a mano a mano che il tessuto dell’opera fluisce verso la chiusa, si aggruma talora in ridondanza sentimentale. Essa è poeticamente giustificata finché l’io narrante–poetante ricopre il ruolo di fanciullo ingenuo e sognatore, diventa astrazione ideologicamente sovradeterminata quando l’io poetico vestendo i panni dell’adulto giovane al compimento degli studi superiori compiuti fuoriborgo – lo si vedrebbe smaliziato circa l’interdipendenza delle disparità sociali  e dei loro differenti modelli culturali - sembri incapace di considerare realisticamente le sue esperienze, tanto da gettarle, quasi da ottuagenario, nel buio utero della più buia nostalgia.
Ci saremmo aspettati che l’Autore, pur salvando l’incanto degli
amorosi sensi  relativi al paesello, elaborasse narrativamente e poeticamente più mature e “pensate” relazioni socio-storiche  (e, lato sensu, politiche) che articolavano due realtà solo astrattamente antinomiche e contrapposte.
Ecco che il discorso, invece di asciugarsi in un quadro narrativamente e dialetticamente propenso a cogliere un minimo di oggettività,  si restringe quasi soffocato da un eccesso sentimentale con effetti distorcenti   che ledono la resa artistica. Il peso non sorvegliato dell’atteggiamento pre-giudicante combinato con le prescelte soluzioni formali azionate dall’enfasi affettiva, imprime al discorso una notevole divaricazione rispetto al contenuto  (condizioni reali e cause), posto in posizione recessiva, misconosciuto, quasi convitato spettrale al festino insistito dei sentimenti,  indicato come dato impenetrabile, mezza verità, bloccato rispetto alle sue spinte dinamiche (disagi, desideri, tensioni) verso l’incontro con la parola di verità, quanto si voglia partecipata e, narrativamente e/o poeticamente, risolta. 

giovedì 7 luglio 2016

ESISTENZE-INSISTENZE E STRASCICHI

 "Dettagli di un sorriso" .... Favola nera

Il processo di decodifica e interpretazione di un testo complesso, come quello di un romanzo, da parte di un lettore quasi comune quale io sono, non può dirsi compiuto in qualche giro di frase, anche perché la lettura effettuata continua a frugare il sottofondo esperienziale, culturale, il sistema concettuale e immaginativo del lettore che interroga il testo e se stesso per suo tramite.
 Ma io non avrei scritto ciò che ho scritto e sto per scrivere se non fosse nato un colloquio con l'Autore, il più bello e interessante che  io abbia vissuto in tanti anni di scrittura e frequentazioni fb, ma anche di discreta partecipazione in corpore agli incontri letterari, da cui qualcosa ho desunto.
Per esempio che la platea dei lettori è, non solo, ridotta rispetto alle potenzialità numeriche e alla diffusione delle competenze strumentali, ma superficiale, fissata sul “mi piace” o “salta”, come su fb, o sull’applauso che non viene negato a nessuno, qualunque cosa presenti o legga.
 Gran parte del pubblico legge narrativa con lo stesso atteggiamento con cui consuma hotdog da Mc Donald’s: riempie un vuoto, il vuoto di un momento, che poco dopo si manifesterà come bisogno di acquisizione o di consumazione di qualcos’altro, con esito simile al precedente, a meno che il vuoto dell’animo e quello fisico non venga temporaneamente riempito da alcunché somigli a uno spettacolo, dove ognuno diventa volta a volta attore e pubblico, celebra la voglia di esibizione egotistica o gode di riflesso per