Dedico questa breve memoria a tutti gli artisti, autori e lavoratori sacrificati a causa del Covis19, mentre auspico un rinascimento a favore di tutte le forme d’arte e varie installazioni accessibili anche alle popolazioni dei centri più piccoli. (BM)
Ho ri-appreso che Federico Garcia Lorca era di due anni più giovane di mio padre (’898,il primo; ‘896, il secondo). Mio padre non era poeta, ma modesto artigiano. Però era curioso e sensibile nei confronti dei risultati del pensiero creativo. Essendo stato soldato della Prima Guerra, poi operaio specializzato presso grandissime industrie della penisola, era per posizione di classe antifascista, in odore – erroneamente - di simpatie anarchiche secondo il Regime. Egli leggeva tanto e, quando gli capitava, leggeva anche stampa clandestina o semiclandestina. Certo sapeva della cattura e dell’esecuzione di questo grande poeta antifranchista, “non proletario”, ma di notevole ascendenza per censo e per cultura. Ciò che io ho saputo e letto molto più tardi.
Tornato nel luogo natio per tentare di guarire da una grave
pleurite, regalo della Fiat-Lingotto nella Torino gelida e nebbiosa, mio padre
formò famiglia e nacqui io.
Frequentavo la terza elementare allorché piombò con un nullaosta di frequenza nella nostra classe di terza elementare una ragazzina della mia età.
Entrò come dalla finestra aperta una brezza, disinvolta e
sorridente , una Lea Carla chiara di viso e di capelli, che durante le
presentazioni si diede a fare le capriole più azzardate come una stellina del
circo. Sul circo e sui suoi artisti avevo tante volte fantasticato avendoli
guardati dalle panche del pubblico e anche mentalmente invidiati; ma non mi era
mai capitato di frequentarne uno/a di persona. Lascio immaginare il mio
meravigliato gradimento.
L’aula che occupavamo, pure grandissima, parve, addosso a Lea Carla,
troppo piena di banchi; e palpitammo nel timore che le sue evoluzioni la
portassero a urtare sugli spigoli. Noi eravamo rigide, le gambe strette,
incerte e sommesse nel parlare secondo una severità di modelli che lei non
concepiva. Diversamente da noi, fasciate di repressione, lei si lanciava espressivamente in
comunicazioni, richieste, osservazioni,
interruzioni e intromissioni, così disinibite da provocare il nostro ambiguo stupore.
In questa maniera ci informò di essere la più giovane componente
di una larga famiglia di attori girovaghi che faceva tappa nella nostra
cittadina per un mese o forse due, secondo che lo consentisse l’afflusso quantitativo di pubblico
pagante per assistere alle recite. Diverse commedie e drammi, ci disse, stavano
per andare in scena, settimana per settimana, completi di numeri di
avanspettacolo e persino di esercizi circensi.
- Ma no, certo che no! Al cinema Ideal - bar – caffè!
- Ah! E abitate lì?
- Ma che dite? Stiamo all’albergo.
- Ah, perché in paese c’è un albergo? – osservò qualcuna spalancando gli occhi per la meraviglia.
- Ah, già, sì, sì … La locanda di signorina Lauretta – sparò a raffica la figlia del tabaccaio.
Fu così che imparammo che Lauretta era “la donna cannone che faceva pensioni”.
In
breve venimmo informate che il “dietro” del telone bianco, su cui comparivano
le figure del cine, era uno spazio cavo e ampio dove si potevano montare i
quadri delle scene teatrali e dove attori in carne e ossa potevano muoversi e
recitare. Proprio come noi l’anno prima,
seconda classe, quando eravamo salite sul palco dell’asilo per recitare le
poesie di fine anno, dopo l’esame.
Però
quante cose, sulla nostra cittadina e su noi stesse, stavamo imparando in tale minuscolo
squarcio di tempo!
Manco
farlo a posta, il suono della solita campanella ci cacciò quel pomeriggio a
sciamare più ricche e più curiose sulla piazza. Fu una breve corsa quella verso i cartelloni multicolori dell’adiacente
Ideal –bar- caffè, che già annunciavano le programmate rappresentazioni del
fine settimana.
A
casa non feci che cantare meraviglie di Lea Carla e di tutto quanto ci aveva
raccontato. Ero entusiasta e orgogliosa di averla compagna di scuola, mi
dichiaravo a gran voce allieva dei suoi numeri e posture, e già mi disponevo a
imitarli per conto mio, coinvolgendovi anche la mia sorella minore in guisa di assistente.
Nelle
sue uscite serali, il babbo avrà certo conferito col proprietario dell’Ideal e
si sarà informato sul destino momentaneo della sala cinematografica, anche
perché a quel tempo mio padre si prestava a fare da operatore del meccanismo di
proiezione e insegnava ad alcuni giovani
come diventare esperti. Egli infatti riferiva
alla mamma come e perché il proprietario
della sala aveva accettato di affittare temporaneamente il locale a una
compagnia familiare di “guitti bravi”, che metteva in scena testi di scrittori
di fama mondiale. Il babbo stesso sosteneva con la mamma che fruire del teatro
era un’esperienza educativa importante per adulti e bambini.
In
questo modo il sabato sera successivo al primo ingresso di Lea Carla in classe,
babbo mamma e io riuscimmo a prendere posto nel cinema diventato teatro
“gremitissimo” di spettatori seduti e in piedi, dove si recitava “Nozze di
sangue” di Federico Garcia Lorca.
La
cosa che quella sera m’impressionò molto favorevolmente fu l’arredo di scena. Bene illuminata, come sotto una
luce che pareva solare davvero, rappresentava un cortile interno di una casa
con un pozzo al centro e una corona di arbusti verdi intorno. Della storia rappresentata
capii certo ben poco, ma mi parve d’intuire la natura del “fatto”, sulla base
di lembi di dicerie inerenti conflitti
familiari drammatici accaduti per l’addietro in paese. In ogni caso, la mia
familiarità con i film di cappa e spada e con i drammi napoletani facilitava la
captazione del nucleo fattuale, al di
qua dei discorsi noiosi degli attori.
Certo
fu a causa di quella rappresentazione che ebbi per bocca di mio padre qualche
informazione in più sulla sorte triste dell’autore drammaturgo e poeta del
detto dramma, non tanto come risposta alle mie interrogazioni dirette, quanto
in virtù delle conversazioni che
proseguivano tra babbo e mamma, a commento e a contorno degli eventi
teatrali che si compirono in quella fortunata primavera e che per lei, come per
la nostra cittadina, risultavano nuovi,
mentre per lui erano un ritorno a
esperienze simili e non ingenue compiute nelle città del continente. Io li ascoltavo
con quattro orecchie ottenendo più chiarimenti e notizie di retroscena di quanti avrei potuto scoprirne con le mie domande.
Quella
singolare e davvero vivace contingenza risvegliò in me una curiosità verso
quanto mio padre leggeva nei suoi giornali – rimanendo ormai acquisita la gioia
serale delle “sue” fiabe, lette, rilette e rievocate per un sonno felice . Qualche raccontino, qualche filastrocca egli me la
leggeva direttamente dalla terza pagina
del giornale, in occasione di festività che interessavano i bambini. Ecco che imparai ben presto a trascegliere la
terza pagina e a seguire le puntate dei racconti stampati nei feuilleton.
Nota - Ringrazio Google e siti che hanno fornito gratuitamente le immagini.(BM)