quella altrui; e brucia così un pezzo del suo tempo di vita, divenendo “oggetto che gode”: pancia, stomaco, solletico del corpo tramite le facili sinapsi sottocorticali, mentre fuori da questo alveo è noia, è palla, è costrizione dentro il tempo lungo della fatica o del doversi incontrare col proprio sé ignoto che guarda, dunque è inferno da cui  velocemente cercare di uscire … Io mi spiego così, l’enorme platea dei lettori dei gossip: pessima letteratura adatta a stuzzicare curiosità viziose, a semplificare o a mettere in mora il pensiero razionale, a occupare il vuoto mentale.
Valdo, il protagonista del romanzo, malgrado il suo livello di istruzione, possiede in buona misura queste caratteristiche.  Per dirla in altro modo – ma non si può dire tutto subito -  tu, Gianni hai ritratto un personaggio la cui cultura, non solo non riesce a porlo a distanza critica dal reale e da se stesso, ma lo intrappola sempre più nel non senso, espropriandolo dell’inquietudine etica autentica, da ogni sentimento mansueto, da ogni appartenenza umana non abitata dalla ferocia e dal disprezzo.  
Se il tuo occhio e il tuo sentimento si è posato sullo spaccato di mondo dove ciò si verifica e ha permeato in profondità i legami sociali così da mutarli in cosa (potere, denaro,violenza e sopraffazione, inganno…), non è perché tu sei cattivo o mediocre scrittore, ma perché non ritenendo credibili e spendibili certi modelli di apologhi edificanti, per onestà intellettuale devi necessariamente incontrarti con i Valdo e i personaggi, meno carnei, di contorno,  perché sono tipici. Ma se singolarmente considerati sembrano mostri, lo sono solo in sottordine... Insomma non è Valdo il mostro, la mela marcia - benché lo sia come individuo di una morale assoluta - ma mostruoso  è il sistema che lo produce e ne alimenta nello stesso tempo la ferocia e la mancanza di ogni minima forma di empatia umana. E il sistema - che ne seleziona, per dir così, il genoma - si regge sul possesso, raggiunto non importa come: avere cose per avere signoria sugli umani, dominare su di essi o distruggerli, anche perché loro e il Valdo sono replicanti prodotti dalla stessa logica.
È  questo, credo, il materiale per la tua favola nera. Ma come per le favole che finiscono con i lupi che mangiano gli agnelli e dominano sulle pecore, non si dà catarsi etica né drammatica, perché l’istinto narrativo dell’Autore sa  che “a canzoni non si fan rivoluzioni”.  
Ma si può mettere in scena l’ironia amara, lo sproloquio etico consolatorio, le smargiassate e le sviolinate sentimentali per la musica, la passione strumentale e animalesca per le donne, le farneticazioni dove le aporie e gli ossimori sono la traduzione verbale degli scollamenti umani e sociali  e dell’orrore delittuoso stemperato dalla fragile consistenza  dei replicanti e dal fatto che la narrazione  si mantiene, e lo deve, sul piano favolistico e letterario da cui era partita.
Tu, questa mise en scène, riesci a sostenerla in modi che, insistendo sul regime da favola, attingono al tipo di disperazione che caratterizza certi personaggi beckettiani; riesci in alcuni tratti a dare flusso quasi di canto, di poesia, come già detto, alla sequela demenziale dei soliloqui e dei non-sens, così come risulta letterariamente interessante il calibro ben dosato dell’idioma malavitoso che punteggia dialoghi e progetti delinquenziali.    

martedì 5 luglio 2016

Bianca Mannu legge DETTAGLI DI UN SORRISO - romanzo di Gianni Zanata

Non conoscevo niente dell’Autore né delle sue opere. Ora che ne ho una in mano, so  ancora meno di entrambi e forse, a lettura compiuta, non saprò se mi mancava o no. Un incontro casuale, prima che col suo autore, con un suo romanzo: Dettagli di un sorriso. Un “noir”, dicono.
Gli incontri casuali riserbano sorprese, a volte negative, a volte solo piene di punti interrogativi, perché se non hai già pronto un protocollo per la schedatura, lo scritto permane in un limbo di quesiti e saltabecca da una casella a un’altra, finché l’oblio finirà per tingerlo di una patina neutra. Ma se scrivi le tue impressioni, impressioni senza pretese, positive o negative o incerte o ambivalenti, qualcosa del testo resterà scritta dentro di te. Quale migliore omaggio all’Autore, après tout!
Comincio, dunque, a leggere diligentemente una pagina dopo l’altra, galleggiando a pelo di discorso, fino a cogliere i segni di una geografia fisica che mi pare familiare e tuttavia aliena. Una fisicità che scorre in trasparenze discorsive contestuali, che io riscopro nella mia quotidiana esperienza come in un fondo irrisolto, che mi spinge  a frugare nei circuiti narrativi e lessicali altrui – e ciò va annoverato come  loro pregio –  quel mio fondo che mi elegge pianta straniera, mai acclimatata del tutto nella sola terra nativa, ospite ostica. Straniera e avventizia perenne,  annuso nella traspirazione di altri vegetali, locali o allogeni, i fumi delle mie vibrazioni respinte in una sorta di chimismo ancestrale.   
Il filo di Arianna per addentrarmi in questo libro dovrei cercarlo  raggomitolato nel titolo. Ma questa è una  tecnica di lettura che non mi si confà.
Nella tecnica compositiva del fumetto, la rappresentazione del dettaglio racconta più di tante parole e fornisce informazioni plastiche sulla psicologia e sullo stato emotivo dei personaggi. E a furia di dettagliare la presunta unità-identità individuale s’infrange talora irreversibilmente, perciò nel fumetto nessuno muore mai davvero. Il fumetto schizzofrenizza la presunta compattezza dell’altrettanto presunta realtà, assume il dettaglio a categoria esplicativa e/o motivazionale del tutto, rappresenta l’alterazione febbrile, il reale patologico. Il noir letterario corrisponderebbe a questo disegno. È a questo che il titolo,  Dettagli di un sorriso, vuole alludere? Forse.   
Comincio invece come lettore ingenuo e credo che solo strada facendo perderò, se la perderò, la mia ingenuità, vera o presunta che sia.
Ed ecco un, anzi il personaggio, Valdo, baldo e baldanzoso, tutto sciolto nella propria autocontemplazione attiva. Norman, di cognome, uomo del Nord e forse anche uomo di norma… Al tempo.
Un personaggio  alle prese con la propria schizofrenia. Giornalista sui generis, delinquente in subordine e serial killer, troneggia nel testo evocando figure di carta, spettri umani senza vapore di vita.
Se la racconta –il Valdo-io narrante - questa storia senza storia, da capocomico pressoché solitario in un proscenio deserto, intento a trascinare un vuoto di senso da capitolo a capitolo. D'altronde nella follia solipsista tutto si tiene, anche il tutto di niente: ciò che  è dato come la cifra dell’esistente e del pensiero che lo pensa. Questo inferisco.
Però, da delinquente colto, il Valdo tenta persino di connettere la sua vocazione criminale con un mitico e fumoso ritorno della rimossa ferita prodotta da violenza paterna. Ci fa sapere anche che lui opta per la parte femminile, per via del giusto omaggio alla posizione ideologica progressista, lui freddo carnefice di donne! Quasi ricupero atroce di uasiquel bimbo che anela a identificarsi con quello stesso padre feritore.
Il “Freud” semplificato funziona sempre come passe-par-tout dell’animo più oscuro. Almeno un po’ sembra fornire spiegazioni rapide  e razionali.  Poi, buio.
Ma il lato “bello” cioè “etico” del personaggio Valdo è questo: chiamarsi fuori dal suo atroce pantano e tratto tratto snocciolare, a se stesso e per noi,  le sue considerazioni morali  desunte, pare, dal suo tastare il polso alla “gente”, peraltro contumace, destinataria ipotetica e improbabile dei suoi motti.
Se l’intenzione dell’Autore  era  quella di scattare dei flash sul vuoto umano che l’individualismo culturale planetario introduce nella crosta carnea della socialità contemporanea, anche in quella isolana - solo apparentemente fissata in immaginari modelli  recessivi e rassicuranti - possiamo ammettere che vi sia riuscito. Ma a che prezzo! Al prezzo di sottrarre al lettore ogni lavoro dialettico diverso dalla meccanica che, repressa e autoalimentata, tracima verso la soluzione criminosa e la celebrazione egotistica.  Ma quale crimine, poi?  Si può dire crimine, e tremarne, se si continua a trafficare in un “verbale” annientamento di figurine di carta, silouettes senza carattere, macchine per giustificare un gesto che pretende di spendersi come definitivo, letale?  
Manca il racconto, non dico verosimile, ma quello dell’inquietudine, se non della lacerazione. Insomma l’Autore-Valdo se la racconta facile. Ma in qualche tratto la parola del soliloquio, usuale, reiterata, carica di assilli e allusioni, apre un proscenio onirico “alla Beckett”, da cui fuoriesce un flusso che, per la sua indifferenza logica, per l’escussione sequenziale e talora lucidamente demenziale di asserti e marcature macroscopiche, si apre a una sorta di poesia capace di sostenere ogni gratuità, oscurità, caduta di senso.
In fondo lo Scrittore lascia trapelare il sospetto che il dire e il fare narrati siano tutt’uno col farnetico del  protagonista e con la sua sterile ansia demiurgica e punitiva, quasi da giustiziere della notte, ma senza giustizia, senza parvenza d’amore, senza riscatto possibile e senza un vero suolo di gravità. Così la sua paura e lo scambiare una maschera accosciata sui gradini di una chiesa per il fantasma d’un idolo morto. Eccolo lì il Valdo, selvatico e/o dominatore, uomo-norma del suo cerebrale proscenio.
E lì il linguaggio ben padroneggiato dall’Autore, e venato d'ironia, si snoda veloce lungo una corsia che si staglia tra un buon italiano medio e l’inclinazione ben temperata in  direzione di uno slang malavitoso, in sintonia col tempestare delle musiche di “stretta osservanza jazz”, col fluire del whisky e dei suoi fumi, omaggio all’americanismo  culturale che si vende meglio del nostro vino.


giovedì 2 giugno 2016

Su Dove trasvola il falco - poesie di Bianca Mannu

Nota 
Parlare  della propria opera può suonare autoreferenziale, vanitoso. 
Riflettiamo un po'.  La poeta, ancor più del poeta, per la nota e non superata questione che una donna avrebbe ottenuto dalla natura qualche marcia in meno, deve superare più ostacoli per dimostrare, non solo che vale,  ma che esiste. Esistere per altri sembra la facile deduzione di una constatazione. E invece non è così. È  richiesto l'assenso di qualche autorevole testimone, meglio se di sesso maschile, il quale si faccia garante. Garante di che, poi?
Dunque supero questa questione rivendicando il diritto di essere madre di me stessa,  certificando la mia esistenza di poeta con l'esibizione della mia scrittura in righe corte e parlando di essa come mio modo di ospitare nel mio spazio interiore esseri e cose e trasformarli in enti comunicabili. Questi, se sono enti e non solo glifi sillabici, tornando all'esterno si trascinano qualcosa che è parte di me e che è irriducibile alla loro scarna natura, ammesso che esista una natura in sé delle cose e delle persone e non si dia, invece, un continuo processo relazionale che neppure la scrittura fissa per sempre. Anzi la scrittura  rimescola passato, presente, eventuale e inopinabile, sommuove anche scuotendole le cristallizzazioni culturali che tendono ad assolutizzarsi e, ripetendosi, a banalizzarsi.
In Dove trasvola il falco  il mio  discorso fa corpo col mio modo di vivere e di essere sarda, di sentirne la storia, di condividere le ansie e le fatiche delle nostre genti  senza compiacermi e specchiarmi in forme sentimentali declamatorie e dicendo no all'erotismo compiaciuto delle "cartoline"poetiche spesso taroccate, come le foto per risultare adescatrici nei confronti del turista. Oggi propongo in dono un riferimento paesaggistico rivissuto come leggenda.


I Sette Fratelli
 
Arcionati in cresta – sette!
Come i sette peccati capitali –
vicine le teste sul corto collo
a confabulare oscuramente
di orrende cose di terra e di mare.

Hanno – di fraterno –
la somiglianza petrosa
il profilo ferrigno
e lo stare prossimi e ingrugniti
come i giorni della settimana
cui s’è guastata la festa.

Di fraterno gli manca
l’invettiva l’avida mano
e il gesto assassino.

Fraternamente dividono
l’ossuta schiena d’una cavalcatura
che attende al passo le nubi
per fingere di galoppare
sopra gli argentei capricci

del mare.

venerdì 13 maggio 2016

Donna speciale - da Dove trasvola il Falco di Bianca Mannu



Donna speciale  (Brano)

Sono e non sono
quella qualunque donna speciale
che - come un'essenziale
 smarrita e ritrovata
tessera di puzzle -
s'incastona a perfezione
nel tuo quadro.
Per te forse sarei
e forse no - quella.
Ma di certo questa sono
che ti ha colto - mentre cerca -
a cercare turbato quel tu -
senso perduto della tua
contenta immagine
riflessa nello specchio del comò
della tua camera nuziale
 - ora deserta -

Era quel tu - che non dici scontato -
ma ch'era buono e ch'era così poco
che quasi tutto adesso pare
ché non c'è -
l'essere stesso del fervido calore
attribuito per torpidità
d'amore alla casa,
al buon cibo tenuto caldo
per l'Ulisse che ancora sei
- svagato e stanco per la corsa
dietro a Nereidi e Ciclopi
privi di mistero.
 
Era lei il cono di luce
acceso e in libera caduta
sulla tovaglia usuale
e sul tuo piatto solo.
E quella lei - aspettandoti -
il primigenio discorso
ritesseva nella mente -
ma a te davanti mancava
la via delle parole.
E per riscatto incrociava
- muta – il tuo sguardo.

Ed era la sua mano
- tra una posata e un piatto -
tenera e già antica
risaputa non poco
nel monito garbato
che posava sulla tua spalla
leggera e smemorata
il presagio segreto d'un tumulto

che - nell'assenza tua
da un sole all'altro –
cresceva indisturbato
nel cuore del tuo lembo
di creduta terraferma.

Lei - che in quella terra
stando quasi sola
più sola viaggiava
verso il nulla - in sé
portava innescata
quella miccia che forse
non sapendo divinava.
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